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sabato 27 settembre 2014

Cavour fa le tariffe. Storia della prostituzione in Italia.

Quella che leggerete è una piccola storia dell'Italia "per male". L'Italia è diventata per bene, infatti, dopo l'abolizione in ossequio alla Convenzione Internazionale dell'Aja, delle "case chiuse". Ha rinunciato, cioè, a regolamentare con sue leggi quello che oggi, sulle pubbliche strade, avviene invece liberamente alla luce del sole o, dei lampioni, ed è solo ormai costume di melanconici cronisti di provincia definire "losco traffico".
Altro che traffico. La parola non è adeguata. Traffico, infatti, fa pensare al piccolo cabotaggio, a un fenomeno marginale, a una trascurabile frangia di affari. E invece siamo su piani ambulanti altamente organizzati : siamo già al "trust", alla fase più spericolatamente industriale del vizio.
"C'è la differenza", mi dice Giancarlo Fusco, "Che passa tra un'epoca arcaica, artigianale, e quella della Lamborghini e dei jet. La parola tolleranza, d'altronde, applicata a quei posti, era un pò truce ma benevola, conciliante. Quasi una strizzatina d'occhi, una specie di “va beh” statale, una quisquilia. Ma se quella che indignava, era l'epoca della tolleranza, questa di oggi come chiamarla? “Questa è solo atroce" , Fusco mi informa, cosa sulla quale molti sono d'accordo, "Che il taglio abolizionista avvenne in modo forse troppo netto. Il paese era, ed è ancora, affezionato - in molte sue zone - a modelli culturali vecchi, che entrano immediatamente in frizione con la realtà nuova, così aperta della legge. Perché qui, caro mio, a cercare la storia delle prime case, si hanno sorprese a non finire".
Sentiamole. "La legge Merlin fu applicata nel 1958, sul numero 55 della Gazzetta Ufficiale. Le case a quella data, in Italia, erano 717.
Ma la prima, accidenti, risaliva addirittura al 1432. Lo sapevi?".
No. Non lo sapevo. "Ma tu pensa alla data : 1432. Luigi Pulci era appena un lattante. Lorenzo il Magnifico un'adolescente pieno di brufoli. Leonardo da Vinci, interrogato sull'età sua, rispondeva vispo: "Ventenne". Accadde a Messina, sotto il re Alfonso d'Aragona. Fu un certo Puccio di Simone il primo tenutario, come si diceva già allora. Chiedeva al re, ed era un dritto della malora, in riconoscimento dei propri servigi fedelmente prestati, una reale patente, a ogni riguardo esercitabile, per aprire un pubblico lupanare. "Stabile civile ove le femmine consuete al meretricio possansi concedere all'ospite con pace e decoro, ricevendo io Puccio di Simone la metà del prezzo pattuito come roffiano patentato, con buona pace della femmina, dell'ospite suo e dei gendarmi".
E questa, mi fa notare Fusco, l'alba delle case. La loro prima Magna Cartha, la prima traccia che lasciano su documenti di pergamena. Notare che fin d'allora il Puccio aveva fiutato l'affare. Non chiedeva oro, decorazioni, ricompense. Ma la licenza. Fu il primo “pappa” della storia ma, tenuto conto della percentuale, (half and half, andava all'americana), era di un'onestà a prova di bomba. Oggi un protettore non pretende percentuali : spolpa, letteralmente, come un pesce piranha, la sua protetta. "Le riduce all'osso", mi dice Fusco, "E lui gira in Maserati. Oggi il vero problema è quello dei leoni, di fronte ai quali Puccio di Simone, e molte maitresse del tempo antico, erano istituti di pubblica beneficenza.
Chiamalo come vuoi, magnaccia, ruchetè, come ti pare. Ma lui è il Rothschild della situazione".
Questo lo sanno tutti. Quello che non sanno, probabilmente, è che oggi, a Milano, ci sono protettori che non si accontentano di un solo salvadanaio di carne : ma hanno addirittura, una scuderia di sette, otto, anche 15 ragazze che comanda a bacchetta, (per modo di dire : in realtà sono ceffoni e botte a non finire), e che spostano con vari automezzi, in centro e in periferia.
