Facciamo
finta che Tangentopoli
non
ci sia stata. E non per eludere una questione morale che nessuno,
soprattutto i più accaniti forcaioli, è riuscito a risolvere e che
ora si ripresenta al peggio.
Ma
perché il craxismo e la stagione del potere socialista non possono
risolversi in quell’inchiesta giudiziaria, che ha promesso tanto,
mantenuto poco e cancellato in maniera impropria una classe politica
intera. Con un solo risultato certo: il Psi
pagò
per quasi tutti e più di tutti colpe collettive. A tacere del fatto
che chi è venuto dopo e si è fatto strada a spallate in nome delle
Mani
Pulite (tali
soprattutto per incapacità di fare ed esclusione dal potere) è
riuscito a far peggio.
Ecco, non impegniamoci
in questa discussione e parliamo, invece, di politica. In questo
caso, lo impongono le date e le ricorrenze, che l’editoria celebra
con la consueta, necrofila precisione.
Al
riguardo c’è da dire che stiamo per assistere una curiosa
coincidenza di tre anniversari: l’imminente centenario della
Rivoluzione
russa,
il quarantennale della tragedia di Aldo
Moro,
che scatterà a partire da marzo, e, infine, il quarantennale del
Vangelo
Socialista,
il saggio con cui Bettino
Craxi,
alla fine d’agosto del 2008, operò, anzi dichiarò lo strappo
definitivo tra il suo Psi,
ereditato pressoché ai minimi termini dalla segreteria di Francesco
De
Martino,
e quella parte della tradizione marxista rivista e corretta ad uso
rivoluzionario da Lenin
e
riadattata alla situazione italiana (ma non solo…) da Antonio
Gramsci.
La
storia è piuttosto nota: Craxi
fu
sollecitato nell’agosto ’78 da Livio Zanetti,
all’epoca direttore de l’Espresso,
a replicare a Enrico
Berlinguer,
che aveva rilasciato in quel periodo un’intervista a Eugenio
Scalfari
per
Repubblica.
In
quell’intervista l’allora (celebre e amato) segretario del Pci
confermò
il legame tra l’ideologia del suo partito e il leninismo, sebbene
riveduto e corretto per un improbabile uso occidentale. O meglio,
ammorbidito quel che a giudizio del grande leader sardo bastava per
non terrorizzare i ceti medi italiani che pure, in buona parte,
avevano scommesso sul compromesso storico e sulla conseguente,
sperata, svolta moderata del più grande partito comunista
dell’Occidente.
Craxi
rispose
firmando un saggio commissionato qualche tempo prima a Luciano
Pellicani
e
dedicato all’anarchico francese Pierre-Joseph Proudhon.
L’articolo uscì il 27 agosto e fu una bella mazzata per molti
italiani, che ancora affollavano le spiagge.
Intitolato,
appunto, Il
Vangelo Socialista,
il saggio diede la stura a un dibattito, che sarebbe impazzato fino a
metà settembre su tutte le principali testate italiane, non solo di
sinistra.
Il
paragone con l’attualità risulta decisamente ingeneroso: oggi, pur
di vendere qualche copia sulle spiagge, i giornali e i periodici si
dedicano alle retrospettive della cronaca nera, di cui riscavano i
cold case più truci e pruriginosi, e, quando ne parlano, riducono la
politica a gossip. Allora, in quella torrida estate di 40 anni fa,
tra i topless patinati di Novella
2000 e
le note degli Homo
Sapiens,
gli italiani si dilettavano a scorrere e commentare il dibattito,
raffinato e furibondo al tempo stesso, ingaggiato dalle migliori
firme della cultura (politica e non solo) italiana sulle colonne de
L’Unità
e
di Avanti!
(quelli
veri), de Il
Manifesto,
del Corrierone,
di Repubblica,
ma anche di Rinascita,
de Il
Tempo e
de Il
Giornale Nuovo.
E non era roba da poco: in quell’occasione incrociarono le armi,
anzi le penne, big come Leo
Valiani,
Giuseppe
Bedeschi,
Norberto
Bobbio,
Luigi
Pintor,
Claudio
Martelli,
lo stesso Luciano
Pellicani
e
Luciano
Cafagna.
Scusate se è poco.
