est consulting

est consulting
Il primo portale dedicato all'investitore italiano in Rep. Ceca e Slovacchia

domenica 27 aprile 2014

Stavolta dico no ! L'importanza di dire no.

C'è chi dice no. Ma è un'eccezione. Perlopiù oggi, per tutta una serie di ragioni, tendiamo a dire di sì. Al lavoro, in famiglia, con gli amici, in amore. Non ci sarebbe nulla di male. Se non fosse che troppo spesso diciamo sì ma vorremmo dire no. E allora reprimiamo, coviamo rabbia, è il rapporto con quella persona peggiora, invece di migliorare.
È ora di dire basta, di dire no. Dall'America all'Inghilterra all'Italia, libri e saggi stanno invitando a cambiare marcia, a rivalutare il sano gran rifiuto. L'ultimo in ordine di tempo è stato l'autorevole bimestrale americano Psychology Today, che ha dedicato l'ultima copertina a "Il potere del no!".
"Raramente si celebra il no, questa specie di grata di metallo con cui muriamo la finestra tra noi e l'influenza degli altri", scrive nel saggio di apertura la psicologa e scrittrice Juditt Sills. "È un potere segreto, perché è facilmente equivocato ed è difficile da gestire".
Il sì ha, per così dire, un ufficio stampa migliore : passa per la risposta di chi rischia, di chi vanta coraggio e un cuore buono. Mentre il no viene confuso con la negatività. Ma è un errore. È vero, a volte no è negatività sono sinonimi : di impotenza, scontentezza petulante, paura infondata. Ma il no può essere anche altro : è un momento di scelta chiara, sa annunciare, seppure indirettamente, qualcosa di positivo che è in noi.
"Io non firmo", perché non è quella la mia verità. "Non contare su di me", perché non mi sentirei a mio agio. "No, grazie", perché, anche se ti sentirai ferito, i miei bisogni in questo caso vengono prima dei tuoi. Il no dice: "Io sono questo, ecco i miei valori".
Definisce il limite tra noi e gli altri, e rappresenta una "consapevolezza potente, solitaria e adulta", che protegge dagli abusi altrui, che agisce anche nei nostri confronti, come forma di autodisciplina verso la nostra rabbia o, ad esempio, verso i nostri presunti bisogni di un altro drink o di un altro acquisto non necessario.
"Il no sembra essere uno strumento che allontana le persone e impedisce di consolidare i rapporti", ci spiega lo psicologo Paolo Ragusa, da ottobre scorso in libreria con Imparare a dire no (Rizzoli), "invece è il modo adeguato per incontrare gli altri, sostanziare i rapporti ed esercitare in modo sano la propria disponibilità. Siamo vittime del mito del sì, di una impossibile disponibilità totale".
Lo pensa anche Mike Clayton, scrittore di libri di management come il recente e-Book "Si può dire di no" (De Agostini), secondo il quale è tutta una questione di tempo e priorità, ed è ancora più urgente rendersene conto in tempi di crisi economica: "La maggior parte delle persone ricorda quanto sia stato importante dire sempre sì all'inizio della carriera. Ma oggi viviamo una fase dominata da Internet e dai social media, entrare in contatto è più facile, siamo bombardati da richieste e proposte, ed è fondamentale sapere scegliere le più importanti. Fateci caso, chi ha successo, chi è al vertice di una società, non è che ha meno cose da fare… È che sa scegliere meglio a quante e quali cose dedicarsi".
Ma perché, insomma, preferiamo dire sì ? Per evitare conflitti. Perché non vogliamo far soffrire gli altri, (e infliggere una ferita fa soffrire anche noi). E perché, soprattutto, vogliamo piacere, essere popolari. "Crediamo di celebrare gli altri dicendo loro sì, e invece non facciamo che celebrare noi stessi, la nostra immagine fasulla di persone buone. Il si troppo spesso è narcisista", ragiona Ragusa, che da un punto di vista storico vede uno spartiacque nel 68 e nel suo "Il est interdit d'interdire", (Vietato vietare) : "Si è passati da un no autoritario a un sì accomodante, insomma da un radicalismo a un altro. Non si è elaborata abbastanza una strategia che ci spingesse a valutare ogni volta se è un no o un sì a fare evolvere il rapporto con i colleghi o con la famiglia".
Per Ragusa, a rivalutare il no dovrebbero essere soprattutto i genitori, e in particolare il padre : "La crisi del maschile e del paterno fa sì che gli uomini scimmiottino le donne. Ma così al si dell'accudimento e della cura soggiace senza scampo il no del limite e del conflitto, che invece a volte è l'unico a mettere davvero in relazione due persone. La "dieta" dei nostri figli ha bisogno anche del no paterno. Non si possono mangiare solo proteine o solo carboidrati, no? Alcuni no sono inutili o addirittura dannosi, altri no costituiscono invece una spinta vitale : ci permettono di stare al mondo, di relazionarci proficuamente".
Che le donne propendano a dire sì lo sostiene anche Clayton, ma per ragioni culturali e sociali : "Oggi devono dimostrare di essere perfette, non possono deludere nessuno, né in casa né al lavoro".
Certo, spesso è tutt'altro che facile opporre un no, che si sia uomini o donne. Secondo i neuroscienziati, un no è sempre più potente di un sì : il cervello reagisce più rapidamente, con più intensità, lo "sente" di più. Sono i "pregiudizi negativi" del cervello, descritti dallo psicologo americano Roy F. Baumeister, mentre il suo collega John Cacioppo dell'Università di Chicago, ha dimostrato che l'eco di un rifiuto dura più di un complimento.
Il cammino che conduce verso un libero è strano alternarsi di sì e no è tortuoso, ma è una battaglia cruciale. Dire di no è fondamentale per stabilire un equilibrio vita/lavoro, ma è anche la cartina di tornasole della nostra moralità. È del nostro amore : "E' un test - conclude Juditt Sills - se sentiamo di non poter dire di no, in certe occasioni o su certe questioni, allora quella persona non ci sta amando, ci sta solo controllando.