Tutte cose che a Puccio di Simone sarebbero magari parse "horrorose e diaboliche". Anche per le case intendiamoci, c'erano i collocatori. Ma era un giro più tranquillo : si chiamavano alla francese, i placeurs. Oggi la legge Merlin, che non considera reato la prostituzione che di fatto non lo è, se la prende invece, e molto giustamente, con i cosiddetti protettori. Pur dimostrandosi implacabile con lo sfruttatore, non ce la fa. È un esercito che aumenta ogni notte. È come un'armata che rinnovi, ad ogni plenilunio, i suoi comandanti in capo.
L'impegno della polizia, oggi è soprattutto teso stroncare questo terribile, indegno fenomeno. "Era forse indegno che se ne occupasse lo Stato, d'accordissimo. Ma c'era allora, almeno, una specie d'austera e se vuoi un po' comica regolamentazione. Con tanto di ceralacca, timbri, sigilli. Prendiamo il primo re che se ne occupò, per esempio. Proprio quell'Alfonso d'Aragona che nei libri di scuola è chiamato "Magnanimo". Si occupò personalmente dello stabilimento di Puccio di Simone, e spinse il suo scrupolo a imporre fissandole di sua mano, le tariffe. Era un benefico calmiere, tra l'altro. Confessiamolo. Certo, fin da allora, fin dal 1432, si segnava il destino di quelle donne : quello di essere scelte e di non poter scegliere. Alfonso d'Aragona stabiliva infatti che le "femmine ivi allogate non hanno diritto a preferenze in fra questo o quell'ospite, ma tutti quelli che si presentano debbono ricevere gradevolmente e contentare, eccezion fatta per i leprosi, i briachi fuori di senno, e quei che mostrassero pustole et piaghe repugnanti all'eccesso".
Era una condizione atroce. Basterebbe questa norma, fra l'altro,
(e valeva, leprosi a parte, per tutte le ospiti di case fino al 1958), a mettere in più benigna luce la famigerata legge Merlin. Anche se non è limitare poi troppo, fa osservare qualcuno, la libertà di un tipo di scelta globale, che quelle sciagurate avevano già fatto per conto loro, optando per quel tipo di vita.
Ogni notte a Piazza Fontana c'è una ragazza che tutti soprannominano “la divina”. Se uno s'accosta, fa versi sdegnosi. "Va via", dice agitando mollemente una mano : "Va via, non sei il mio tipo". È la libertà, ammettiamolo, in fondo è anche questa. È probabile che lei, intendiamoci, “la divina”, lo faccia non tanto per motivi estetici o ideologici quanto per aumentare il suo prezzo. L'italiano in caccia o in safari notturno è sostanzialmente cretino : si sente sottovalutato e spara immediatamente il doppio. Possono farlo, e lui, e lei, e non c'è nulla da dire. Lo Stato, sollevato dei suoi impegni, se ne infischia. Al massimo concede, (e perché mai gratis se una vettura qualunque non può sostare in certe zone senza multa?"), interi marciapiedi e giardini a questo dilagante ma solidissimo commercio.
"Altra incongruenza", dice Fusco, "Questa che è l'Italia dei permessi, esige un numero infinito di licenze per mettere una bancarella modestissima, di stringhe di scarpe o di pesce fresco sulla pubblica via. Arrivano subito, se osi, 200 vigili urbani. E ti cacciano. Ora io dico : cacciano uno che per campare vende pesce fresco, e lasciamo indisturbate queste bancarelle ambulanti di carne avariata. È uno dei tanti misteri d'Italia".
Lo è di fatto. Il fenomeno dell'occupazione di suolo pubblico, e non solo a Milano, ma in tutte le grosse città, da parte di legioni di falene e ora anche di travestiti, (un intero parco, il Ravizza, qui a Milano è diventato il loro intoccabile reame), preoccupa tutti. Allarma gli inquilini di case attigue, offende, e non a torto, il senso civico della cittadinanza. Per le strade ingorghi, rallentamenti : spesso vetture che tamponano, con feriti, perché nei pressi c'è un'”isola amatoria”. Qualcuno ha persino proposto, se questa realtà è intoccabile davvero, che se ne occupi finalmente l'Automobile Club. Istituendo nuovi cartelli, la cui simbologia diventerebbe popolarissima, che segnalino con una "R.M.!" Il provvidenziale "Rallentare Mondane!"
