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mercoledì 23 dicembre 2015

Buon Natale a tutti! Mele Kalikimaka!

Ci siamo! Anche quest'anno è finito, più veloce e faticoso del precedente e in un lampo mi ritrovo a festeggiare Natale, insieme alle persone che amo, insieme a Voi, sul blog.
Sarà ma quando si diventa vecchi, diventa tutto più faticoso e quest'anno s'è fatto sentire più degli altri.
Per fortuna che non sono mancate le soddisfazioni, la giusta ricompensa per un anno speso a fare sempre meglio e nella maniera migliore.
Quest'anno poi, così triste per i gravi lutti che hanno colpito l'Europa e non solo, ci ha fatto comprendere quanto siamo fragili e inermi difronte la follia umana, la follia fondamentalista, la follia religiosa.
Questo poi è anche l'anno della misericordia, del perdono, ma ovviamente ciò non per la maggioranza di noi, che tanto abbiamo già perdonato e tanto continueremo a perdonare, indipendentemente dal Giubileo, perché siamo troppo buoni, perché siamo troppo generosi, troppo coraggiosi, troppo leali, troppo sinceri.
E in una società dominata dalla mediocrità e dalla vigliaccheria, l'intelligenza e il coraggio sono rivoluzionari.
Voglio augurare buon Natale e buon anno a tutte le persone che mi leggono, a tutti quei 140.000 contatti maturati in 4 anni e mezzo; certamente un risultato di tutto rispetto.
Voglio augurare buon Natale e buon anno a tutti quelli che mi conoscono, a tutti i miei clienti, a tutte le persone che hanno interagito con me in questo velocissimo anno.
Voglio augurare buon Natale e buon anno a tutte le persone che soffrono, in qualsiasi maniera e in qualsiasi luogo.
Voglio fare un augurio speciale a tutti i miei collaboratori, che mi supportano e mi coadiuvano tutti i santi giorni e in particolare a Diego, formidabile tecnological supporter del blog e del sito est consulting.
Buon Natale e buon anno a tutti Voi e come si dice alle Hawaii: Mele Kalikimaka!

P. S.

Per l'anno nuovo 2016 aspettatevi delle novità scoppiettanti qui sul blog! A rileggerci presto!


martedì 22 dicembre 2015

Una riflessione su Licio Gelli.

Morire a 96 anni suonati, (il 15 dicembre 2015), e restare un enigma è roba da record. Non saprei dire se Licio Gelli sia stato, come lo definì il grande Indro Montanelli (che lo conobbe poco prima che Berlusconi comprasse Il Giornale), «un magliaro». Né avrei elementi, e non li ha il 90% degli italiani, per considerarlo una sorta di Sauron (il cattivissimo de “Il Signore degli Anelli”), il male assoluto e invisibile che condiziona le esistenze di tutti. Posso solo dire che, della sua lunghissima vita, Gelli ne ha trascorsa una buona fetta allo scoperto: entrato in massoneria nel ’64, è stato sgamato ufficialmente nell’81 nella sua qualità di maestro venerabile della loggia Propaganda 2. Ma già prima questo ruolo era il classico segreto di Pulcinella. Ne avevano scritto il “solito” Mino Pecorelli, già piduista e direttore di OP, e Roberto Fabiani de L’Espresso in “I massoni in Italia”, un instant book del 1978 (non è necessario rovistare le bancarelle dei libri vecchi: se ne trova un ottimo pdf su internet, che mi pare di avere, chi vuole me lo chieda e mi dia il tempo di trovarlo…), in cui Gelli e la P2 sono citati una trentina di volte. Da ciò il primo dubbio: come mai questa presunta conventicola di delinquenti è stata “sputtanata” solo nell’81, quando già nel decennio precedente l’opinione pubblica aveva elementi a iosa per farsene un’idea? Ed è il primo dubbio. Un altro dubbio me l’ha scatenato, quando ero ancora uno studente, Piero Pelù, l’inquieto leader dei Litfiba. Narra un articolo, apparso nel ’92 (e, a quanto ne so, mai smentito) su L'Italia Settimanale, che Pelù, fresco del successo di “Maudit”, il tormentone in cui il quintetto toscano parlava dei “Misteri d’Italia”, si fosse recato davanti il cancello di Villa Wanda per sfidare il decaduto venerabile, clicca QUI. E che quest’ultimo l’abbia invitato a entrare e, scusandosi per l’assenza di personale, gli avesse preparato il caffè con le sue mani, senza la presumibile “correzione” alla stricnina. Non credo che Gelli abbia stregato Pelù. Ma, a che mi risulta, da allora il frontman ha lasciato perdere il venerabile. E l’aneddoto, comunque, conferma due cose: la focosità del cantante, poi dedicatosi al mainstream con ulteriori successi (che sia diventato anche lui massone?) e le buone creanze del preteso più grande criminale della storia italiana e, forse, non solo. Andiamo avanti: a carico dei piduisti non è emersa, a livello giudiziario, nessuna condanna per associazione sovversiva, terrorismo o quant’altro. Si dirà: giudici corrotti. Forse. Ma allora, prendiamocela col Csm, egemonizzato per oltre un trentennio da Magistratura Democratica, notoriamente mangiamassoni a colazione, che non ha mai censurato gli autori di certe assoluzioni. Cosa è emerso a carico di Gelli, nel frattempo? Qualche maneggio finanziario neppure esagerato e qualche storia di pastette. Roba che avrebbe potuto fare un “cummenda” qualsiasi (e magari pure massone di basso rango) della Brianza. Tutto qui il crimine? Sono convinto di no. E sono convinto che Gelli - il quale, già prima di indossare guanti e grembiule, aveva un passato da spione triplogiochista da ispirare una dozzina di romanzieri fantasiosi - ne abbia fatte di tre cotte. Solo che nessuna di queste presunte nequizie riguarda la democrazia. Non era eversivo, per dirne una, il piano Rinascita Democratica: che c’era di strano a desiderare un sistema presidenziale in un paese disordinatissimo qual era l’Italia dell’epoca? E qui formulo un paradosso: negli ultimi trent’anni si è prodotta tantissima (e in buona parte condivisibile) letteratura “giustificazionista” nei riguardi dell’eversione dichiarata, rossa e nera; perché ora non si può degnare la P2 di una letteratura serena? Quale fu la “colpa” di Gelli? Per caso la pretesa di ridimensionare i partiti famelici che, all’epoca, avevano avvinto l’Italia in una rete clientelare che tuttora condiziona la vita pubblica? A livello giudiziario, ripeto, non è
uscito altro. E allora mi permetto di dare al defunto Gelli lo stesso beneficio del dubbio che tanti danno ad altrettanti boss mafiosi vivi e mai condannati, sebbene di loro si sappia di tutto e di più. E veniamo ora alla vicenda della massoneria e dei servizi “deviati”, a cui si accosta volentieri la storia della P2. I servizi segreti, in qualsiasi democrazia, sono deviati. Il solo fatto che esistano dei “servizi” in una democrazia, dove dovrebbe imperare la trasparenza, è una deviazione. E la massoneria? Il suo concetto di riservatezza è tale da stimolare tutte le dietrologie. Peccato che quando Gelli fu sputtanato ci fosse un fortissimo partito comunista che predicava democrazia sui suoi organi locupletati dai fondi neri sovietici. Il punto è questo: della P2 è assodato il suo ruolo storico di stanza di compensazione tra vari ambienti (militari, culturali, politici, economici e persino spezzoni di criminalità organizzata) in funzione anticomunista. Come mai questo popo’ di presunte nequizie è emerso solo anni dopo che di Gelli “si sapeva”? Ho l’impressione che gli stessi “poteri forti” che si erano serviti di Gelli per contrastare il Pci filosovietico, scaricarono il venerabile quando ci fu la necessità di includere il Pci che tentava lo strappo dall’Urss nel gioco “che contava”. Cioè di onorare il compromesso storico 2.0 (quello post Moro, per capirci). Ed ecco che, nel giro di pochi mesi, il temuto Gelli divenne il male assoluto e, da venerabile, esecrabile. Se la P2, che ha ispirato la fantasia di tutti i complottisti, fosse davvero il male che si dice, sarebbe meglio: potremmo sentirci tutti più buoni, perché sapremmo che il male era concentrato tra Villa Wanda e i 100 metri quadri di qualche loggia. Purtroppo la storia è più complessa e ora c’è la speranza che proprio la dipartita dell’extravecchio venerabile consentirà una lettura più lucida e meno partigiana. In fondo, chi diede la carica contro la P2 furono i giornali “partito” e “di partito”. E questo dovrebbe farci riflettere. Gelli ha pagato essenzialmente una cosa: non fu un tessitore capace, ma “solo” un materassaio (il suo mestiere): uno che riempiva dei sacchi con quel che gli capitava. E quei sacchi, a un certo punto, esplosero. Ma solo perché le cuciture si rivelarono insufficienti a tenere tutta quella roba. Altri tessitori sono stati lasciati in pace, grazie a questo capro espiatorio. E, come è capitato nelle ex repubbliche dell’Est Europa, è stato consentito a molti di loro di sopravvivere al crollo dell’impero sovietico e di riciclarsi nel mondo postcomunista. Loro dovrebbero ringraziare in eterno Gelli e quelli come lui. Gli eterni alibi del politicamente corretto. Io, più umilmente, non vedo l’ora di leggere un po’ di storiografia più seria su queste vicende.