Daniele Castellani Perelli

Le sei regole della psicologa Juditt Sills

1) Rimpiazza il tuo si automatico con un "Ci penso su". Aiuta a riprendere il controllo, a riflettere e a preparare il terreno per un no ragionato, che fa meno male di quello impulsivo.

2) Ammorbidisci il linguaggio, indora la pillola. Usa espressioni come "Preferirei di no", "Non sono a mio agio con…", "E' molto interessante ma non sarei capace di…".

3) Contieni le tue emozioni. Un no arriva meglio a destinazione se accompagnato da un'aria di calma zen, anche se è finta. È molto più efficace di uno tsunami di rabbia.

4) Cita la tua responsabilità verso altri. Ad esempio: "Mi piacerebbe aiutarti, ma ho già promesso a mia madre di…".

5) Pensa, o immagina, che tu stia facendo qualcosa anche nell'interesse di qualcun altro, come la tua famiglia o la tua azienda. Ad esempio: "Non posso prestarteli, perché con quei soldi devo…".

6) Se insistono, ripeti il tuo no. Davanti a un capo che pretende un certo lavoro da te o un familiare sempre bisognoso, ripeti con calma la frase con cui li stai respingendo. E se non cedono, rimani in silenzio, finché non capiscono che non c'è niente da fare. Il tuo no è no.


lunedì 21 aprile 2014

Adria bella, paese gentile. La canzone di Adria.


