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venerdì 18 marzo 2016

I vigili debbono vigilare non stare in ufficio.

È da circa trent'anni che la pubblica amministrazione di Adria in materia di segnaletica e istruttoria, opera palesemente contra legem”. Pesano come macigni le frasi che Francesco Pantano ritorna a scrivere nel mio blog. Questa volta ci racconta di come i Vigili Urbani, ora Polizia Locale, per legge non debbano svolgere funzioni differenti da quelle di vigilanza e repressione di reati ed infrazioni al codice della strada. E di come ad Adria, con una delibera comunale, si è sistematicamente violata una legge dello stato. Buona lettura.

Mi chiamo Francesco Pantano. Sono nato nel 1940 in un paese in provincia di Padova. Sono entrato nel corpo dei vigili urbani nel 1964. Sono stato vigile urbano ad Este e ad Abano Terme, poi comandante a San Felice sul Panaro in provincia di Modena, a Desenzano del Garda (Bs) e a Rozzano, in provincia di Milano. Ho esercitato le mie funzioni tra il Veneto, l'Emilia-Romagna e la Lombardia. E a quei tempi i vigili vigilavano, com'è loro dovere per legge.
Francesco Pantano
Arrivo in Adria nel 1983 a ricoprire il ruolo di comandante dopo aver vinto regolare concorso. Verrò poi estromesso dalle mie funzioni di comandante il 12 giugno 1987 con la delibera comunale 844, (giunta: Grotto PSI Sindaco, Spinello PCI Vice, assessori Rozzarin PSI e Greggio PRI, Tescaroli segretario). Il motivo? Perché avevo denunciato dei segnali stradali inventati dall'allora vice comandante Giuseppe Cascone, segnali inventati e carenti che avevano causato la morte di tre giovani carabinieri ad un passaggio a livello, clicca QUI, e perché mi prodigavo ad applicare la legge, che allora come adesso, dice che i vigili debbono vigilare e non stare in ufficio.
Dei vigili, guardie municipali, ne parla il regio decreto 297 del 1911: prevenire, controllare e reprimere in sede amministrativa comportamenti contrari a norme di polizia locale, clicca QUI. Ora la legge 65 del 1986 e successive modificazioni: prevenzione controllo repressione, area di vigilanza, clicca QUI. Non funzione istruttoria e nemmeno istruzione di pratiche amministrative, clicca QUI.
Quando ero comandante, le pratiche amministrative erano istruite dal maestro Gianni Lazzerin.
Che cosa è successo in Adria? Una piccola rivoluzione copernicana.
In Adria la giunta Grotto con la delibera 1733 del 31/10/86, assegna ai vigili funzioni amministrative, clicca QUI. Il CORECO annulla tale delibera 1733 per eccesso di potere e violazioni di legge, protocollo comunale 1686 del 16/03/87, clicca QUI.
COME NULLA. Il comune di Adria se ne frega dell'ordinanza del CORECO e la delibera 1733 rimane operativa a tutt'oggi.
Vi è un susseguirsi di eventi in uno spazio temporale, tutto sommato breve. Divento comandante dei vigili in Adria nel 1983. Comincio a denunciare segnali inventati è carenze segnaletiche. Sono inascoltato. Il 31 ottobre del'86 la delibera fuorilegge numero 1733 da me osteggiata e il successivo annullamento da parte del CORECO. Il 3 febbraio 1987 la tragica morte dei tre carabinieri al passaggio a livello
Valliera: il passaggio a livello
di Valliera da imputarsi solo ed esclusivamente ,come dimostrato, a carenza segnaletica. Il 12 giugno 1987 la delibera 844, anch'essa fuorilegge ed annullata dal CORECO, che mi estromette in maniera definitiva dalle mie funzioni di comandante dei vigili urbani. Mi sfrattano dalla casa comunale, che mi spettava di diritto, e da allora comincia il mio calvario.
Sin dall'inizio Grotto e Spinello, non hanno controllato la situazione riguardante la segnaletica e l'istruttoria, in dispregio totale delle leggi, ritenendo lo scrivente comandante un untore di manzoniana memoria.
Impensabile fossero all'oscuro di regole elementari che regolano una pubblica amministrazione. Inaudita e arbitraria la rimozione del comandante: grave nocumento all'immagine e alla credibilità della pubblica amministrazione di Adria. Spiace dover citare il segretario dott. Nereo Tescaroli, che non ha saputo fermare la violenza della delibera 844.
È da circa trent'anni che la pubblica amministrazione di Adria in materia di segnaletica e istruttoria, opera palesemente "contra legem".

Francesco Pantano
... e questo è il video di Francesco Pantano

sabato 12 marzo 2016

"Forza Cavajari" di Arnaldo Cavallari.