Oggi
è possibile godersi di nuovo tutta la querelle grazie all’iniziativa
di Nunziante Mastrolia,
politologo e docente di Geografia
politica alla
Luiss,
che ha ripubblicato tutti gli articoli in Il
Vangelo Socialista (Licosia,
Ogliastro Cilento, 2016). Quest’antologia, aggiungiamo per
completezza, riprende quella, ormai introvabile, curata nel ’78 da
Claudio
Accardi per
la milanese Sugarco
e
intitolata Pluralismo
o leninismo.
Ma
qual è il senso dell’operazione di Mastrolia?
Di sicuro il gusto per il vintage fa la sua brava parte. Ma c’è da
dire che il dibattito ritrova una sua particolare attualità grazie
alla crisi della sinistra odierna, priva letteralmente non solo di
concrete possibilità operative, ma anche di riferimenti culturali
concreti e convincenti.
Discettare
di socialismo, socialdemocrazia e leninismo e leggerli, come fece il
duo Craxi-Pellicani,
come elementi antitetici di un’unica tradizione culturale, allora
aveva un senso fortissimo: significava ricordare all’opinione
pubblica che la sinistra era un’entità politica plurale, a
dispetto anche di una certa lettura gramsciana canonizzata dal
Pci
e
di cui Berlinguer
era
nei fatti prigioniero,
più che compatibile, in alcune sue componenti, con le esigenze delle
democrazie occidentali.
Detto altrimenti: il socialismo poteva realizzarsi nei sistemi liberali non solo senza spargimenti di sangue (che anche il Pci, va detto, aborriva), ma anche senza distruggere le garanzie dello Stato di diritto elaborate dalle dottrine borghesi. Superare la liberaldemocrazia, insomma, non voleva dire distruggerla.
Detto altrimenti: il socialismo poteva realizzarsi nei sistemi liberali non solo senza spargimenti di sangue (che anche il Pci, va detto, aborriva), ma anche senza distruggere le garanzie dello Stato di diritto elaborate dalle dottrine borghesi. Superare la liberaldemocrazia, insomma, non voleva dire distruggerla.
Mastrolia,
al riguardo, svolge un’ineccepibile operazione
verità nella
sua corposa Introduzione:
ricorda a tutti come il Berlinguer
che
riteneva invece il leninismo compatibile con le democrazie non possa
essere considerato un riformista, ma, più semplicemente, fosse un
ostaggio. Della tradizione migliorista
inaugurata
da Palmiro
Togliatti
(e
dalla rilettura togliattiana di Gramsci)
e della situazione internazionale dell’epoca, in cui l’Urss
viveva,
grazie anche alla debolezza dell’amministrazione Carter,
l’ultima fase di espansione geopolitica, nella quale, così
avrebbero in seguito confermato i rapporti dell’intelligence
statunitense e non solo, il Pci
era
considerato ancora una pedina fondamentale (ma senza scavare troppo
negli archivi, si possono trovare conferme di questa situazione nelle
opere ponderose di Valerio Riva
e
di Viktor Zaslavskij).
Parlare di riformismo, in questo stato di cose - in cui il Pci
era
ostaggio dei propri rapporti internazionali, forse non più di
sudditanza ma comunque di forte condizionamento, e la sua classe
dirigente prigioniera di una buona fetta della base e dei quadri –
ancora oggi risulta un azzardo.
Mastrolia,
basandosi sulla rilettura craxiana di Proudhon,
conviene su un fatto essenziale: anche nella versione ammorbidita di
Berlinguer,
il leninismo restava incompatibile con il nostro sistema
costituzionale, che inquadrava l’Italia nelle democrazie
occidentali ad economia capitalistica, basate sul pluralismo politico
ed economico. A riprova di ciò, il professore della
Luiss
cita
gli articoli 41 e 42 della Costituzione,
che tutelano la libertà d’impresa e la proprietà privata.
In
realtà la situazione è meno netta di come la dipinge Mastrolia:
è vero che la libertà d’impresa è tutelata dall’articolo 41,
ma è altrettanto vero che la stessa norma subordina questa tutela
alla funzione
sociale dell’impresa;
l’articolo 42, invece, tutela la proprietà solo in maniera
indiretta, non la definisce come diritto e rimanda ogni
specificazione alla legge ordinaria. In breve, come hanno argomentato
non pochi giuristi di vaglia, a partire da Stefano Rodotà,
queste norme risultano sostanzialmente ambigue, perché da un lato, è
vero, ancorano l’Italia ai sistemi occidentali, ma, dall’altro,
contengono clausole a favore di ipotesi di democrazia socialista.