La storia della canzone di Adria, comincia durante la Prima Guerra Mondiale. Non domandatemi date e luoghi precisi perché non li so.
So solamente che durante la Grande Guerra appunto, venne attrezzato un ospedale militare dove attualmente esiste il cinema Politeama. Il cinema Politeama fu ospedale militare anche durante la Seconda Guerra, ma a noi questo non ci interessa, o perlomeno auguriamoci che non si scatenino altre guerre.
Bene, ritornando alla canzone di Adria, un militare venne ferito gravemente e ricoverato presso l'ospedale militare al Politeama. Vi rimase per parecchio tempo, sicuramente più di un anno ; a quei tempi il day hospital non esisteva. La grave ferita rimarginò, il militare guarì perfettamente, e durante questo lunghissimo ricovero ebbe modo di apprezzare l'amore, la dedizione, la cordialità delle infermiere e della gente di Adria tutta.
Particolarmente colpito da tutto ciò, si senti probabilmente in dovere di scrivere queste dolci parole sul tema di “Reginella”, la celebre canzone partenopea.
Come si chiamasse questo militare, da dove venisse, quanto tempo rimase ad Adria, che tipo di ferita subì, questo purtroppo non lo so, e probabilmente nessuno lo sa ; con questo post spererei di poter raccogliere qualche informazione in più. Se qualcuno di voi lettori e ha conoscenza di qualche dato supplementare, si faccia avanti e lo scriva qua sotto, sul modulo destinato ai commenti. Sempre ben accetti !
Questa canzone la imparai ai tempi delle scuole elementari. Non ricordo con precisione chi me la insegnò, ma sicuramente la mia maestra. E da allora non l'ho più scordata, sia le parole che il motivo. Strano come mi sia rimasta in mente dopo tutti questi anni.
Probabilmente perché é come una canzone dell'emigrante, ecco perché la sento così mia e la ricordo così lucidamente. Io fondamentalmente sono un emigrante e anche Adria negli anni ha visto andarsene tanta gente.
Da un altro punto di vista è un tributo importante, formidabile, significativo ad una città ed alla sua gente, che storicamente si è sempre distinta in tutta la provincia di Rovigo e in tutto il Veneto.
Ovviamente Adria ha questo impianto scenografico talmente originale e delizioso, che la rende indimenticabile e affascinante. Il canale, i ponti, il corso Garibaldi destinato alla passeggiata, il quartiere Canareggio che deve il suo nome proprio per la straordinaria somiglianza al quartiere veneziano.
E ovviamente anche Adria sta vivendo il suo periodo di declino e degrado, in perfetta e totale sintonia con tutto il resto della penisola italiana. Ma questa, è un'altra storia.
Per il momento vi trascrivo il testo della canzone e un paio di video dove mi esibisco a cantarla. Cedo tutto alla rete a futura memoria.


Adria bella paese gentile
del Polesine sei la Regina
vago fiore odoroso d'Aprile
sei d'Italia la gemma più fine
dopo un anno ch'io t'ho conosciuta
dopo un anno io t'amo così
forse che lontano andrò da te
forse non ti vedrò mai più
ma mi ricorderò sempre di te
che tanto buona fosti con me.

Questa è una puntata dello special "Cuore adriese". Dal minuto 35' c'è la canzone di Adria.

martedì 15 aprile 2014

Il grande fascino, e il grande valore, delle "Uova Fabergè".