Saverio Paletta


venerdì 18 dicembre 2015

Negli USA Natale arriva a settembre.

Lo sapevate che più del 12% delle donne americane inizia lo shopping natalizio prima di settembre? Un sondaggio rivela come negli Stati Uniti i consumatori comincino a impacchettare regali già in estate.

È ormai da tempo che i negozi sono addobbati con decori natalizi, che in tv si vedono gli spot di pandori e panettoni e che i bambini stilano letterine con richieste di regali fuori dalla portata dei genitori. Se durante lo scorso Natale gli italiani sono stati parsimoniosi e meno spendaccioni, (con un - 6,3% di spesa rispetto al 2013), quest'anno, secondo la Coldiretti, i consumi dovrebbero superare quelli del Natale 2014, trainati dal settore dell'elettronica che ormai da anni fa la parte del leone tra le scelte di regali da porre sotto l'albero.
Nonostante le previsioni positive sui consumi, però, forse, le strade saranno un poco meno affollate del solito: ben il 37% dei consumatori hanno dichiarato, in un sondaggio del Corriere, di voler acquistare solo on-line. Tuttavia, in molti si troveranno come sempre a ridosso del 25 dicembre a correre di negozio in negozio alla ricerca degli ultimi doni, rimproverandosi di non essere riusciti a comprare tutto in anticipo come si erano ripromessi lo scorso anno.
Una ricerca di Statista, rivela che negli Stati Uniti invece non sono pochi coloro che ai regali pensano davvero mesi prima. Secondo il sondaggio, infatti, ben il 16% delle donne e il 9% degli uomini, si dedicano allo shopping natalizio addirittura prima di settembre. La percentuale aumenta con l'avvicinarsi della festività e ben prima che gli spazi pubblicitari comincino riempirsi di spot natalizi, i regali sono già impacchettati in un armadio.
Non è una sorpresa che il grosso dello shopping lo si fa a novembre, quando il 42% del gentil sesso e il 38% degli uomini comincia i primi acquisti natalizi. D'altronde negli Stati Uniti appena finito Halloween,
zucche e ragnatele vengono sostituiti con addobbi meno spaventosi. Sempre in America l'arrivo del Giorno del Ringraziamento, festività secolare nata dai padri pellegrini nel 1600 per ringraziare dell'abbondanza dei raccolti, segna l'inizio del periodo natalizio.
Siamo in pieno autunno e quando in Italia siamo freneticamente alla ricerca dei primi regali, ben l'80% degli americani, in media tra uomini e donne, ha già dato inizio alle compere.
Solo il 20% comincia impacchettare regali all'inizio di dicembre, e in pochi, cioè il 2% delle donne e il 5% degli uomini, attende fino a pochi giorni prima del 25 per dedicarsi alla ricerca di qualcosa che posso fare felici amici e parenti. Forse per questo motivo che le decorazioni natalizie arrivano nei negozi ogni anno più presto.


sabato 12 dicembre 2015

L'utilità delle cose inutili.

Se potessi riavere tutti i soldi che ho speso in automobiline e bamboline. Se potessi riavere tutti i soldi che ho buttato in giocattoli
per me, per i figli, per i nipoti. Se potessi restituire quei barattoli di conserve, salse, sottaceti, surgelati scaduti acquistati al supermercato dove noi uomini siamo mandati a prendere un litro di latte e torniamo con sacchi di futura spazzatura per golosi, non sarei ricco, ma avrei molti più soldi.
Nel tempo delle vacche emaciate, parlare di sprechi, di consumi inutili, di soldi gettati può sembrare un'offesa, ma ciascuno di noi, se ci pensa bene bene, scoprirà che se non oggi, almeno ieri quando le mucche erano un po' più pasciute, molte lire, euro, dollari, dracme o franchi sono volati inutilmente fuori dalla finestra. E ci sentiamo rimproverare di non consumare abbastanza.
Le cifre dei consumi individuali inutili - ma utilissimi per chi di quei consumi vive e lavora - sono, qui nel Grand Hotel America, impressionanti. Calcolando un modesto salario medio di 30.000 dollari e una vita lavorativa di quarant'anni, dall'età di 25 ai 65, un americano guadagna più di un milione di dollari. Di questa somma, almeno il 10% è sprecato in acquisti di nessuna utilità e perfettamente evitabili.
L'elenco dei nostri sprechi fa impallidire anche i tanto deprecati sprechi della pubblica amministrazione e della politica. In un anno, qui negli Usa, spendiamo quasi 11mila miliardi di dollari - quattro volte il terrificante debito pubblico italiano - in consumi.
L'elenco del super-superfluo è fantastico.
Un miliardo per tatuaggi e un miliardo per la tassidermia, (imbottire animali). Quaranta miliardi per avere cura del praticello di casa. Cinque miliardi per acquistare le suonerie dei telefonini, come se quella sinfonia di trombette, cimbali, xilofoni, trilli, rintocchi, pernacchiette compresi nell'apparecchio non bastassero. Cinquecento milioni per palline da golf. E un altro mezzo miliardo soltanto per la abominevole merendina Twinky, celebre per la sinistra capacità di non ammuffire mai ed essere evitata con cura anche dai topi.
Tutto questo elenco potrebbe essere cancellato ora, subito, senza che la vita dei 320 milioni di americani subisse la più piccola menomazione. E ho escluso i tre miliardi spesi in cioccolato per viltà, essendo io goloso di cioccolato purché amarissimo, che pare faccia anche bene, soprattutto ai cioccolatai.
Se il monte dei consumi comprende naturalmente anche la normale spesa per alimentari, magari eccessiva anche quella visto l'incremento dell'obesità, non riesco a non pensare a quelle camice che si sovrappongono a strati nei miei cassetti, come crudeli segnali di ere geologiche, essendo quelle più sotto, dunque più "slim", un ricordo di preistorici girovita.
Guardo con orrore la giostra di cravatte sempre troppo sottili o troppo larghe per la moda, (qui pesano anche compleanni e Natali). Non oso pensare al ciarpame a batterie, (ovviamente scariche e ormai tossiche), nascosto nel fondo di armadi e cassetti o ai bauli di
automobiline, pelouche, giubbini, binari sfusi di trenino, bambolotti, tigrotti, orsacchiotti, lupotti, guardaroba di Barbie, sepolti nel ricordo malinconico.
E non parlo delle borse di mia moglie, perché lei legge questo post, ci vivo insieme e sono, come ogni donna può attestare, tutte assolutamente indispensabili.
Se per un miracolo da alchimista medievale potessimo trasformare tutta la "roba" inutile e dimenticata che abbiamo in casa, se potessimo riavere i soldi spesi in quei caffè consumati per tirar sera al bar, nelle birre bevute a prezzi di rapina nei pub, nei beveroni annacquati degli happy hour, in panini rosicchiati in autogrill per la pigrizia di non portarsene uno da casa, il nostro bilancio, e quello familiare, conoscerebbero un sensazionale miglioramento.
È vero. Se potessi avere indietro i soldi spesi in automobiline e bamboline, quanti soldi in più avrei. Ma quanti sorrisi di bambini in meno.