Forza Cavajari” come si dice in Argentina e “Forza Cavallari” “Forza Arnaldo”, come diciamo ad Adria. Si perché mai come in questo momento Arnaldo ha bisogno di tutti noi, del nostro sostegno e del nostro entusiasmo. Il 3 marzo Arnaldo si è procurato una frattura al femore e alla sua età è una gran brutta cosa. Ma lui è un uomo d'altri tempi, dalla scorza dura e sta sopportando nel migliore dei modi il brutto incidente. O almeno lo fa intendere. Leggiamo una delle sue tante avventure motoristiche, questa volta in Argentina, dove il piccolo Jorge lo sosteneva gridando “Forza Cavajari”. E anch'io mi unisco a Jorge.



Martedì 12 settembre 1972. All'altro capo del telefono, Cesare Fiorio. Hai voglia di fare una corsa in Argentina? Come no, quando? Dovresti partire domani, la corsa è domenica. Portati chi vuoi. Anche un'amante, se ti fa piacere. Ma mi devi dare una risposta entro due ore. Ciao.
Due ore? Mi chiesi se era diventato improvvisamente matto, ma dentro di me avevo già accondisceso. Ero reduce da mesi agonistici quale direttore sportivo della squadra rally Csai, dove avevo fatto da chioccia a giovanotti come Gianni Bossetti, Gianni Besozzi, Orlando Dall'Ava, Maurizio Verini e Giacomo Pelganta. Ero molto soddisfatto dei risultati ottenuti. Presi il telefono e chiamai Sergio Rombolotti, il mio ultimo navigatore. Partiamo domani per l'Argentina. E misi giù il telefono. Informai immediatamente Fiorio, il quale mi dirottò all'ingegnere Russo della Fiat. Si chiama El desafio de los valientes, La sfida dei valorosi - mi spiegò cortese - una corsa tra 18 campioni locali ed europei: 170 km in mezzo alle montagne di Carlos Paz. È organizzata dalla Fiat per il lancio della berlina 125 bialbero sul mercato argentino.
"Bello", pensai. Il giorno dopo partii da casa di buon'ora. A Milano caricai un ancor incredulo Rombolotti. I biglietti aerei erano al bancone delle Aerolineas Argentinas. Giovedì atterrammo a Buenos Aires dove ci attendeva un volo per Cordoba. Altri 1000 km. Poi in auto fino a Carlos Paz. Non feci in tempo a scendere dall'auto che fui avvicinato da Jorge, un simpaticissimo ragazzino dagli occhi impertinenti. Il quale, dopo avermi "adottato", ballava cantilenando "Forza Cavajari (Cavallari)". Gridò queste due parole di continuo, per tre giorni, senza perdermi di vista un solo istante. Premuroso e fedele.
Subito sul muletto messo a disposizione per le prove. Subito sul percorso assieme a Kallstrom, Lindberg, Lampinen e Smania, l'altro italiano invitato. Una strada in mezzo alle montagne. Paesaggio lunare, senza alberi. Solo rocce grigie e levigate dai venti. Niente case, niente bivi. Un'unica lunga strada sterrata, irta e tortuosa. Su fino a Mina Clavero, poi dietrofront e percorso inverso, in discesa. Prima di sera restai senza pastiglie dei freni. Si correva in un altro mondo. Addirittura le 15 vetture muletto erano senza targhe.
Per le strade argentine tutti i possessori di un "qualche cosa" con quattro ruote andavano come pazzi. Le auto erano rottami avvolti da dense coltri di fumo bianco. Polvere e rumore assordante. Non esistevano stop, non esistevano precedenze. "Forza Cavajari".
Venerdì. Prove ufficiali con strada chiusa. Mi consegnarono un'altra 125. Nuova. Logicamente senza targa. Stavo guidando molto concentrato, dettando anche le “note” a Rombolotti, quando improvvisamente sentii un gran colpo dietro. La macchina sbandò e vedemmo la ruota posteriore sinistra che ci passava davanti, per poi sparire dentro un burrone. Si erano allentati i dadi e la ruota si era staccata dal mozzo. Fine prematura delle prove. "Forza Cavajari".