"Tutti fenomeni", chiosa il Fusco con ironia, "Che a quei tempi non si sognavano neppure. C'era pieno? A una fessura dell'uscio compariva una vecchia servente, diceva esaurito, e buona notte ai suonatori in ritardo. Ma arrivo a dire che lo Stato ci teneva tanto all'ordine, come in tutte le sue cose, che nel 1888 propose un articolo, il 196, dell'allora nuova legge di pubblica sicurezza, che diede a Montecitorio momenti oratori da spanciarsi dal ridere. L'articolo proponeva di "vietare nei locali di pubblico meretricio i giochi, i balli, le feste di qualunque sorta, e lo spaccio di cibi e bevande"”.
Fino al 1888, infatti, era una specie di self-service. Fu Cavallotti a scagliarsi in pieno parlamento contro quel repressivo articolo. Così tuonava, testualmente, in aula, il “bardo della democrazia” : "Onorevoli colleghi, togliere in quelle case perfino la possibilità di un onesto bicchier di vino, di uno spuntino, di una ghitarra e di un canto, significa davvero ridurne la funzione a quella di brutali sfogatoi della libidine popolare". "La vocazione alla lirica, in Italia, è davvero irresistibile". Replicava invece, per far passare l'articolo restrittivo, l'onorevole Vigoni. Nobile tempra di cattolico, dava questa inorridita relazione all'assemblea di una sua visita, ("sfuggevole, giovanile, costretta, e, oh, quanto mai lontana!"), a quei posti malfamati. E così declamava in pieno parlamento : "Onorevoli colleghi. Risparmio a questa severa assemblea la descrizione delle femmine che si aggiravano tra i visitatori, abbigliate come ninfe o baccanti da strapazzo. Ciò che mi colpì maggiormente, in quella breve ed unica visita, fu l'andare e venire di bevande alcoliche, di fritture, di affettati e di formaggi!". Così il Vigoni : e fu tanto efficace, che dal 1888 tolsero i formaggi negli harem di Stato.
Nulla da eccepire : lo Stato faceva sul serio! Era stato Cavour del resto, fin dal 1860, a mettere le prime "tariffe savoiarde" : "case di prima classe lire cinque, di seconda classe dalle cinque alle due lire, di terza classe sotto alle lire due".
Ma il vero colpo di genio del regolamento lo ebbe il ministro dell'interno Rattazzi, subito dopo la morte di Cavour, che specificò "come le reali tariffe vadano, com'è naturale, riferite ad un semplice trattenimento. Ove l'intrattenente si chiedesse di prolungare il suo colloquio, si intende che il suo esborso crescerebbe in proporzione alle unità di tempo consumate".
E arrivò persino, con circolare apposita, a stabilire che "l'unità di tempo medio, per un colloquio semplice, è da consumarsi in minuti 20 circa".
Meglio o peggio? Questo è il dilemma. Dalla farsa dell'italietta che misurava i colloqui a livello ministeriale, s'è passati a un tempo diverso, dove tutto, perché la materia non è degna della carta bollata, finisce sul ricettario dello specialista di dermosifilopatia. Piangere sulle case è stolto. Ma rifiutarsi di prendere atto della nuova, impressionante realtà è altrettanto pericoloso. Oggi la prostituta che esercita se non adesca in modo scandaloso - e si tratta di un'impressione estremamente soggettiva - è intoccabile.
Se munita di regolari documenti, e nessuna ne è priva, non può essere neppure fermata. Neppure invitata, per un colloquio in Questura. È una grossa concessione della libertà, diceva la senatrice Merlin. Può darsi. "Perfino l'India", aggiungeva, "ha abolito le sue case".
Ma qualcosa ci accomuna, ancora, nonostante tutto all'India. Abbiamo ormai infatti, in pieno centro, le nostre "vacche sacre".