Vittorio Zucconi

sabato 5 dicembre 2015

Modi di dire 23

Si dice . . . “fru-fru”

Il termine fru-fru, anche fru fru o frufrù, è una voce imitativa che richiama il fruscio delle sottane, lo scalpiccio dei piedi, un frullio di ali e in genere uno scompiglio, un'agitazione di suoni sommessi e prolungati. Dalla fine del XIX secolo, usato al plurale, serve a indicare l'insieme di pizzi, nastri e decorazioni tipici del vestiario femminile del tempo e, usato come aggettivo, da l'idea di frivolezza e leziosità di modi e di pensiero, per esempio “un abitino un po' fru-fru” oppure “una ragazza fru-fru”. L'origine del termine, oggi internazionale, è francese, frou-frou, e probabilmente richiama la prima sillaba del verbo frotter, “sfregare, strofinare”.,


Si dice . . . “a occhio e croce”

Significa stimare in modo empirico e non preciso, dare una valutazione approssimativa di qualcosa. L'espressione deriva dal gergo degli antichi tessitori e la ritroviamo già nei trattati del XV secolo sull'arte della tessitura a Firenze. Agli artigiani poteva capitare che lavorando al telaio si sfilasse l'ordito, (i fili tesi in verticale), e si perdesse così la forma di croce che esso forma con la trama, (i fili intrecciati in orizzontale nella lavorazione del tessuto). In quel caso il tessitore era costretto a riprendere i fili a uno a uno “a occhio e croce”, cioè senza l'aiuto del macchinario, per ricostruirne la perpendicolarità e poterli ridisporre sul telaio.


Si dice . . . “a tutto spiano”

La locuzione “a tutto spiano” significa, (riferito per esempio a lavorare, correre ecc.), il più possibile, a tutta forza, senza limiti. L'espressione trae origine dall'antico mestiere dei fornai. Nella Firenze del Medio Evo infatti, lo spiano era la misura della quantità di grano assegnata a ciascun panettiere dal “magistrato dell'abbondanza” per preparare il pane di ogni forno o cottura. Per esempio : “a mezzo spiano” significava poter usufruire di una quantità ridotta di frumento, mentre “a tutto spiano” era la quantità massima. “Spiano” deriva da spianare : in antico “spianare il pane” significava dare la forma dei pani alla pasta.


Si dice . . . "tutto va bene, madama la Marchesa"


L'espressione "tutto va bene, madama la marchesa" si usa in genere in senso ironico, per indicare una situazione molto negativa, in cui non va bene nulla, ma che si cerca invano di minimizzare. La frase deriva dal titolo della versione italiana, (interpretata tra gli altri da Nunzio Filogamo), di una canzone francese del 1934 : "Tout va tres bien, madame la Marquise". Il testo racconta di una nobile che si informa al telefono sulla situazione al suo castello, ricevendo paradossali rassicurazioni dal maggiordomo che intanto descrive una situazione catastrofica con incendi e suicidi in atto.


Si dice . . . “non essere né carne né pesce”

Il detto vuol dire non avere caratteristiche distintive definite e può indicare qualcuno insignificante o privo di personalità. Il modo di dire si trova anche in altre culture europee con diverse varianti. L'origine è gastronomica in quanto un tempo la cucina distingueva gli alimenti di origine animale, soltanto nelle 2 grandi categorie di carne o pesce e forse si rifà all'obbligo di mangiare di magro di venerdì e in Quaresima. Se infatti i cibi dovevano essere classificati in base al loro utilizzo, qualcosa che non fosse né carne e né pesce presentava un problema di catalogazione.


Si dice . . . “essere un istrione”

Il termine “istrione” indica un attore che recita con enfasi esagerata per attirare applausi e, per estensione, una persona che assume pose false, teatrali, esibizionistiche. Il termine ha origini antiche : viene dal latino histrio-nis, a sua volta dall'etrusco Histria, colonia greca sul Mar Nero da cui sarebbero provenuti i primi giullari e mimi. Era infatti in origine il termine dato agli attori etruschi che agivano a Roma in spettacoli gestuali, di danza e musica ; in seguito divenne il nome degli attori professionisti. Una categoria che raggiunse grande importanza e popolarità sotto l'imperatore Augusto.



Si dice . . . “alla garibaldina”

L'espressione indica azioni intraprese senza troppa attenzione e cautela, cose fatte in maniera forse avventata, ma con slancio e spavalderia. L'espressione è un chiaro riferimento ai metodi di combattimento di Giuseppe Garibaldi (1807-1882), “l'eroe dei due mondi” che costellò la sua vita di imprese militari audacissime sia in sudamerica che in Europa. In particolare ci si rifà alla Spedizione dei Mille, (1860), in cui il comandante nizzardo partì alla volta della Sicilia alla testa di soli 1084 volontari in camicia rossa nell'intento, in apparenza con scarse possibilità di successo, di riunificare la nazione italiana.


Si dice . . . “dare il colpo di grazia”

Significa infliggere un attacco fatale a qualcuno che si trova già in condizione di difficoltà. Il riferimento è ad un gesto che si consumava in guerra o dopo un'esecuzione: era il colpo letale inferto a un combattente ferito allo scopo di evitargli le atroci sofferenze di una lenta agonia. Il “colpo di grazia” veniva di solito inferto a fine battaglia con una particolare daga, chiamata proprio “misericordia”, in genere da un uomo di chiesa. Più di recente, con l'introduzione della fucilazione per eseguire una condanna a morte, il colpo di grazia viene comminato con una pistola alla nuca, in genere dall'ufficiale a capo del plotone.


Si dice . . . “dulcis in fundo”

E' una frase che vuole avere il significato de “il dolce (viene) in fondo”, ed è usata nel linguaggio comune per indicare una situazione che si conclude con l'evento più bello. Ma è utilizzata anche in chiave ironica, per esempio: “Abbiamo fatto tutta la strada a piedi, eravamo stanchissimi e, dulcis in fundo, si è messo a piovere”. Di questa locuzione in latino maccheronico, forse medioevale, non c'è traccia nella letteratura classica. Si tratta di un motto popolaresco, il che è confermato dal fatto che dulcis non ha in latino il significato di “piatto di dolce”, ma è un aggettivo e in fundo si tradurrebbe non “alla fine”, ma “dentro la tenuta agricola”.



Si dice . . . “qui casca l'asino”

L'espressione indica un punto critico, un momento di difficoltà molto duro da superare. La frase si riallaccia al cosiddetto “ponte dell'asino”, un passaggio critico da cui i somari, (metafora degli individui meno dotati), rischiano di cadere. Alla base vi è il motto latino pons asinorum che definiva uno schema di comportamento mentale studiato dalla Scolastica, (la filosofia cristiana del Medioevo), che consisteva nel porre un allievo difronte a concetti e problemi astratti di difficile comprensione o a vere prove di abilità, in modo da valutare così il livello delle sue capacità intellettuali.


martedì 1 dicembre 2015

Orizzonte rosa. Amo la moda ZEN ma non voglio farmi monaca.