Sabato. Stessa solfa. Su e giù perfezionando le note. Da una vettura davanti a noi, partì un sasso che centrò il nostro parabrezza e lo mandò in frantumi. Siccome i guai non arrivano mai da soli, si scatenò un temporale. Quindi, acqua, fango e quant'altro nell'abitacolo. Quaderno delle note e abbigliamento in bagnomaria.
Ma chi se ne frega. Eravamo felici di essere lì. Prendevamo tutto come veniva. Osannati dai nostri connazionali, seguiti ad ogni passo da giornalisti e radiocronisti, sommersi di inviti per asado e chivito. Cortesia e simpatia ovunque. "Forza Cavajari".
Domenica, ore 8:00. Mi svegliò la radio. Ululava l'estrazione a sorte dei numeri che assegnavano le 18 vetture da gara, ai 5 piloti europei e ai 13 argentini. Impiegammo quasi due ore per arrivare alla partenza. Un caos metropolitano moltiplicato per cinque. Migliaia di persone giunte con ogni mezzo. Auto stantuffanti, camioncini rumorosi, autobus con la gente penzoloni all'esterno tanto strapieni erano, camion con i pneumatici lisci come le monoposto da pista. Tutti si affannavano per disporsi lungo il tracciato. Entusiasmo alle stelle. Il percorso pullulava di grandi griglie fumanti, dove l'asado cuoceva riempiendo la vallata di un unico, intenso profumo di invitante carne alla brace. "Forza Cavajari".
Ore 11,30. Partenza tre minuti l'uno dall'altro. La 125 special da gara era poco più di una vettura di serie. Giusto una lucidatina ai condotti e lo scarico aperto. Non mi trovavo per niente. Guidavo male, la macchina andava dove voleva. Arrivai su e scoprii che noi europei, avevamo preso una scoppola non indifferente dai piloti locali. D'altronde, loro conoscevano a memoria il percorso. Correvano addirittura senza coequiper. Recalde era un giovane del posto, fortissimo. Carlomagno addirittura abitava a Mina Clavero e confessava candidamente di aver fatto su e giù mille volte.
Intanto Canedo, il re delle montagne argentine, si era rovesciato in una curva. No problem. Gli spettatori l'avevano subito raddrizzato e nonostante l'incidente, era nientemeno che terzo assoluto. Dopo mezz'ora si ripartì per il percorso inverso. La faticaccia durò due ore e cinque minuti. Vinse Recalde. Io giunsi settimo. Non male per un "vecchio". "Forza Cavajari".
La corsa vera, comunque, andò in scena successivamente, tornando a Carlos Paz, con Rombolotti alla guida del muletto. Il bilancio: due tamponamenti, un rovesciamento di camioncino carico di peones urlanti, altre varie bottarelle subite e date. Il tutto, circondati dai più stravaganti mezzi a motore, con il volume della radio al massimo e teste e gambe tentacolari che spuntavano dei finestrini. Fu un rodeo, non un viaggio.
Alla sera, festa megagalattica. Una sfilata per le vie di Carlos Paz, ragazze in costume sul cofano e sul tetto delle 125 giunte al traguardo. Banda, musica, fuochi d'artificio. Premiazione su un palco dove eravamo in duecento, quando poteva contenerne non più di cinquanta. Una baldoria collettiva. Sfrenata. Un ambiente nel quale mi ritrovavo ...
Ci intrattenemmo con alcune bellezze locali e senza accorgercene arrivò il mattino del lunedì.
La cosa più struggente fu l'addio al piccolo Jorge. Le sue lacrime, i suoi abbracci. "Cavajari, Cavajari ...". Lo lasciai con il nodo alla gola.
Senza aver dormito, via di nuovo verso Cordoba. Poi Buenos Aires. Un po' di shopping. La sera eravamo sul Boeing 707 che ci riportava in Italia. In testa e nel cuore la "saudade", come la chiamano in Brasile, e il piccolo Jorge.