martedì 16 settembre 2014

A A A Capitano Achab cercasi. E Moby Dick anche.

Tre fotogrammi dal mondo per sintetizzare una tendenza. Nel desolato Nord norvegese, giovani che emigrano verso la tranquillità di un impiego in città, lasciando le baleniere "spiaggiate" : se proprio devono andare al largo, meglio farlo per i generosi stipendi delle piattaforme petrolifere, che per diventare moderni capitani Achab. Nei mari d'Islanda, turisti con binocoli al collo che arricchiscono pescherecci fino a ieri armati di arpioni.
In Giappone, tonnellate di carne di balena che giacciono invendute nei congelatori.
Sono tre immagini che rivelano che la caccia a Moby Dick è in ritirata. Non che le balene siano al sicuro, anzi. Inquinamento, (anche quello acustico dei sonar), riscaldamento climatico e catture accidentali, (anche con le illegali spadare italiane), sono ormai più letali degli arpioni.
"Responsabili della morte di centinaia di migliaia di esemplari ogni anno", dice Alessandro Gianni di Greenpeace Italia. Per contro, stando all' IWC, la Commissione Internazionale per la caccia alle balene, i numeri dei cetacei catturati dalle baleniere, sono calati a 1325 nel 2012 dai 6700 del 1986, l'anno di introduzione della moratoria sulla caccia.
Merito delle campagne animaliste, degli arrembaggi degli eco-pirati come Sea Shephered, dei tempi che trasformano gusti, sensibilità e necessità, più che di una conversione alla riverenza per la legge.
Norvegia e Islanda, infatti, continuano a violare il divieto internazionale. Mentre il Sol Levante continua a rispettarlo solo formalmente, mascherando la più alacre operazioni di pesca dei cetacei al mondo, con il pretestuoso richiamo alla ricerca scientifica.
Norvegia, Islanda e Giappone insieme, nei 27 anni dall'inizio della moratoria, hanno ucciso quasi 30.000 esemplari, perlopiù balenottere minori. Un'enormità. Ma comunque meno di quante ne venivano eliminate in un solo anno fra le due guerre.
Chissà se avranno notato la differenza laggiù, negli abissi. Già, perché ci sono specie come la balena artica, che arrivano a vivere 200 anni. E potrebbe pure essercene qualcuna che, miracolosamente scampata per tutto questo tempo alle fiocine, ricordi ancora il cruento trambusto che c'era nelle acque fredde del pianeta nel lontano 1925, quando furono introdotte le navi-officina. Con gli arpioni esplosivi, inventati nell'ottocento, e il varo di questi macelli-galleggianti, la caccia grossa era iniziata.
La decimazione dei cetacei schizzò all'inaudita cifra di 40.000 all'anno, mentre i loro corpi venivano depredati come miniere. "Le interiora diventavano corde per racchette e i denti tasti per pianoforte", racconta il britannico Philip Hoare, autore di Leviatano, ovvero la balena (Einaudi 2013), saggio storico-naturalistico-letterario sulla bestia di Melville.
L'olio ricavato dal grasso, che aveva illuminato a lungo le notti dell'uomo, iniziava a essere rimpiazzato dal petrolio. Ma per molto tempo ancora finì in un'infinità di prodotti, (margarina, linoleum, lubrificanti), arricchendo anche Aristotele Onassis. Poi, c'era la carne. Così proteica che il generale americano MacArthur, a capo dell'occupazione del Giappone, pensò bene di usarla per nutrire i giapponesi impoveriti dalla distruzione bellica, avviando la moderna industria baleniera del paese, con tale successo che anche le mense scolastiche iniziarono a proporla.
Oggi, invece, le 5000 tonnellate di carne nei surgelatori della patria dei sushi, sono l'epitome di una follia economica tutta nipponica. Lo scorso anno l'Istituto per la ricerca sui cetacei, responsabile della caccia “scientifica”, ha ammesso che tre quarti del pescato non aveva acquirenti. Del resto la carne dei mastodonti del mare, è ormai prelibatezza offerta da qualche ristorante chic di Tokio o consumata da sparute comunità marinare.
Vuoi per una evoluzione della dieta o delle coscienze, il 90% dei giapponesi non la mangia più. Eppure la guerra al leviatano continua e i contribuenti sono costretti a finanziarla. 7 milioni di euro l'anno. Che probabilmente aiutano anche Tokio a ingrossare il fronte anti-moratoria comprando i voti dei paesi nell' IWC.
Perché il Giappone si ostini a portare avanti una caccia che è un salasso pubblico, è questione che a Greenpeace riassumono nella parola "potere": "E' un favore a un ristretto numero di persone, in un paese dove il ministero della pesca è molto potente".
Così potente che è riuscito anche a dirottare dei fondi della ricostruzione post-tsunami. Un'altra spiegazione la offre Hoare : "I giapponesi consumano l'80% dei tonni rossi pescati nel pianeta. E Tokio difende il diritto a cacciare balene, per non dover cedere in futuro sul tonno o altri pesci a rischio". Ovvero, ammazzare infruttuosamente i cetacei oggi, per continuare a mangiare serenamente sashimi domani.
Il profitto, per l'appunto, è uno dei temi della moral suasion ecologista.
Che vorrebbe vedere abbandonare il whaling per il whale whatching, la caccia per il turismo. L'avvistamento di capodogli e megattere è business da 2 miliardi di dollari nel mondo. Nella sola Islanda, gli escursionisti delle acque artiche sono arrivati a 175.000 nel 2012. E persino in Giappone stanno crescendo del 6% l'anno. Secondo il Fondo Internazionale per il Welfare degli animali.
Dove non è riuscita l'argomentazione animalista, insomma, potrebbe arrivare quella più prosaica del denaro. La stessa che, in parte, sta spingendo i giovani norvegesi a non seguire le rotte dei padri. Delle 200 baleniere attive negli anni 50', solo 20 continuano a cacciare, soddisfacendo quel 5% di cittadini rimasti a mangiare carne di balena.
La demografia marina, però, resta in allarme. Oggi le balenottere azzurre, il più grande mammifero vivente, sono un migliaio: l'1% della popolazione originaria. Quelle nel santuario antartico appena 75. Il precipizio dell'estinzione è a un passo. Eppure noi, arrivati sulla terra ben dopo le regine degli oceani, continuiamo a sapere pochissimo su di loro. Solo dopo aver camminato sulla Luna, siamo riusciti a fotografare una balena nel suo habitat.
La letteratura ne aveva fatto un mostro, anche perché era un mistero. Ora che ci fa simpatia, siamo noi ad apparire ancora come mostri ai suoi occhi.