Sarà una cosa tipicamente femminile, ma io ho l'ossessione dell'ordine. Mi sembra sempre che in casa mia ci sia un angolo che va sistemato, un tavolo da sgomberare, vestiti da regalare, documenti da archiviare e una quantità di cose da buttare via.
Gli stessi pensieri mi accompagnano in ufficio. Appena arrivata, vedo le carte che si accumulano, le riviste e giornali da buttare, per non parlare delle montagne di inviti a eventi scaduti da tempo. Ma anziché gettarmi a capofitto nell'autodafè definitivo che mi riempirebbe di soddisfazione, mi precipito al computer, (il cui schermo trabocca di cartelle da riordinare), e clicco su "mail", nemmeno fossi la presidentessa dell'Agence France-Press e il mio dovere fosse quello di ricevere informazioni freschissime da diffondere in tempo reale.
Una volta letti tutti messaggi e messa la coscienza a posto, mi capita di consultare qualche blog, Instagram o Pinterest, dove ammiro gli scatti dei fotografi senza nome che predicano il minimalismo. Una foto raffigura soltanto una tazza da caffè bianca piena di latte, (su sfondo bianco, beninteso) ; un'altra una felpa grigia, una pochette di pelle bianca che fa pensare a una busta, (per cambiare, fotografata su sfondo grigio chiaro). Una volta ho perfino visto un muro bianco, da cui faceva capolino un interruttore.
Tutto talmente Zen che perfino un giapponese del 18º secolo sembrerebbe un po' troppo vuoto. A ogni modo, per carità, anche se sembro ironica, io certe cose le adoro! Sì, vedo ragazze bionde con indosso nient'altro che un jeans sbiadito e una maglietta bianca, persi in uno spazio dove gli unici elementi decorativi sono un fiore in una bottiglia e il grande tavolo su cui sono appoggiati.
Beh, trovo tutto questo straordinario! Sogno atmosfere così spoglie e pulite che sembrano trasformare un paio di espadrillas, una camicia azzurro cielo o una scala di legno in autentiche opere d'arte.
Ovviamente casa mia, che ricorda più la bancarella di un mercatino delle pulci o un robivecchi di provincia e il mio guardaroba, composto perlopiù da maglioni blu e vestiti immettibili, sono ben lontani da quello stile monacale. Ma è difficile non farsi influenzare dalla rete dei social network, soprattutto oggi che nessuna conversazione, nessuna riunione, nessun appuntamento di lavoro, trascorre senza un accenno a questi nuovi mezzi di comunicazione.
Ho perfino scoperto che, grazie a questi strumenti contemporanei, è possibile innaffiare le piante a distanza, dar da mangiare al gatto, assicurarsi che il figlio si lavi i denti e calcolare il tempo di esposizione al sole, per ricordarsi quando bisogna rimettere la crema solare. Esiste addirittura un sito che permette di spedire lettere alle persone scomparse, per raccogliere un certo numero di omaggi al defunto ; anche la nonna si può archiviare nel computer.
A proposito di influenze : visitando con mia figlia diversi negozi di semi-grande distribuzione, o avuto modo di constatare come tutti tentino di imitare l'eleganza sobria e spoglia di Cèline.
È un fenomeno eclatante, ma che spesso, ahimè, manca di qualità e bellezza. Si tratta anche in questo caso di minimalismo, e l'impressione è che basti procurarsi una borsa, una camicia firmata da Cèline, perché la propria interiorità e la vita intera diventino chiare, limpide e stilizzate.
Oggi che i computer ci aiutano a riordinare le nostre foto, i file, i documenti scannerizzati, che Google ci promette di devolvere denaro alla ricerca scientifica, per farci morire il più tardi possibile - e quasi sicuramente di creare nel giro di breve tempo, degli avatar perfetti a nostra immagine e somiglianza, ma migliori di noi - credo che personalmente aspetterò un pochino, prima di uniformarmi a quell'ideale di donna.
Non vorrei rischiare di diventare un ologramma vestito di bianco, in un salotto tutto bianco, che legge una rivista talmente "minimal" da aver rinunciato perfino ai caratteri tipografici.


Ines de la Fressange

sabato 28 novembre 2015

L'altruismo come incentivazione psicologica, per vivere e lavorare meglio.

Uno studio condotto presso la Duke University e la University of Texas di Austin, evidenzia che fra le persone anziane impegnate nel volontariato, l'incidenza della depressione è notevolmente più bassa
che nella media. E da uno studio della Johns Hopkins University emerge che corrono meno rischi di essere colpiti dall'Alzheimer, avendo più probabilità di dedicarsi ad attività che sviluppano il cervello. Non solo : attraverso il volontariato, chi ha perso il suo ruolo di genitore o sostentatore economico della famiglia, è in grado di tornare a sentirsi utile.
Gli studi sugli effetti della generosità in ambiente lavorativo, offrono risultati altrettanto clamorosi. Ad America OnLine e all'Huffington Post offriamo ogni anno ai nostri dipendenti, tre giorni retribuiti da dedicare al volontariato nelle rispettive comunità, e doniamo in beneficenza fino a 250 dollari l'anno per dipendente. Uno studio condotto nel 2013 dallo United Health Group evidenzia che questo tipo di programmi porta a un incremento dell'impegno e della produttività. Tra gli altri risultati emersi dallo studio:
1 - Oltre il 75% dei dipendenti che hanno fatto volontariato dichiara di sentirsi più in salute.
2 - Più del 90% dichiara che il volontariato ha migliorato il suo umore.
3 - Più del 75% riferisce di sentirsi meno stressato.
4 - Più del 95% dichiara che il volontariato ha incrementato la sensazione di avere uno scopo nella vita, (cosa che, a sua volta, rafforza le funzioni immunitarie).
5 - I dipendenti che hanno fatto volontariato, dicono di aver migliorato la loro capacità di gestire il tempo e comunicare con i colleghi.
Un altro studio ancora, stavolta realizzato da ricercatori della University of Wisconsin, dimostra che gli impiegati capaci di dare sono più portati alla collaborazione, più dediti al lavoro e più fedeli al loro impiego. "L'altruismo non è una forma di martirio, ma la componente essenziale di un sistema di incentivazione psicologica sano", dice Donald Moynihan, uno degli autori dello studio.
Un sistema di incentivazione psicologica che andrebbe integrato nel nostro modo di concepire la sanità. "Se una persona vuole vivere più a lungo, più felice e più sana, deve seguire tutte le classiche indicazioni del medico", spiega Sara Konrath della University of Michigan, "Dopo di che deve anche ... uscire di casa e mettere un po' del suo tempo a disposizione delle persone che ne hanno bisogno. È la terapia dell'interesse per gli altri".
Chi è capace di dare, infine, ha anche migliori chance di fare carriera. Nel suo bestseller Give and Take, il docente della Wharton School Adam Grant, cita alcuni studi dai quali si evince, che dedicare il proprio tempo e le proprie energie agli altri, finisce per favorire il successo.
Gli ingegneri con la maggior produttività e il minor tasso di errori, sono anche quelli che fanno più favori ai colleghi di quanti ne ricevano. I negoziatori di maggior successo sono quelli che si concentrano non solo sui loro obiettivi, ma anche sull'aiutare le controparti a conseguire i loro. Grant cita a riprova ricerche secondo le quali, le aziende guidate da amministratori delegati più inclini a "prendere", finiscono per avere profitti più altalenanti e volatili. Gli obiettivi aziendali dei capi azienda inclini a "dare", invece, vanno al di là dei profitti a breve termine.
Negli Stati Uniti, un buon esempio di azienda impegnata nella promozione della generosità è Starbucks. Sotto la guida di Howard Schultz non solo ha istituito il Create Jobs for USA - iniziativa volta alla creazione di impiego che, oltre a raccogliere più di 15 milioni di dollari, è riuscita a creare e mantenere oltre 5000 posti di lavoro - ma negli ultimi due anni ha anche promosso più di un milione di ore di servizi socialmente utili e resi da dipendenti e clienti alle loro comunità.
Spiega Schultz che, dietro queste iniziative, c'è la convinzione che "Il profitto in sé resti un obiettivo vacuo, se non è sorretto da scopi più alti". E che il suo scopo è, sì, quello di massimizzare le prestazioni, ma farlo aprendosi alla comunità e soddisfacendo la clientela.