Le famose uova Fabergè portano in viaggio nella storia. Grazie a queste
opere d'arte infatti è possibile ripercorrere i principali eventi tra la fine del 19º e l'inizio del 20º secolo. I materiali pregiati, le pietre preziose, l'oro e l'avorio usati dal gioielliere Peter Carl Fabergè (1846-1920), per produrre le uova regalo della famiglia imperiale russa, restano quasi in secondo piano rispetto ai particolari che le caratterizzano.
Era tradizione che l'imperatore regalasse le uova di Fabergè a Pasqua. Questo avvenimento era un vero e proprio spettacolo : nel palazzo di San Pietroburgo, circa 1600 funzionari e dipendenti, potevano partecipare ogni anno all'evento. Durante questa festa l'imperatore, solitamente inavvicinabile, veniva baciato da ognuno dei suoi sudditi sulla guancia e consegnava loro, come da tradizione ortodossa, un uovo di Pasqua.
I dipendenti regolari ne ricevevano uno in porcellana, mentre gli alti funzionari ne raccoglievano uno realizzato con pietre preziose e smalti. Infine l'imperatore donava la versione più elaborata e preziosa alla sua famiglia.
Nato a San Pietroburgo, l'orafo lavorò successivamente a Dresda e Parigi, dove assorbì gli sviluppi storici e gli eventi sociali del suo tempo. Tornato in patria realizzò il suo primo uovo nel 1885 per l'imperatrice Marjia Fedorovna : dall'esterno sembrava un semplice uovo di gallina, ma al suo interno era contenuta una preziosa sorpresa. Dietro uno strato di oro, che rappresenta il tuorlo, era nascosta infatti una gallina d'oro, al cui interno vi era una corona imperiale di diamanti e un pendente di rubino. Il valore era di circa 4000 rubli, (circa 30.000 euro odierni).
L'imperatrice fu talmente contenta della sorpresa, che Fabergè diventò l'orafo e il gioielliere ufficiale della dinastia imperiale.
Uno dei pezzi più pregiati della sua collezione fu l'uovo Reale Danese, commissionato nel 1903 dallo zar Nicola II per la madre di origine danese : questo conteneva 10 dipinti in miniatura di palazzi danesi e russi. Non da meno è l'uovo Memoria di Azov, un dono di Alessandro III alla moglie, la cui sorpresa era una fedele replica in miniatura della nave corazzata della marina imperiale russa Pamjat' Azova.
Fabergè usò come oblò dei diamanti e ricreò il mare con l'acquamarina, senza trascurare dettagli come ancora, catena e pistole.
Nel 1900 Fabergè progettò per la moglie di Nicola II un uovo con la ferrovia transiberiana. Questo capolavoro racconta ancora oggi la storia del gigantesco progetto della Russia di diventare il punto di unione tra l'Europa e l'Asia. L'uovo è caratterizzato da una fascia centrale in argento, sulla quale era incisa una mappa della Russia con il tracciato della ferrovia transiberiana ; ogni stazione era contrassegnata da una pietra preziosa.
In quel periodo la maison Fabergè diventò così famosa da espandere i propri laboratori : circa cinquecento lavoranti producevano migliaia di articoli.
All'inizio della prima guerra mondiale l'imperatore ridusse
significativamente la sua spesa per le costose uova di Pasqua, che in media avevano un valore tra i 3,5 mila rubli (circa 25.000 euro) e i 59.000 rubli (circa 425.000 euro). Lo zar era ormai crollato e nel tumulto della rivolta comunista fuggì con la famiglia in Siberia, dove incontrò poi la morte nel luglio del 1894.
In un primo momento le uova di Fabergè sopravvissero a San Pietroburgo. Quaranta di loro furono poi confiscate dai bolscevichi e portate al Cremlino. Tuttavia, nell'inventario del 1927, ben 16 copie mancavano all'appello, essendo state trasformate in denaro del quale la rivoluzione aveva un forte bisogno.
Oggi è noto come uomini d'affari come l'inglese Emanuel Snowman acquistarono dai sovietici oggetti preziosi in cambio di danaro. Snowman comprò 80 pezzi di gioielleria per 100.000 sterline, (oggi circa 4,1 milioni di euro) e nel 1930 vantava ben nove uova. Nei primi anni della Repubblica Sovietica il governo rilasciò il permesso di fare uscire altre dodici uova dal paese e tre anni dopo altre cinque. Attraverso alcuni mercanti d'arte, queste giunsero all'estero nelle mani di nuovi proprietari di spicco tra cui, ad esempio, Lillian Thomas Pratt, la moglie di un alto dirigente della General Motors. Un altro cliente dello stesso rivenditore fu il re egiziano Farouk. Quando morì, la sua collezione andò all'asta e le sue tre uova Fabergè passarono a Maurice Sandoz, un erede del settore chimico.
Anche il miliardario Malcolm Forbes spicca nell'illustre cerchia dei collezionisti di uova. Nel 1985, quando riuscì a segnare un colpo con l'acquisto all'asta dell'uovo con Galletto, il banditore commentò il prezzo di vendita pari a 1,7 milioni di dollari (1,2 milioni di euro) così: "Il risultato è ora: Cremlino 10-Forbes 11".
I prezzi sono poi velocemente esplosi, come dimostra anche la cifra sborsata da un membro della famiglia reale del Quatar pari a 9,6 milioni di dollari (circa 7 milioni di euro) per una di queste uova. L'uovo dell'Incoronazione (1897), di Forbes,
da solo vanta un prezzo stimato tra i 13 e i 17 milioni di euro e l'intera collezione intorno ai 90-120 milioni di dollari.
Tuttavia, ancora prima che tutta la collezione Forbes potesse finire sotto il martello di Sotheby's, il miliardario russo Viktor Vekselberg, nel 2004 l'acquistò per circa 90 milioni di dollari affermando: "Questa è un'occasione unica per ripagare il mio paese e ridargli una parte dei suoi tesori". Tre mesi più tardi l'intera collezione Fabergè venne esposta a Mosca, poi a Londra e infine è passata all'esposizione permanente di San Pietroburgo, presso il Palazzo Shuvalovsky.
Anche il collezionista d'arte russo Alexander Ivanov è impegnato a riacquistare altre uova del maestro. Ivanov ha segnato il suo colpo più spettacolare nel 2007, con l'acquisto all'asta di Christie's per 17,7 milioni di dollari (circa 12,8 milioni di euro) dell'uovo che Carl Fabergè progettò per il Barone Edouard de Rothschild come regalo di fidanzamento.
L' uovo d'Inverno è il più costoso tra quelli di Fabergè. Venne creato nel 1913 per la madre dello zar Nicola II, in occasione dei 300 anni della dinastia Romanov, per 24.600 rubli. La parte esterna, che ricorda un inverno particolarmente difficile, è ottenuta da un cristallo siberiano decorato con 3000 diamanti. All'interno, in un cestino di platino, si trova un bouquet di anemoni, ognuno dei quali è ricavato da un quarzo bianco e decorato con altri diamanti.
Dopo un periodo di silenzio, le celebri uova tornano a far parlare di sé.
Questa volta si tratta di una versione più moderna, presentata a Londra nel 2011 con il nome di "Les Fameaux de Fabergè". Si tratta di una collezione di 12 pendenti di nuovo design, tra cui spicca un uovo in diamanti costruito su una struttura in titanio, per un totale di oltre 66 carati e di 600.000 dollari (circa 435.000 euro).
La caccia è ancora aperta: otto uova Fabergè scomparse nel tumulto della rivoluzione comunista non sono infatti ancora riemerse. Buona fortuna.