Arnaldo Cavallari da “Una vita nel sole”

sabato 5 marzo 2016

Cena di classe dopo 25 anni. Ma che senso ha?

Tutto iniziò con un messaggio, qualche mese fa. Arrivava dal Bernasca : "Cara Elasti, quest'anno celebriamo 25 anni dalla maturità. Se organizzassimo un incontro tutti insieme? Nell'invito eviterei, tuttavia, di menzionare il quarto di secolo : potrebbe spegnere gli entusiasmi e inibire le adesioni". Lo sapevo : la cena di classe incombe come una mannaia sulle teste di tutti noi. Prima o poi arriva, come l'amore e il mal di testa. Senza contare che io, nei confronti del Bernasca, ho un debito di eterna gratitudine : senza di lui, che dal banco dietro il mio, mi lasciava copiare le sue versioni di greco, sarei ancora lì, in terza F, intrappolata nell'Aoristo.
Pertanto al mio benefattore, allora fulgido grecista ora fulgido ingegnere, non posso dire di no, nemmeno quando propone imprese kamikaze. Dopo forsennate ricerche, fu stilato un elenco, in rigoroso ordine alfabetico, lo stesso dell'appello, ogni mattina di 25 anni fa, e, infine, fu prenotato in un ristorante un tavolo da 16 posti, a nome Bernasca. Come ci si veste, ci si trucca, ci si pettina, a una cena di classe? E se nessuno si riconosce? Se non si riconosce nessuno? Se dicono : "Era tanto carina. Peccato : il tempo, con lei, sia stato impietoso?" Se pensano : "Sgorbio era, sgorbio rimane?" Se l'imbarazzo ci paralizzerà?
Tra interrogativi e ansie, mi feci una doccia, mi lavai i capelli, mi truccai con scarsa perizia e moderazione e, dopo tre quarti d'ora di muta contemplazione dell'armadio aperto, infilai dei jeans, una maglietta e un paio di sandali con i tacchi, per darmi un tono, dimentica che io, sui tacchi, sono parecchio instabile.
Ci ritrovammo tutti lì, sul marciapiede, davanti al ristorante. Stringemmo 15 mani, baciammo 30 guance e ci abbracciammo con una cordialità insolita e cameratesca. Ci scrutammo ridanciani e canzonatori, con il beffardo disincanto degli adolescenti che non siamo più, nella curiosità consapevole e leggera di adulti in libera uscita. "Vietato chiedersi se abbiamo figli, partner e quale lavoro facciamo!", Disse qualcuno. E per un po' ci concedemmo la vertigine di pensarci come volevamo, di inventarci uno dei mille futuri possibili, a partire da 25 anni prima, di dire o di non dire chi fossimo veramente.
"Accidenti, quanto siamo rimasti belli!". "Splendidi!". "Non siamo cambiati nemmeno un po'". "Dici? Io invece ci trovo molto migliorati!" Mentivamo, felici di mentire. Ci guardavamo con l'indulgenza, la familiarità e il divertimento che si riserva alle vecchie fotografie, alle consuetudini perse, ai cugini in visita.
C'erano una ginecologa ipnotica che aveva perso la voce dopo aver tentato una lezione di otto ore, ("Di cosa hai parlato per tutto quel tempo?" "Di menopausa" "Ah"), una filosofa felice, un fisico nichilista ("Quello del liceo è stato il periodo più orrendo della mia vita. Ed è stata tutta colpa vostra"), un conte che restaura legno nel suo castello nell'oltrePo, un'avvocata con i capelli rossi che speri di avere accanto, e mai contro, padri orgogliosi, madri svagate, un ex oncologo convertitosi alla rianimazione perché, dice, è un lavoro meno triste, il marito di un'archeologa, il Bernasca, per cui ho scoperto di avere un grande affetto oltre che immensa gratitudine, fotografie di bambini e di gatti, e la sorpresa che 25 anni possono passare invano, nel bene e nel male.
Pian piano, nel corso della serata, ci siamo smascherati e abbiamo ricomposto tasselli della nostra adolescenza, in un quadro sensato e familiare solo per noi 16. E poi abbiamo riso, come si rideva da piccoli.
"Lo rifacciamo presto?" "Certo! Intanto creiamo un gruppo su Whatsapp!" "Ma come? Volete già andare a casa?" "È tardissimo!" "E allora? Elasti, non vieni a spaccarti di stravizi insieme a noi?" "A spaccarmi? Non posso. Ho dei figli!" "Anche io. E allora?" Già. E allora?


giovedì 3 marzo 2016

Giovani andatevene dall'Italia, patria dei parassiti.

Caro direttore,
mi unisco in uno sfogo in risposta al ministro dell'istruzione Stefania Giannini, che si vanta dei risultati dei ricercatori
italiani all'estero. Succede così a tutti noi cervelli in fuga.
Io sono nata a Mirano, in provincia di Venezia e sono fuggita dopo la laurea in medicina. Nel 2003 gli americani mi hanno detto: "Ok vieni a fare il master, ti diamo un terzo della <tuition> ad Harward, per gli altri due terzi ti facciamo un prestito". Nel 2004 mi hanno detto: "Aspetta, hai finito il master con il massimo dei voti? Ok, ti assumiamo."
Oggi faccio entrare nelle casse di Harward 2 milioni di dollari all'anno! Se investono è perché sanno che poi i soldi tornano. In Italia invece il sistema è rigido come una pietra! Non cambierà mai finché c'è gente che viene pagata senza produrre.
Inoltre, il pessimismo regna, viene insegnato fin dal liceo. Una collega italiana in visita per un mese con il nostro gruppo, mi ha detto: "Qui qui c'è un'energia e uno spirito ... sembra che tutto sia possibile".
È la voglia di fare, di rischiare, l'ottimismo che in Italia non ti insegnano. Il cambiamento deve iniziare dalle scuole elementari, è necessario un radicale cambiamento o continueremo a scappare.

Elena Savoia
da “Il Gazzettino” del 15/02/16