Ciò, detto per inciso,
oggi non è un male: se i lavoratori hanno ancora una giurisprudenza
che li tutela lo si deve alla sostanziale indefinitezza di questi due
articoli.
Ma
a rileggerli in prospettiva storica appare chiaro che il primo
compromesso storico, di cui essi sono il frutto, fu stipulato
nell’Assemblea
Costituente
e
che quello di Berlinguer
fu
il tentativo, meno forte di quanto non si creda, di aggiornare
quell’accordo con il mondo cattolico.
Mastrolia
non
risponde a una domanda che emerse dal dibattito di allora: come mai
Craxi
omise
dal suo album di famiglia figure importanti come Turati,
che pure aveva tanto da dire ai riformisti? Fu semplice sciatteria
dovuta alla fretta oppure c’era dell’altro?
L’accostamento
tra
Proudhon
e
Carlo
Rosselli
non
è sciatto né casuale, ma rifletteva l’intenzione di creare la
rottura con la tradizione leninista non al di fuori ma dal di dentro
della cultura rivoluzionaria. Cioè, il tentativo di recuperare in
una nuova visione politica della sinistra, le critiche al leninismo
senza scivolare direttamente nella socialdemocrazia (e nel suo
problematico e virulento anticomunismo incarnato dal Psdi).
Passare da un anarchico a un liberalsocialista significava rompere
del tutto con una visione ottocentesca del socialismo, all’interno
della quale i riformisti classici avevano invece un ruolo di primo
piano, e rifondare il socialismo su basi libertarie, forse più
compatibili con l’idea del conflitto regolato dalle norme.
Significava,
inoltre, lanciare un’opa sull’area laica (repubblicani, liberali
e radicali), costretta altrimenti a barcamenarsi tra i blocchi di
potere della Prima
Repubblica,
a cui anche il
Psi
era
di fatto subalterno.
Significava,
infine, rompere con una tradizione culturale che aveva ingessato la
sinistra e impedito un discorso costruttivo e ampio sulle riforme,
delegate al ruolo, questo sì egemone, della Dc.
Non
è un caso che il dibattito e il relativo affondo socialista sul
leninismo siano arrivati in quell’ultimo scorcio d’estate di
quarant’anni fa: col dramma di Aldo
Moro
iniziava
il riflusso delle Br,
che sarebbero state sgominate a partire proprio dai quei mesi, e,
soprattutto, di quella cultura leninista di cui erano impregnate le
formazioni clandestine ed extraparlamentari italiane. L’affondo fu
tanto più insidioso perché portava un messaggio di
ridimensionamento del conflitto, se non addirittura di pace sociale,
a un’opinione pubblica stanca.
Comunque
sia, proprio grazie a quest’operazione Craxi
si
rivelò un leader di prima grandezza, dopo due anni circa di
segreteria caratterizzati soprattutto da esigenze di sopravvivenza e
tentativi di rinnovamento del
Partito
socialista.
Chiedersi
perché queste istanze modernizzatrici, efficienti ed efficaci nel
Psi,
non si rivelarono altrettanto dirompenti nelle istituzioni non è
ozioso. Certo è, e lo hanno ribadito alla grande Simona
Colarizi
e
Marco
Gervasoni
nel
loro bel La
cruna dell’ago (Laterza,
Roma-Bari 2006), che la parabola di Bettino
Craxi
non
può essere ridotta solo a una faccenda di tangenti e corruzione. Ha
pesato molto semmai, il fatto che Craxi
operò
in un sistema sclerotizzato e all’interno di una situazione
mondiale, il bipolarismo
della
Guerra
Fredda,
prossima alla fine.
Ma il fallimento del
riformismo socialista resta una lezione inascoltata: non a caso,
tutti i tentativi posteriori di riformare il sistema italiano sono
falliti in maniera impietosa uno dopo l’altro.
Perché riprendere,
allora, un dibattito di quarant’anni fa? Perché no? La lezione,
forse non impartita bene, certo applicata male e di sicuro
inascoltata, partiva da lì.
È il caso, allora, di
riavvolgere il nastro e prendere appunti: i fallimenti dei giganti ci
aiutano a capire meglio i nostri.
Saverio
Paletta
Fonte Indygesto.it