Il museo
Nella città tedesca di Baden-Baden, è possibile visitare un museo interamente dedicato alle opere di Fabergè e inaugurato nel 2009 da Alexander Ivanov. Oltre all'uovo Rothschild Fabergè, fanno parte della collezione anche una caraffa in argento a forma di coniglio e l'ultimo uovo pasquale imperiale.

martedì 8 aprile 2014

Lutti invisibili. I simboli della morte sbiadiscono.

L'ingorgo è così aggrovigliato che non ci si passa neanche in motorino. Sulla destra c'è una Panda con un vecchio infagottato. A sinistra una Porsche bianca. Il tizio al volante e l'idea platonica dell'evasore fiscale. Davanti, proprio in mezzo alla carreggiata, sta un carro funebre. Allungo lo sguardo: dentro c'è il morto. È in una bara di legno chiaro corta come una scatola da scarpe - quando muoiono gli esseri umani rimpiccioliscono sempre - con una corona di fiori discreti, quasi incolori, posata sul cofano.
Osservo la Panda, la Porsche, una Passat più in là. Dentro l'ingorgo si sta svolgendo un funerale invisibile. Cerco nelle auto facce tristi, segni di lutto, invece in ogni abitacolo la vita pare procedere imperturbata. Come se niente fosse.
Ieri mattina sul mio portone c'era una coccarda rotonda. Mi sono avvicinato per leggere il nome. Non l'avevo mai sentito. Non sapevo che quella signora defunta potesse essere stata viva. La sagoma di una donna malandata della scala B mi transitava correndo nel cervello, ma era leggera e incerta. Ieri sera, al rientro, la coccarda non c'era più. Era stata sostituita da una cartolina. Diceva: "La famiglia, commossa per la manifestazione d'affetto tributato, ringrazia". Ma nell'androne l'album per le condoglianze non c'era. Era stato un evento clandestino come questo corteo funebre sepolto nel traffico.
Quando ero piccolo i morti non avevano vergogna. Si esibivano ed erano esibiti. Se qualcuno moriva gli androni delle case venivano rivestiti di anacronistici drappi di velluto nero e viola che sembrava di vivere in Spagna o in Sicilia. Qualsiasi condominio, anche il più anonimo, si trasformava in una cattedrale. Appariva un tavolino con una tovaglia lunga fino a terra e sopra c'era un album grande, aperto e bianco su cui lasciare una firma, una frase, un saluto.
Quando ero piccolo gli ingorghi non si formavano intorno, ma perché e quando passava un funerale. Le auto si bloccavano, qualcuno si toccava di nascosto, il corteo sfilava a piedi dietro il carro funebre. Tutto rallentava. La morte cambiava le cose. Anche i vestiti. Prevaleva il nero. Il carro funebre qui nell'ingorgo, invece, è grigio metallizzato. Forse è stato rimodernato. Sul sito Autofunebricars si vendono kit con muso, fari e specchietti per trasformare "con una spesa moderata, il vostro vecchio autofunebre Mercedes W 210, nella più recente versione 212, e soddisfare le esigenze di modernità dei vostri clienti".
Qui nell'ingorgo non si capisce se c'è qualcuno che piange. Un tempo il
lutto poteva essere grave, mezzo o leggero, ma si doveva vedere. La gerarchia era inflessibile. Genitori, figli, suoceri, nuore e generi valevano sei mesi di lutto grave e sei di mezzo lutto; marito e moglie 18 mesi, (12 grave, 4 mezzo e 2 leggero); ultimi, con soli 3 mesi di lutto, venivano cugini carnali e nipoti.
Esistevano abiti da lutto completi e obbligatori. Poi incominciarono a bastare il bottone nero è la fascia al braccio. Poi più nulla. Oggi ai funerali ci si veste in modo normale. L'atteggiamento è ribaltato. Una volta il lutto bisognava mostrarlo, oggi nasconderlo. Le corone di fiori, le Mercedes rimodernate, le coccarde sui portoni sono orme del passato. I simboli della morte sbiadiscono. È sufficiente ritrovarsi e stare insieme.
L'ingorgo si scioglie, qualcosa si muove. Getto un'ultima occhiata dentro le automobili. Cerco un segno che distingua chi va al lavoro da chi segue il funerale. Mi accorgo che alcune automobili hanno più di un passeggero.