d. R.

giovedì 4 settembre 2014

Orizzonte rosa. Difendiamoci dal cyber bullismo.

La verità è che ci piace abbastanza. La verità è che la molestia in rete e
una versione adulta è molto vantaggiosa di tutti i fangosi campi da gioco su cui ci siamo allenate lungo la giovinezza: compagni di classe prepotenti, capo uffici sussiegosi, passanti smaniosi di ostentare virilità.
La verità è che, se vi prendete la briga di venire sul nostro sito a dire quanto non vi piacciamo, abbiamo già vinto. Sulla stampa inglese americana, il dibattito ha un "cancelletto", in linguaggio moderno hashtag, ovvero un'etichetta che lo caratterizza e lo rende tema caldo del giorno se non addirittura della settimana. Il fatto che quell' hashtag sia #mencallmethings, #gliuominidiconolecosebrutte, dovrebbe già essere esaustivo circa il livello da scuola elementare.
Fanno così, fin da piccoli. Impariamo a gestirli, fin da piccole. Ci dicono che siamo brutte, che nessuno ci vuole, che siamo quattrocchi e ciccebombe e qualunque altra sciocchezza vi vergognereste di usare come argomentazione in un dibattito. A volte ci restiamo male. In quel caso ci sono due spiegazioni possibili: abbiamo meno di otto anni, e ancora non abbiamo imparato i trucchi del bisticcio; o siamo in una giornata di particolare fragilità, di quelle in cui qualunque cretino è in grado di sembrarci metafora delle ingiustizie nel mondo in generale e della nostra vita in particolare.
A volte ci restiamo male, ma il più delle volte è uno spasso. Davvero: non c'è niente di più godurioso che mettere un cretino di fronte al suo essere un cretino. Fargli notare la sua totale mancanza di strumenti dialettici. La sua incapacità di fare un'obiezione che sia anche vagamente in tema. Non importa se accade in rete o nel mondo reale, (cui la rete somiglia sempre più, e su questo torniamo tra poco).
Importa solo che anni di allenamento ci hanno fatto capire che non possono vincere. Non perché siamo delle Demostene del dibattito noi: perché sono un disastro di dibattenti loro.
Davvero: uno che ti dice "puttana" perché sei stata più veloce di lui a vedere il parcheggio è uno che troppo facilmente viene annichilito da un finestrino abbassato e da un suo ardentissimo "E, mi dica, in che modo la pochezza della sua vita sessuale inficia invece le sue doti di guidatore?".
Uno che ci dice "cicciona" somigliando più al ragionier Filini che a George Clooney, e lo dice allorché tu stai argomentando sulla finanziaria e non candidandoti a Miss Italia, si espone a un numero di sottolineature della sua inadeguatezza che quasi vien da intenerirsi.
E ci sarà sempre quell'uno che, in rete, dice la cosa che, implacabile come le tasse e il Natale, non può non venire prima o poi detta in ogni dibattito on-line: "Devi scopare di più". Non avete bisogno che vi suggerisca risposte: ogni donna adulta ne ha almeno cento.
La rete, quindi, somiglia al parcheggio, col tizio che t'insulta perché sei stata più abile di lui; alla strada, dove il tizio ti fischia e si offende se non gli dai corda; all'ufficio, dove il caporedattore ti dice "Tu occupati di belletti", certificando in questo modo che l'opinione che hai appena trasmesso sulla crisi di governo è informata, sensata, e così superiore alla sua che l'unico modo che ha di gestirti è, come avrebbe detto suo nonno, rimetterti al tuo posto.
Dev'essere una vita durissima, quella vissuta sapendo che tu sei in grado di avere pareri informati sui belletti e anche sui ministri, e lui su nessuna delle due cose. Nessuno stupore che si sfoghi dicendoti le cose brutte. Avrai notato, (sei una donna sveglia), che dopo ogni debacle di quel certo capoufficio in riunione, sul tuo blog compare un commento di lupachiotto65 che ti dice che sei una cessa e tuo marito ti riempie di corna. E con un certo sollievo che, rispondendoli nei commenti del blog, articoli ciò che pensi di lui e della sua evidente invidia del pene, (altrui): in riunione non potresti. Se solo ci mettesse la faccia, sarebbe costretto a contenersi. E anche tu. Sarebbe davvero un peccato.
Qualche mese fa ho risposto, nei commenti della pagina Facebook di un'amica, a un tizio mai visto che aveva scritto una sciocchezza, dicendole che era una sciocchezza. Dopo un'ora e un quarto, sul mio blog c'erano 43 commenti del tizio in questione. La gamma, (copio testualmente), andava da "Non so cosa darei per incontrarti e spaccarti i denti con un cazzotto" a "Piantala di far finta di essere magra in foto ritoccandoti in Photoshop, tanto si sa che sei una buzzicona e che fai schifo al cazzo" passando per "Prima o poi vedrai che qualcuno ti farà la pelle, spocchiosa di merda" e "Ma sai che fisicamente sei proprio un cesso di donna?".