Arianna Huffington

sabato 21 novembre 2015

W il frigorifero ! E impariamo ad usarlo meglio.

Se, come è probabile, il nome di Nathaniel Brackett Wales non vi dice niente, è arrivato il momento di dedicare a questo inventore americano un pensiero. A lui, dopo secoli di tentativi poco pratici, dobbiamo qualcosa che tocchiamo, usiamo, benediciamo e malediciamo ogni giorno : il frigorifero.
Fu un secolo fa, esattamente nel 1914, che Wales brevettò la macchina che sarebbe stata poi prodotta e commercializzata da una società americana chiamata Kelvinator. Un'invenzione che si materializzò nella famiglia sotto forma di un monumentale frigorifero marca Crosley, che credo pesasse da solo come tutta la famiglia insieme.
Ma l'invenzione del sensazionale elettrodomestico portò con sé, come tutti i prodotti dell'instancabile capacità umana di inventare, cambiare e trafficare, una serie di effetti secondari che neppure la costante evoluzione del macchinario ha risolto, e ha semmai complicato.
Ci sono conseguenze sui rapporti di coppia, tradotti nelle liti scaturite dal vano rovistare dentro la gelida caverna bianca, alla ricerca di alimenti che, per misteriose ragioni ormonali, le femmine della nostra specie sanno sempre dove siano e i maschi non riescono mai a trovare ; le ricerche più avanzate sospettano che la differenza si spieghi col fatto che, siano prevalentemente le femmine della specie a riporvi gli alimenti, mentre i maschi fingono di essere molto occupati a fare altro, per esempio a guardare la partita.
Il "frigor" come ancora qualcuno dice, o frigo, poi maggiorato dal freezer, ha generato tonnellate di temuti avanzi, custoditi nell'illusione che, rinchiusi nel freddo caveau, possano durare per sempre e avere più successo tra un mese di quanto ne abbiano avuto ieri sera. Ha dunque funzionato anche da magnifico laboratorio di cultura per batteri e microrganismi, che sbocciano sotto forme di barbette verdognole, muschi grigiastri e pungenti aromi.
C'è una vita segreta, nel grembo del frigo, che ha creato racconti dell'orrore, mai ufficialmente confermati dalla scienza, di involtini ai quali spuntano zampette e yogurt scaduti che imparano a pronunciare le prime parole.
L'evoluzione del frigo, dalla lontana ghiacciaia, ha generato una gerarchia di scomparti, zone, destinazioni, sensori, (e ventole che continuano a gemere nella notte, forse perché soffrono il freddo), che rendono il semplice gesto di riporvi alimenti un percorso di biochimica. Una commissione di quattro esperti, un ingegnere del consorzio fabbricanti di frigo, una nutrizionista, una biologa e una specialista di quella che un tempo si chiamava "economia domestica", hanno cercato di razionalizzare in un manuale l'uso di quello spazio.
Spiegano che le uova vanno lasciate nei contenitori e messe a metà del frigorifero, dove la temperatura media, fra i 2 e i 3 gradi centigradi, è stabile, perché pare non amino gli sbalzi. La frutta non va mai accostata alla verdura, perché emette etanolo che accelera l'appassimento. Latte, latticini e panna sempre sul ripiano più basso e sul fondo dello scaffale, dove fa più freddo. Condimenti, salse, maionese, senapi vanno benissimo negli sportelli, perché contengono conservanti come aceto o sale. I formaggi duri non richiedono le zone più gelide, ma quelli molli si, dentro un contenitore stagno. E anche la farina, s'è messa nel freezer, dura sei volte più a lungo che in dispensa.
Cipolle e patate mai nel frigo, e lontane le une dalle altre, perché i gas emessi dai tuberi le fanno marcire. Bene invece i fiori freschi recisi, che al freddo resistono di più, anche nello scaffale più alto insieme con bibite, lattine e bottiglie. E se avete una scorta di rossetti preferiti, il freddo li conserva più a lungo di quanto resistano nell'armadietto del bagno. Magari accanto all'acqua di colonia, che nel frigo conserva la propria fragranza, ma non i profumi.
E se avete un frigorifero grande con poco da metterci dentro, riempitelo di bottiglie di acqua : funziona meglio e consuma meno quando è più pieno.
Rossetti a parte, ora proverò diligentemente a ristrutturare il contenuto dell'invenzione di Nathanliel Brackett, per celebrare i cent'anni, massimizzare la durata, e ammirare il perfetto ordine militare di tutto.
E poi chiamo mia moglie per scoprire dove ha messo la senape.


Vittorio Zucconi

sabato 14 novembre 2015

Charlie Hebdo e Rick Owens : due facce della libertà o il declino dell'Europa ? #PrayForParis

In Francia si è già smesso - ahimè un po' troppo velocemente - di parlare degli eventi tragici accaduti a gennaio. Non vi saranno certo sfuggite le fotografie : milioni di persone che in piazza brandivano matite o impugnavano cartelli con la scritta "Je suis Charlie", e l'afflato del nostro paese è riecheggiato in tutto il mondo. Se è vero che tanta violenza ha ferito gli spiriti, ha però anche avuto il merito di ricordare a tutti il significato della Repubblica, del diritto e della laicità.
Personalmente, ho provato non poco orgoglio all'idea di far parte di un paese capace di dimostrare con tanta spontaneità la sua collera, il suo dolore e il suo coraggio. Ho visto per strada i manifestanti fermarsi davanti ai poliziotti appostati sui tetti, per applaudirli e intonare sommessamente la Marsigliese, quasi come ringraziamento, oltre che per piangere la morte di tanti di loro.
Per gli habituè delle manifestazioni, che solitamente sono persone di sinistra, ex sessantottini, si è trattato di un'immagine del tutto imprevedibile, ma anche, devo dire, assolutamente sconvolgente, e non mi vergogno di confessare che mi sono venute le lacrime agli occhi.
Per tutte quelle persone, la libertà di parola, di satira, di stampa, l'individualità e perfino l'ateismo erano diritti fondamentali, e tutti eravamo pronti a difenderli. Ci siamo ricordati di essere il paese dei diritti dell'uomo!
E a proposito di "uomo", (anche se ovviamente nel caso dei diritti si intendono pure le donne) : qualche giorno dopo, a Parigi, ci sono state le sfilate, per l'appunto quelle della moda uomo.
Lì il gioco diventa quello di immaginare il proprio marito, uno zio o il vicino di pianerottolo con indosso una di queste tenute, fotografatissime sulle riviste e distribuite in tutto il mondo, che fanno sembrare i modelli degli astronauti di ritorno da una vacanza studio a Las Vegas, o degli esploratori alla indiana Johnes che di punto in bianco abbiano deciso di dirigere una multinazionale.
Talvolta sono modelli prepuberi e anoressici, che ci presentano i loro completi tre pezzi, indossando sul viso tutti i dolori del giovane Werther. Per rendere più accattivante uno smoking, questi efebi prediligono talvolta pantaloni corti, e alla base del loro guardaroba può esserci un tripudio di stampe colorate.
Aaaargh! Piango le povere redattrici di moda costrette ad assistere per giorni e giorni interi alla nascita di questo nuovo uomo, che possiede più calzini a mezza caviglia di quante borsette ci siano negli armadi di noi signore !
Ma quest'anno c'è stato anche un vero e proprio evento, che non sarà sfuggito a nessuno : la sfilata di Rick Owens.
Se non sapete di che sto parlando, smettete all'istante quel che state facendo e "googlatela". Perché questi signori in ampie vesti, dovete sapere, usufruivano di una piccola apertura nel tessuto, sapientemente piazzata, che lasciava intravedere ciò che di solito è nascosto assai.
Si, care signore, proprio una parte di ciò che gli uomini considerano il bene più prezioso. Per dirla chiaramente non avevano le mutande. Ah, il resto del corpo era coperto a dovere, ma come succede per le campane, a far rumore è stato il più piccolo dei dettagli.
Si è molto riso, naturalmente, e immagino che qualcuno sia anche rimasto scioccato, ma in fin dei conti la moda non dev'essere convenzionale, ne è tenuta al buon gusto, e ancor meno ha il dovere di piacere a tutti. Nessuno è costretto al bello, e nessuno ha il diritto di imporre un'uniforme. Tutto è possibile, e chi può dire quale sarà la moda del futuro?
Dopo quest'inizio d'anno che ha visto la Francia finire sulle prime pagine di tutto il mondo, mi sono detta che in un paese totalitario non potrebbe mai esserci né un Charlie Hebdo, non è una sfilata di Rick Owens, e che i diritti dell'uomo sono anche questo.