Giacomo Papi

mercoledì 2 aprile 2014

Modi di dire 20.

Si dice . . . “ essere il nemico pubblico n. 1 “

Indica qualcuno estremamente pericoloso per la società e, per estensione,
designa chi sia considerato da temere da un gruppo, un'istituzione, una squadra avversaria ecc. La definizione viene dagli USA e venne usata per la prima volta per John Dillinger, (1903-1934), criminale che iniziò la carriera di rapinatore a soli 21 anni proseguendo imperterrito, tra arresti ed evasioni, la sua attività di fuorilegge per 10 anni e costringendo l'FBI a dichiararlo “nemico pubblico n.1”, prima di riuscire ad ucciderlo a Chicago nel 1934.

Si dice . . . “ fare vita da Nababbo “

Significa vivere in modo sontuoso, circondarsi del lusso più sfrenato. Il termine Nababbo proviene dall'indoeuropeo nawab che designava inizialmente il governatore o il vicerè delle provincie indiane dell'Impero Moghul, monarchia di provenienza persiana che governò l'India dal XVI secolo fino all'avvento degli inglesi nel XIX secolo. Il titolo di Nababbo venne in seguito esteso ai principi e ai nobili dell'India islamica, (con funzioni anche religiose), le cui ricchezze favolose divennero proverbiali.

Si dice . . . “ andare a ramengo “

Significa andare in rovina, in bancarotta. Il termine originale, ramingo, era riferito all'uccellino che, uscito dal nido, salta di ramo in ramo senza volare e per estensione a chi vagasse da solo senza meta. Ma nell'alto Medioevo, ad Asti, prese il nome maccheronico di Aramengo, probabilmente in quanto luogo designato a chi venisse allontanato dalla comunità. E la frase “andare a Aramengo”, poi mutata in “a ramengo”, divenne presto popolare.

Si dice . . . “ andare in visibilio “

Vuol dire andare in estasi, essere al culmine della felicità, dell'entusiasmo. L'origine di questo modo di dire va ricercato nella versione del Credo in latino elaborato dal Concilio di Nicea e più precisamente dall'interpretazione popolare del verso “Credo (…) factorem (…) visibilium omnium et invisibilium”, (Credo nel creatore di tutte le cose visibili e invisibili). Nella tradizione orale, (nei primi secoli del cristianesimo questi versi non si scrivevano), invisibilium divenne in visibilium e il significato si trasformò da “cose invisibili” a “cose indescrivibili, straordinarie, meravigliose”, cioè percepibili attraverso le emozioni.