Fino all'immancabile (ve l'avevo detto: sempre lì si finisce), "Sei una figa di legno che non ha di meglio da fare che odiare i maschi perché non trovi mai qualcuno che ti scopa". So che non mi crederete, ma giuro che i più volgari ve gli ho risparmiati.
In quel momento ero negli Stati Uniti, e ho ricevuto una serie di messaggi, tra lo scherzoso e il seriamente preoccupato, di amici che suggerivano di non tornare. Un uomo saggio che conosco, e che incidentalmente fa l'avvocato, commentò: "L'inconsapevolezza con cui la gente sull'Internet viola il codice penale, convinta di esercitare un diritto costituzionale, fa sempre tanta tenerezza". La ragione per cui vi ho raccontato questo aneddoto è che il mio sito ha i commenti moderati. Che, tecnicamente, significa che qualunque commento lasciato diventa visibile al pubblico solo dopo che l'ho autorizzato. Avrei dovuto censurare il maniaco del giorno, anche solo per non rischiare la tendinite cliccando 43 volte su "approva il commento"? Forse sì. Ma io ho una convinzione. Anzi, due.
La prima è che quelli davvero pericolosi non passino due ore su Internet a dirti con nomignoli variabili quanto ti ucciderebbero. Mi rendo conto che è un'affermazione rischiosa, e che la smentita potrebbe consistere nel ritrovarmi sotto casa Mister 43 Commenti che cerca di farmi nella vita vera ciò che argomenta virtualmente io meriti. Ma, davvero: voi ve lo vedete Mark David Chapman che, invece di aspettare con una pistola sotto al Dakota Building, si mette a insultare John Lennon sulla sua pagina Facebook?
Sarò un'illusa, ma credo che quel gigantesco bar che è la rete faccia da
sfogatoio a molte aggressività che, al 40º commento, sono già troppo affievolite per mettersi a cercare un'arma e fare appostamenti. Nel 2011, Chapman avrebbe aperto il gruppo Facebook "Quelli che vogliono Lennon morto", qualche associazione di genitori si sarebbe indignata, e la cosa sarebbe finita lì.
La mia seconda convinzione, che rende l'esempio di Chapman non casuale, e che, appunto, si tratti di fan. Fan irrisolti, fan con infanzie problematiche, fan con vite vuotissime, ma pur sempre fan: come altro chiamare gente che si prende il disturbo di leggere tutto ciò che scrivi e di notificarti ogni volta quanto non gradisce la tua scrittura? La ragione per cui ho cliccato 43 volte approva per quel tizio, (e un numero minore di volte per altri detrattori un pochino meno ossessivi), mentre lascio molto spesso in sospeso commenti riassumibili in "Sei la più brava di tutte nonché bellissima nonché alta e bionda", è che il culto della personalità mezzo demolizione e molto meno stucchevole di quello a mezzo lusinga.
Altrimenti detto: mi piace la rissa. Mi tiene in esercizio. E' il modo in cui evito di avere paura di tornare a casa da solo in una strada buia.
È il mio allenamento alle risposte molto più offensive delle offese appena ricevute.
Ognuna reagisce come vuole, naturalmente, con diverse sensibilità e preoccupazioni.
Zoe Williams del Guardian trasecola perché ha letto un commento in cui, a una che parlava della propria dieta, il tizio diceva una cosa tipo "Se ti taglio gli arti vedrai come perdi peso". Io proprio non riesco a credere che un amputatore da "Silenzio degli innocenti" perda tempo a rivelare il proprio piano nei commenti di un blog, ma magari mi sbaglio io. Ognuna reagisce come vuole: Anna North di Jezebel dice che gli uomini si permettono su Internet livelli di aggressività che non oserebbero sfiorare nella realtà, perché in rete non riconoscono l'interlocutrice come essere umano. Sarà. Io ho l'impressione che siano ragionevolmente certi della mancanza di reazione e, come tutti i bambini maleducati, se ne approfittino.
L'altro giorno uno sconosciuto mi ha fatto delle avances. Avrà avuto ottant'anni. Ho riso: "Ma per cortesia, lei potrebbe essere mio nonno!". Si è rabbiosamente risentito, e mi ha dato della stronza urlando finché non ho svoltato l'angolo. Probabilmente ero la 50ª cui si proponeva quella mattina, e la prima ad avergli risposto. Eravamo per strada, non su Internet.