Ines da la Fressange

Intanto ieri, venerdì 13 novembre, a Parigi, ritorna la follia assassina del fondamentalismo islamico : 

sabato 7 novembre 2015

Orizzonte rosa. Quel cassetto inviolabile, la nostra zona rossa.

Per quanto una pensi di non avere granché da nascondere, per quanto racconti, senza veli e senza vergogna, di sé e del proprio mondo, per quanto apra con entusiasmo e spudoratezza la sua casa e la sua cucina, convinta che, come dicono alcuni, the more the merrier e che, come dicono altri, nel più ci stia il meno, per quanto covi il sogno recondito di vivere in una comune in cui siano banditi le porte e il concetto di proprietà, esiste sempre un giardino, una stanza, un cassetto inviolabile.
Tutti noi, per quanto aperti e disinibiti, abbiamo un posto intimo e privato, un terreno, più o meno ampio, recintato e invalicabile, una zona rossa il cui ingresso è severamente vietato agli estranei.
La mia zona rossa è il tutone diserotizzante che mi infilo quando lo sfinimento vince sul senso estetico. È la domenica, quando a mezzogiorno non siamo ancora vestiti e ci trasciniamo come zombi in preda all'accidia. È una cena a base di pane, prosciutto e cioccolato, è la chiave nella toppa che si chiude senza fare rumore perché la solitudine diventa un'urgenza, è il tango con il casquet ballato con i miei figli in corridoio, è la radio a tutto volume mentre preparo le polpette ancheggiando, è il ripasso dei verbi con mio figlio, quando lui spegne il cervello e io accendo la strega urlante.
La mia zona rossa sono le mattinate da homeworker in cui traccheggio e mi perdo per ore, per poi, in preda a senso di colpa e livore, chiudermi in uno stress iper produttivo e velenoso. Sono l'insofferenza verso quattro maschi ingombranti e chiassosi, il pozzo nero che mi artiglia, l'euforia molesta e il malumore improvviso, ancor più molesto. La mia zona rossa siamo io e la mia famiglia, quando scaviamo il fondo del barile di noi stessi e troviamo le ragnatele, il buio e i mostri.
Per il secondo anno consecutivo, abbiamo deciso, per compensare le assenze dell'economista marxista itinerante e le presenze della mater familias stanzialmente sfinita, di accogliere per qualche mese una ragazza alla pari. È americana, è cresciuta in una comunità hippie del New England, sogna, da grande, di aiutare gli adolescenti disorientati, è lieve, ridanciana, discreta. Praticamente perfetta. E poi è femmina e per me, abituata al testosterone e alle bizze di quattro coinquilini maschi, la convivenza con una donna rappresenta pura beatitudine.
E nonostante non sia un'esperienza nuova, avevo dimenticato cosa significhi accogliere un'estranea sotto il mio tetto. Non sto parlando dei cambiamenti nella quotidianità spiccia - l'acquisto di 4 litri di latte in più ogni settimana, l'introduzione del burro di noccioline nella dispensa, le visioni apocalittiche quando esce la sera e alle due di notte non è ancora rientrata - ma della necessità di aprire la zona rossa e di mettersi in gioco, senza ritegno e senza veli.
Perché è possibile fingere di essere quello che non sei, mantenere un contegno, evitare il tutone diserotizzante e la metamorfosi in strega urlante, essere promozionale ed esemplare, per un tempo limitato.
Ma quando qualcuno si insinua in modo capillare e cronico dentro il terreno recintato della tua intimità, le barriere inevitabilmente cadono una dopo l'altra e la tua essenza, pubblicamente mascherata dietro una patina di rispettabilità, esce allo scoperto prepotente e impudica.
Così, a un mese dal suo arrivo, lei è ormai parte di noi, ha, forse suo malgrado, poveraccia, scandagliato gli abissi dei nostri lati oscuri, assistito alla caduta di ogni resistenza, conosciuto ciò che nemmeno mia madre, grazie al cielo, conosce.
Attraverso il suo sguardo sornione, ho guardato la mia famiglia allo specchio. E talvolta è stato scioccante. È una pratica di autocoscienza utile e costruttiva, per quanto destabilizzante.
Dopo questi 30 giorni lei non è scappata, io mi faccio molte più domande e mi metto parecchio in discussione. Forse è un buon risultato. Senz'altro è terapeutico.


Elasti

domenica 1 novembre 2015

La pazzia di San Francesco che salva il mondo.

Non sapevo chi fosse quel signore con un saio marrone ma mi affascinava. Un giorno - avrò avuto tre anni, non me ne ricordo e i miei genitori hanno fatto da testimoni, nel tempo, del fatto - ho chiesto a mia nonna chi fosse, quel tale con le colombe in mano. " E' il Santo che ama tutto e tutti, a partire dagli animali", disse mia nonna.
Io rimasi stupito e le ho risposto : "Ma allora ama anche i cattivi?" "Specialmente quelli", fece lei, e tutti scoppiarono a ridere. Io ero contento e credo che da quel momento, come sempre fu in futuro, ho voluto bene a quel signore. Anche quando facevo il cattivo. Perché la grazia con cui teneva tra le mani quei piccioni era infinita, è chiaramente rivolta a tutti.
Così spesso andavo vicino alla statuetta del Santo e gli parlavo. Prima di confessarmi dal parroco, di solito il sabato, discutevo a bassa voce con lui, gli rivelavo le mie colpe.
I peccati dei bambini sono semplici, e per natura il bambino non complica le cose. I miei peccati, alla fine, erano sempre quelli : qualche parolaccia, distrazioni alla messa e certe intemperanze con i genitori che avevo in comune con tutti i miei coetanei. Lui non mi rispondeva, perché era una statua, ma capivo che profondamente mi ascoltava, e che amando tutti mi amava. Più dei miei genitori, che qualche volta si arrabbiavano con me.
Ma anche più di me stesso, che ero spesso arrabbiato proprio con l'unica persona che non avrei mai potuto evitare, quella che mi accompagnava dal mattino alla sera nella vita di bimbo. Così il Santo che amava proprio tutti entrò nella mia vita, piano piano, giorno dopo giorno, e ne ebbi conferma quella volta che in qualche modo mi trovai ad agire spinto proprio da lui.
I bambini, si sa, possono essere molto crudeli nella loro innocenza.
Così un giorno sorpresi un mio amico a fare uno strano e crudele gioco. Lanciava le freccette contro le lucertole. Credo che trovasse la cosa molto divertente, perché era molto entusiasta e mi invitò a fare lo stessa cosa. Io pensai a San Francesco e subito gli strappai di mano la freccia che stava puntando, gli dissi che non avrebbe dovuto farlo mai più perché San Francesco non voleva, e perché San Francesco, che ama tutti, ama anche le lucertole, e addirittura ama pure lui, che è cattivo anzi cattivissimo, visto il gioco scemo e violento che stava facendo. Lui mi ha guardato in modo molto strano. Credo mi avesse preso per pazzo. Ancora non sapevo che proprio quel santo, in nome del quale quel giorno avevo appena agito, era ritenuto anche lui un pazzo. Pure, grazie a quella pazzia, il mio amico non ha più fatto quel gioco. Me l'ha confermato parecchi anni dopo. Quando, ormai grandi, ci siamo rivisti. Quando, ridendo, abbiamo detto che anche le lucertole del nostro paese devono ringraziare San Francesco.