Si dice . . . “ sentirsi sulle montagne russe “

Vuol dire avere alti e bassi di umore, salute o fortuna. Il detto si ispira alle “montagne russe” od “ottovolante”, l'installazione da luna park il cui trenino percorre a gran velocità salite e discese mozzafiato. La definizione nasce dal fatto che grandi scivoli ghiacciati in legno da percorrere con una slitta si trovavano in Russia nel XVI secolo. Nel 1762 nella reggia di Oranienbaum, vicino San Pietroburgo, fu costruito dall'architetto italiano Rinaldi il padiglione di Katalnaya Gorka, esempio di montagne russe poi imitate in Francia nell'800.


Si dice . . . “ attaccare briga “

L'espressione “attaccare briga” , da cui essere un attacca brighe, vuol dire cercare a bella posta un conflitto, un contrasto, una lite. L'origine del termine va cercata in una parola celtica che ha il significato di fortezza, forza, (vedi Briga in Svizzera), e che per estensione è passata a significare assedio, scontro, litigio, molestia, fastidio, cruccio ecc. Di qui la frase “prendersi una briga”, (preoccuparsi, adoperarsi per qualcosa), ma anche una serie di termini, (brigante, brigata, brigantino), che si ispirano al concetto dello stare in armi insieme con o contro la legge. Anche il nome del Brighella, servo insolente e litigioso della Commedia dell'Arte, ha la stessa origine.


Si dice . . . “ dormire sugli allori “

Vuol dire vivere di rendita, impigrirsi sui successi ottenuti nel passato senza far niente per ottenerne degli altri. Gli allori si riferiscono alle corone d'alloro, (laurus nobilis) – pianta sacra ad Apollo nella mitologia greco-romana, rappresentava la ninfa Dafne amata dal Dio) – usate per cingere il capo ai vincitori dei giochi pitici. Questi giochi, che a partire dal VII secolo a.C. si alternavano ai giochi olimpici, si tenevano al santuario di Apollo a Delfi e prevedevano competizioni sportive, gare musicali e di poesia. Le corone d'alloro erano segno di gloria perpetua.


Si dice . . . “ essere cinici “

L'espressione “essere cinici” o anche “essere dotato di cinismo” indica chi mostra disprezzo o insensibilità per ogni valore e sentimento umano e agisce con freddezza e calcolo. Il termine “cinismo” si riferisce a una scuola filosofica dell'antica Grecia fondata nel IV secolo a.C. da Antistene e Diogene di Sinope, (detto “il cane”), ad Atene. I cinici, piuttosto disprezzati dalle scuole rivali, erano per una vita assai spartana, priva di agi e comodità e indifferente a passioni e cupidigie terrene, tutta rivolta alla ricerca della “virtù” intesa come felicità interiore da ricercare individualmente. Il loro disprezzo per le regole sociali e la corruzione dei costumi, appiccicò ai cinici un'etichetta in parte sbagliata.


Si dice . . . “ allevare una serpe in seno “

Vuol dire fare del bene a chi si rivela poi ostile e pericoloso. L'espressione origina da una favola dello scrittore Esopo, (IV secolo a.C.), poi ripresa da Fedro e da La Fontaine. “Un vecchio contadino”, racconta la favola, “durante l'inverno, avendo trovato una serpe intirizzita dal freddo e avendone avuto compassione, la prese e se la mise in seno. Quella poi, riscaldandosi e riprendendo la sua natura, ferì il benefattore e lo uccise. Lui morendo disse : “Ho ciò che merito, avendo avuto compassione di quella malvagia”.


Si dice . . . “ essere in buona fede “


Vuol dire essere sinceramente convinti di agire in maniera corretta, rispettando le regole. Il concetto di buona fede, (dal latino bona fides), deriva dal diritto romano. Per i giudici dell'antica Roma era ritenuto fondamentale il comportamento leale ed onesto del cittadino nell'esecuzione degli impegni e degli obblighi assunti : perciò la buona fede costituiva un parametro per valutare la correttezza o meno di un comportamento. Si distingueva, (e la distinzione è valida anche nel diritto attuale), la buona fede soggettiva, ossia il non sapere di ledere il diritto altrui, e la buona fede oggettiva, cioè il generale dovere di correttezza e lealtà di condotta nei rapporti fra soggetti.