Guia Soncini


Testimonianze delle blogger

Elasti scrive il blog “nonsolomamma

L'altra mattina mio marito mi ha telefonato in ufficio. "Elasti, hai visto il blog?". Aveva una strana voce. "No, perché?". "Il commento 27, anonimo. Forse dovresti cancellarlo". Da cinque anni ho un blog in cui racconto di noi, di un marito barese economista marxista, di tre figli maschi, di me, delle mie ansie da prestazione e di inadeguatezza, di quanto è difficile ma anche divertente, tenere i pezzi insieme senza perdere il senno. Da cinque anni la nostra vita, in versione un po' fumetto un po' sit-com, è in piazza, alla mercé dei passanti virtuali. Commento 27: "Sei solo una zoccola e tuo marito un gran cornuto". Aveva ragione lui, con la sua strana voce: forse dovrei cancellarlo. Per pigrizia e per una interpretazione distorta della libertà di espressione, permetto ai visitatori - amici, lettori occasionali, feticisti della famiglia numerosa, pazzi - di lasciare tracce senza filtri né censura. Periodicamente qualcuno mi insulta. Perché sono fedigrafa, perché non mi occupo abbastanza dei miei figli e sono scellerata, perché me ne occupo troppo e sono rimbecillita, perché ho assunto una baby-sitter e sono una sporca borghese, perché vado a una manifestazione e sono una sporca comunista, perché non ho gli occhi blu e le gambe da fenicottero che pure mi piacerebbero tanto. Un tempo, un commento malevolo poteva funestare una giornata. Poi ho imparato che la rete, come il mondo, e piena di provocatori rigorosi. Non meritano telefonate in ufficio la mattina, nè i nostri mal di pancia né la nostra rabbia. E c'è un solo modo per scoraggiarli: ignorarli. Proprio come si fa con i bambini maleducati.