Aldo Nove

giovedì 22 ottobre 2015

Arriva Halloween tra folklore e business.

Negli Usa i costumi di Halloween vengono comprati anche per cani e gatti. Con l'arrivo dell'autunno e dei primi freddi, i festaioli di tutto il mondo hanno gli occhi puntati sull'appuntamento ormai imperdibile di Halloween.

La notte di Ognissanti è anche in Italia un fenomeno diffuso e ormai Halloween è stato adottato dalle nostre tradizioni. Sebbene si abbia ancora la percezione che sia una festività straniera, i ragazzi, e i meno giovani, cercano un locale dove passare la serata e sfoggiare il proprio costume e molti bambini bussano alle porte chiedendo dolcetti in regalo, ed è anche meglio accontentarli visto che altrimenti potrebbero riservare degli scherzetti.
Con un'unica eccezione nel 2013, quando i consumi dedicati ad Halloween sono diminuiti del 10%, negli ultimi anni la Coldiretti ha registrato un trend crescente di spesa, con le famiglie italiane che dedicano un budget sempre più elevato all'acquisto di zucche, arredi spaventosi e costumi. L'ammontare dei consumi annuali è nell'ordine dei 300 milioni di euro: il picco si è avuto nel 2014, con circa 350 milioni. Per una festività relativamente recente, sono numeri di tutto rispetto.
Tuttavia, se consideriamo il luogo dove la festività pagana è nata e cresciuta, cioè il mondo anglosassone e in particolare gli Stati Uniti, il paragone non regge. La febbre di Halloween infatti non coinvolge solo adulti e bambini. Nel 2014 gli americani hanno speso ben 350 milioni di dollari, per acquistare costumi di Halloween per i propri animali domestici. In pratica l'intero ammontare, (o quasi, dato il cambio euro/dollaro), dei consumi italiani, sono stati dedicati per vestire a festa solo cani e gatti.
I costumi per adulti fanno sempre la parte del leone, seguiti a ruota da quelli per i bambini. A partire dal 2011 la spesa per le due categorie, prese singolarmente, non è mai scesa sotto il miliardo di dollari, andando a toccare punte di 1,4 miliardi nel 2012. Il giro di affari negli Usa e quindi nell'ordine delle migliaia di milioni di dollari, esattamente 7,4 miliardi di spesa totali, (considerando gli acquisti per addobbi e dolciumi), per la notte di Ognissanti nel 2014. Ciò significa che ogni statunitense ha pagato per questa festa, circa 22,76 dollari, ben più dei circa 6 euro spesi da ogni italiano.
Anche se Halloween è la festività americana per eccellenza, molti non sanno che le sue radici sono nella vecchia Inghilterra. Le antiche tradizioni celtiche della notte del 31 ottobre, sono infatti emigrate in America a seguito del colonialismo e il boom di immigrati irlandesi nel 18º secolo, non ha fatto altro che consolidare la popolarità e il folklore della notte di Ognissanti.
Sebbene abbia radici nel Regno Unito, i britannici sono preoccupati che la popolarità di Halloween stia spodestando festività ben più radicate nella tradizione inglese. Ad esempio, una ricerca del 2014, ha investigato gli effetti della popolarità di Halloween sulla cosiddetta "Bonfire Night", la notte dei fuochi d'artificio, che si festeggia solo pochi giorni dopo la notte di Ognissanti, il 5 novembre.
Infatti circa il 40% degli intervistati è d'accordo che la notte del 31 ottobre, stia avendo effetti negativi sul giorno dedicato alla memoria del fallito attentato al re inglese del 1605, a cui partecipò il famoso rivoluzionario Guy Fawkes.
Fortunatamente in Italia Halloween non ha nessun concorrente diretto e i fautori delle tradizioni possono dormire sonni tranquilli ... Purché lo facciano con tanti dolcetti a portata di mano.


venerdì 16 ottobre 2015

Il Rally del Pane.

La genesi di quella che è stata una delle più prestigiose manifestazioni motoristiche nazionali, raccontata a piena voce dal suo realizzatore, Arnaldo Cavallari.

