Per
quanto una pensi di non avere granché da nascondere, per quanto
racconti, senza veli e senza vergogna, di sé e del proprio mondo,
per quanto apra con entusiasmo e spudoratezza la sua casa e la sua
cucina, convinta che, come dicono alcuni, the
more the
merrier
e che, come dicono altri, nel più ci stia il meno, per quanto covi
il sogno recondito di vivere in una comune in cui siano banditi le
porte e il concetto di proprietà, esiste sempre un giardino, una
stanza, un cassetto inviolabile.
Tutti
noi, per quanto aperti e disinibiti, abbiamo un posto intimo e
privato, un terreno, più o meno ampio, recintato e invalicabile, una
zona rossa il cui ingresso è severamente vietato agli estranei.
La
mia zona rossa è il tutone diserotizzante che mi infilo quando lo
sfinimento vince sul senso estetico. È la domenica, quando a
mezzogiorno non siamo ancora vestiti e ci trasciniamo come zombi in
preda all'accidia. È una cena a base di pane, prosciutto e
cioccolato, è la chiave nella toppa che si chiude senza fare rumore
perché la solitudine diventa un'urgenza, è il tango con il casquet
ballato con i miei figli in corridoio, è la radio a tutto volume
mentre preparo le polpette ancheggiando, è il ripasso dei verbi con
mio figlio, quando lui spegne il cervello e io accendo la strega
urlante.
La
mia zona rossa sono le mattinate da homeworker in cui traccheggio e
mi perdo per ore, per poi, in preda a senso di colpa e livore,
chiudermi in uno stress iper produttivo e velenoso. Sono
l'insofferenza verso quattro maschi ingombranti e chiassosi, il pozzo
nero che mi artiglia, l'euforia molesta e il malumore improvviso,
ancor più molesto. La mia zona rossa siamo io e la mia famiglia,
quando scaviamo il fondo del barile di noi stessi e troviamo le
ragnatele, il buio e i mostri.
Per
il secondo anno consecutivo, abbiamo deciso, per compensare le
assenze dell'economista marxista itinerante e le presenze della mater
familias
stanzialmente sfinita, di accogliere per qualche mese una ragazza
alla pari. È americana, è cresciuta in una comunità hippie del New
England, sogna, da grande, di aiutare gli adolescenti disorientati, è
lieve, ridanciana, discreta. Praticamente perfetta. E poi è femmina
e per me, abituata al testosterone e alle bizze di quattro
coinquilini maschi, la convivenza con una donna rappresenta pura
beatitudine.
E
nonostante non sia un'esperienza nuova, avevo dimenticato cosa
significhi accogliere un'estranea sotto il mio tetto. Non sto
parlando dei cambiamenti nella quotidianità spiccia - l'acquisto di
4 litri di latte in più ogni settimana, l'introduzione del burro di
noccioline nella dispensa, le visioni apocalittiche quando esce la
sera e alle due di notte non è ancora rientrata - ma della necessità
di aprire la zona rossa e di mettersi in gioco, senza ritegno e senza
veli.
Perché
è possibile fingere di essere quello che non sei, mantenere un
contegno, evitare il tutone diserotizzante e la metamorfosi in strega
urlante, essere promozionale ed esemplare, per un tempo limitato.
Ma
quando qualcuno si insinua in modo capillare e cronico dentro il
terreno recintato della tua intimità, le barriere inevitabilmente
cadono una dopo l'altra e la tua essenza, pubblicamente mascherata
dietro una patina di rispettabilità, esce allo scoperto prepotente e impudica.
Così,
a un mese dal suo arrivo, lei è ormai parte di noi, ha, forse suo
malgrado, poveraccia, scandagliato gli abissi dei nostri lati oscuri,
assistito alla caduta di ogni resistenza, conosciuto ciò che nemmeno
mia madre, grazie al cielo, conosce.
Attraverso
il suo sguardo sornione, ho guardato la mia famiglia allo specchio. E
talvolta è stato scioccante. È una pratica di autocoscienza utile e
costruttiva, per quanto destabilizzante.
Dopo
questi 30 giorni lei non è scappata, io mi faccio molte più domande
e mi metto parecchio in discussione. Forse è un buon risultato.
Senz'altro è terapeutico.
Elasti
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