Michela Murgia, scrive sul blog con il suo nome

Si rassegni chi ha l'impressione di essere perseguitato dai molestatori della rete: in Internet c'è almeno un troll per ciascuno di noi, ma il modo per arginarlo non può essere quello di applicare al Web, le categorie del controllo sociale che siamo abituati a considerare normali a computer spento. Chi ha un blog, sa che ci sono tre modi per cercare di dominare i lati oscuri dell'anonimato in Internet; il primo è di natura poliziesca e tende ad aumentare i livelli di tracciabilità dei commentatori, obbligandoli al rilascio di dati personali, che però si rivelano quasi sempre falsi. Il secondo è di natura censoria e prevede l'approvazione previa di ogni singolo contributo alle discussioni, con un dispendio enorme di tempo. Il terzo è l'esistenza di una comunità di commentatori, che applica per tacito accordo una serie di buone prassi, tese a isolare il molestatore. Questa modalità, nota anche come "Non dare da mangiare al troll", sulla lunga distanza è la più efficace, ma richiede una fiducia nella capacità della rete di auto-regolamentarsi che i novizi di Internet spesso non possiedono. Davanti al commento violento, si sentono minacciati come se ci fosse un ladro con passamontagna davanti alla porta di casa. L'ipertrofia e la misura delle cose sul Web, sia nella quantità di informazioni disponibili, sia nella mole di interazioni che è possibile sviluppare attorno a ciascuna di esse, sia nei registri di linguaggio, che spesso prevedono toni che nella vita reale, nessuno di noi userebbe in una discussione a fine cena.

Loredana Lipperini scrive il blog Lipperatura

In sette anni di blog sono stata invitata a spararmi un colpo in testa e ad andare in palestra perché ho il culo sceso. Le mie fotografie sono state ritoccate a colpi di Photoshop facendo sì che la mia testa troneggiasse sopra il corpo di una porno poliziotta, di una madre badessa, di una scrittrice nuda, di una punk con elemento fallico tra le braccia. Sono stata definita vecchia, bigotta, incapace, sciatta, mafiosa, isterica. E, soprattutto, censuratrice del libero pensiero. È la dura legge dei troll, cui nessuno sfugge, e le blogger ancor meno: perché chi interviene su un blog per interrompere la conversazione, ha lo scopo di portare il discorso su se stesso e su quel che pensa e scrive, (questo fa un troll), e nutre la curiosa convinzione che una donna non potrà respingerlo, ma dovrà tollerarne pazientemente le intemperanze. In effetti, per un po' tollero: ma al decimo richiamo pubblico e alla quarta mail privata, metto in moderazione per la salvaguardia del dibattito che si sta svolgendo. Ed è qui che il troll sbotta, e parte a caccia dei simili sottoposti allo stesso trattamento, (su altri blog o su Facebook): l'unione fa la forza, e moltiplica l'insulto. Prevenzione? Impossibile: perché il troll non è il ragazzino smanettone della vulgata: fra i miei, posso annoverare scrittori e uffici stampa di trasmissioni tv. La difesa? Il consiglio migliore è quello della nonna: don't feed the troll, non nutrirlo, non rispondere, renderlo trasparente. A dire il vero, c'è stato un giorno in cui stavo per denunciarne due fra i più affezionati, dopo che un'amica giurista, esaminando con orrore la documentazione, mi aveva consigliato di farlo. Sono arrivata sulla porta della stazione di polizia. Sono tornata indietro. I troll chiedono attenzione, con maggior o minor intensità a seconda della patologia, (perché in moltissimi casi di patologia si tratta, e non di complotto organizzato). Denunciarli sarebbe dargliene troppa. Ignorare, ragazze. E resistere.