Notte da tabarro. L'aria fredda e pungente sul volto. Il cielo maculato di stelle. Guardavo e mi guardavo. Un'altra sfida. Un'altra corsa.
Perché Arnaldo? Perché a cinquant'anni passati non fermarsi un po'? Perché continuare a correre incessantemente?
"Perché così fanno le stelle", mi risposi. E ringraziai le stelle. Arrivavo da un incontro con i dirigenti del Ferrari Club di Taglio di Po e con alcuni appassionati locali di rally. Erano state gettate le basi per realizzare un rally nel Polesine. Un rally vero e proprio dalle nostre parti non si era mai visto.
La mia esperienza al servizio di un evento particolare, inedito. Un progetto che identificai in tre messaggi: Polesine, Albarella e Ciabatta Polesana, nata da poco. Cioè coniugare i rally e la vita. Sapevo come si metteva in piedi un rally. Non per niente avevo frequentato il meglio anche in questo senso: Stochino (San Martino), Asquini (Alpi orientali), Rava (Sanremo), Salvay (999 Minuti). Non avevo mai organizzato, ma mi sentivo pronto a seguire il loro esempio. Mi presi la responsabilità di tutto. Tanto per cambiare ...
Il Ferrari Club mise la licenza Csai di organizzatore, necessaria dal punto di vista formale e legale. Preso dal prurito di vedere crescere il progetto, non mi resi conto che questo "favore" sarebbe potuto costarmi caro. Nell'ambiente, un rally nel Polesine suscitò subito interesse, ma anche perplessità.
"Tutte strade pianeggianti dalle tue parti, Arnaldo, e che rally puoi inventarti senza montagne o colline?"
Mi misi di buzzo buono per farli ricredere. "Trapanai" il Polesine in lungo e in largo. Scovai stradine sconosciute, sterrate, piene di curve e di difficoltà. Tutte attorno ad Adria. Disegnai un percorso come piaceva a me. Prove speciali tortuose. Tra una curva e l'altra mai più di 50 mt di rettilineo. Fatto il percorso, occorreva vendere bene il rally. La sana e pragmatica filosofia di sempre.
Era importante convincere coloro che ci davano una mano economicamente. Far capire che il rally poteva diventare uno strumento utile per la loro attività, che la promozione e la pubblicità avrebbero assicurato un ritorno d'immagine. Io ero l'esempio. Organizzavo, ma ero anche sponsor, col marchio Ciabatta Polesana. Non per niente volli che si chiamasse il Rally del Pane.
La sponsorizzazione, però, andava seguita, accompagnata, promozionata. Era quello che predicavo a tutti: ai potenziali sponsor del rally, come ai piloti che mi chiedevano consigli. La prima edizione del Rally del Pane andò in scena nella notte tra il 31 marzo e il 1 aprile 1984.
La notte mi è sempre stata amica. Fu un successo straordinario. Un coinvolgimento generale. Tre giorni, (dal venerdì alla domenica), agitati, pieni. Tre giorni dentro un frullatore.
Il molino divenne l'epicentro dell'evento. Stracolmo di gente, di auto da corsa, (le verifiche tecniche si svolsero lì), di gioia. Una sezione dell'edificio fu destinata all'area operativa: direzione gara, segreteria, sala stampa, sezione cronometristi e via discorrendo. Il cortile evaporava felicità anche dal terreno. Un'aia festaiola, dove le variopinte auto da corsa sostituivano i trattori. Un rombo che faceva tremare le finestre e fuggire i colombi da sotto le pensiline. Il pane, ovviamente, grande accentratore. Grande anima che accomuna. Usciva a getto continuo dal forno sperimentale e le maestranze del molino, resesi disponibili spontaneamente, lo servivano, correndo avanti e indietro per accontentare tutti.
Una mortadella da mezzo quintale restò ore e ore in balia di un'affettatrice. Vennero "seccate" un numero incalcolato di damigiane di vino locale. Tutti mangiarono e bevettero. Piloti, navigatori, accompagnatori, meccanici, giornalisti, cronometristi, lo staff organizzativo del rally, paesani, curiosi e visitatori.
Ricordo una coppia che addentò una lunga ciabatta imbottita. Uno di qua, l'altra di là. Una specie di gara. Finirono col togliersi il pane di bocca.
Il palco partenza in piazza, davanti alla cattedrale. Una girandola di luci e di sorrisi. La premiazione si svolse nel ridotto del teatro comunale di Adria. Un'apoteosi. Autorità, personaggi, premi per tutti i concorrenti. Conclusi stanco, ma felice. Ero riuscito ancora una volta ad aggregare, a far stare bene tanti.
Il Rally del Pane divenne qualcosa di eclatante. L'anno dopo coinvolsi come sponsor nientemeno che l'AGIP. I responsabili marketing dell'azienda petrolifera, erano rimasti sorpresi dal successo registrato. L'AGIP era conosciuta come partner della Ferrari. Non sponsorizzava altro. Nel 1985, invece affiancò il suo marchio sia alla Ferrari, sia al Rally del Pane. Il suggello perfetto. Avevo lavorato bene. Il Comune di Adria per la premiazione non mi diede il ridotto, bensì tutto il teatro comunale. Aveva capito.
Andò avanti così per quattro anni. In un crescendo che sembrava perpetuo. Il Rally del Pane me lo sentivo nelle ossa, nella pelle. Invece di affievolirsi, costante delle cose che si ripetono, l'ebbrezza aumentava ogni anno. Era amato anche dai panettieri miei clienti. Si sentivano parte integrante di un avvenimento. Poi finì tutto. Sciolto come neve al sole. Un paio di mesi prima di dare il via alla macchina organizzatrice della quinta edizione, quelli del Ferrari Club vennero da me.
"Quest'anno il rally lo organizziamo noi", dissero a bruciapelo. Subito rimasi senza parole. Finché chiesi: E io? "Non abbiamo più bisogno di te. Ci piacerebbe che continuassi a fare lo sponsor. Ma per l'organizzazione ci arrangiamo. Non c'entri più".
La meschinità umana, accidenti. Ancora una volta sulla mia strada. Nonostante fornissi puntualmente e dettagliatamente ai miei interlocutori i conti che riguardavano il rally, si erano convinti che nascondessi qualcosa. Insomma, che speculassi. Mi girarono le spalle anche molti di quelli che ritenevo amici. Velocissimi a salire sul carro di chi prometteva.
La mia reazione li lasciò di stucco: "Bene, vado al mare. Saluti".
In realtà, la faccenda mi rodeva. Mi avevano sottratto il giocattolo. Mi avevano tolto un pezzo di vita. E, per di più, usando l'insinuazione, il sospetto, la cattiveria gratuita. Sapevo che da soli non avrebbero fatto molta strada. Per realizzare certe cose ci voleva la passione che loro non avevano. E ci volevano i soldi. Il rally costava circa 150 milioni di lire. Un centinaio arrivava dagli iscritti e dagli sponsor. Ma il resto lo metteva il marchio Ciabatta Polesana. Erano soldi che tiravo fuori volentieri, rappresentando un ottimo veicolo pubblicitario. Adesso dovevano cercarli da un'altra parte, ed era una bella somma. Mi sentivo offeso, dopo tutto quello che avevo fatto. Non poteva finire così. Non potevo dargliela vinta.
In primo luogo, li diffidai dall'usare la denominazione Rally del Pane. Era mia. L'avevo registrata. Le lettere degli avvocati fioccarono. E siccome quei signori avevano già dato il via alle pubblicazioni, utilizzando proprio quel nome che faceva comodo, dovettero gettare tutto alle ortiche. Ma non bastava. Uscire di scena non è mai stata la mia specialità. Così mi venne un'altra idea.
Con una decina di amici veri, fuoriusciti dallo staff organizzativo del rally, ideai la prima edizione del Rally del Pane per auto storiche, quinto Rally del Pane, primo trofeo Ville Venete. Un revival sotto l'egida dell' Historic Racing Cars.
Sponsor della gara, Ciabatta Polesana e AGIP. Sostenitori, Albarella e Comune di Adria. Tanto per far capire da che parte stavano ... Allestii un happening in grande stile. Pressoché perfetto. Per una settimana il rally e il pane si integrarono. Furono organizzati incontri, convegni, uno in particolare d'interesse internazionale: il pane del Duemila.
Per quanto riguarda il rally, basta con tanti tratti cronometrati e avanti invece con un percorso che toccava tutti e sette i capoluoghi del Veneto. All'apparenza, un tracciato facile, dunque. In realtà, nascondeva un'insidia che pochi concorrenti intuirono. Sulle strade aperte al traffico, infatti, il codice della strada imponeva una media non superiore ai 50 all'ora. Facile a dirsi, impossibile a farsi sulle viuzze che avevo scelto, lungo le prealpi venete, da Bassano a Verona, tortuose all'inverosimile e per giunta, disseminate di controlli orari ravvicinati. La gara si sarebbe decisa lì, ai controlli orari. Infatti, fu così. I concorrenti prima rimasero spiazzati, poi apprezzarono la mia trovata.
Fu un trionfo. Agonistico e coreografico. Auto d'altri tempi. Un remarque da brivido. Lo splendore mozzafiato delle ville venete. L'arte che si fondeva nell'arte. Motori e architettura. Tanta gente sbracciante lungo il percorso. Una sorta di Mille Miglia. E i molini adriesi a fare da collante.
La premiazione, la domenica sera, fu qualcosa che ad Adria ricordano ancora oggi. Il teatro comunale si specchiava nei suoi giorni migliori. Come quando ospitava i cantanti e gli artisti più importanti del mondo.
Ricordo che entrammo in teatro accolti dall'Aida. Le strutture, i muri fremevano sotto i tamburi della marcia trionfale. Fu commozione generale.
Il proscenio trasformato in palco partenza del rally. A sua volta sferzato da luci baluginanti. Sembrava una visione. Una fantasticheria da fiaba. La bellezza sensuale di Eleonora Vallone, madrina della manifestazione. Io volteggiavo sul palco come fossi su una nuvola. Giacca verde e camicia bianca. I colori ufficiali del rally, indossati anche da tutti i miei collaboratori e collaboratrici, compresa Miss rally, eletta nel frattempo.
All'esterno, Adria aveva preso le sembianze di Disneyland. Fuochi d'artificio, laser luminosi stravolgevano una realtà sottratta alla sua abituale intimità. I negozi rimasero aperti. Una processione di luci. Centoventotto commercianti supporter del rally. Partecipando, distribuendo materiale informativo e pubblicitario del rally. Elettrizzati per esserci. Elettrizzati per aver aderito al mio suggerimento. Mi feci tanti altri amici. E dimenticai le amarezze provate. Un rally così, doveva rappresentare il top, il meglio. Di conseguenza, non potevo concedere repliche. Molti di quelli che c'erano, si risentirono della mia decisione.
"Ma come, ci hai dato lo zuccherino è adesso ce lo togli? È ingiusto ..."
"No, è giusto", rispondevo, "così il Rally del Pane resterà per sempre un piacevole ricordo. Per voi e per me".


Arnaldo Cavallari da “Una vita nel sole”