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sabato 12 marzo 2016

"Forza Cavajari" di Arnaldo Cavallari.

Forza Cavajari” come si dice in Argentina e “Forza Cavallari” “Forza Arnaldo”, come diciamo ad Adria. Si perché mai come in questo momento Arnaldo ha bisogno di tutti noi, del nostro sostegno e del nostro entusiasmo. Il 3 marzo Arnaldo si è procurato una frattura al femore e alla sua età è una gran brutta cosa. Ma lui è un uomo d'altri tempi, dalla scorza dura e sta sopportando nel migliore dei modi il brutto incidente. O almeno lo fa intendere. Leggiamo una delle sue tante avventure motoristiche, questa volta in Argentina, dove il piccolo Jorge lo sosteneva gridando “Forza Cavajari”. E anch'io mi unisco a Jorge.



Martedì 12 settembre 1972. All'altro capo del telefono, Cesare Fiorio. Hai voglia di fare una corsa in Argentina? Come no, quando? Dovresti partire domani, la corsa è domenica. Portati chi vuoi. Anche un'amante, se ti fa piacere. Ma mi devi dare una risposta entro due ore. Ciao.
Due ore? Mi chiesi se era diventato improvvisamente matto, ma dentro di me avevo già accondisceso. Ero reduce da mesi agonistici quale direttore sportivo della squadra rally Csai, dove avevo fatto da chioccia a giovanotti come Gianni Bossetti, Gianni Besozzi, Orlando Dall'Ava, Maurizio Verini e Giacomo Pelganta. Ero molto soddisfatto dei risultati ottenuti. Presi il telefono e chiamai Sergio Rombolotti, il mio ultimo navigatore. Partiamo domani per l'Argentina. E misi giù il telefono. Informai immediatamente Fiorio, il quale mi dirottò all'ingegnere Russo della Fiat. Si chiama El desafio de los valientes, La sfida dei valorosi - mi spiegò cortese - una corsa tra 18 campioni locali ed europei: 170 km in mezzo alle montagne di Carlos Paz. È organizzata dalla Fiat per il lancio della berlina 125 bialbero sul mercato argentino.
"Bello", pensai. Il giorno dopo partii da casa di buon'ora. A Milano caricai un ancor incredulo Rombolotti. I biglietti aerei erano al bancone delle Aerolineas Argentinas. Giovedì atterrammo a Buenos Aires dove ci attendeva un volo per Cordoba. Altri 1000 km. Poi in auto fino a Carlos Paz. Non feci in tempo a scendere dall'auto che fui avvicinato da Jorge, un simpaticissimo ragazzino dagli occhi impertinenti. Il quale, dopo avermi "adottato", ballava cantilenando "Forza Cavajari (Cavallari)". Gridò queste due parole di continuo, per tre giorni, senza perdermi di vista un solo istante. Premuroso e fedele.
Subito sul muletto messo a disposizione per le prove. Subito sul percorso assieme a Kallstrom, Lindberg, Lampinen e Smania, l'altro italiano invitato. Una strada in mezzo alle montagne. Paesaggio lunare, senza alberi. Solo rocce grigie e levigate dai venti. Niente case, niente bivi. Un'unica lunga strada sterrata, irta e tortuosa. Su fino a Mina Clavero, poi dietrofront e percorso inverso, in discesa. Prima di sera restai senza pastiglie dei freni. Si correva in un altro mondo. Addirittura le 15 vetture muletto erano senza targhe.
Per le strade argentine tutti i possessori di un "qualche cosa" con quattro ruote andavano come pazzi. Le auto erano rottami avvolti da dense coltri di fumo bianco. Polvere e rumore assordante. Non esistevano stop, non esistevano precedenze. "Forza Cavajari".
Venerdì. Prove ufficiali con strada chiusa. Mi consegnarono un'altra 125. Nuova. Logicamente senza targa. Stavo guidando molto concentrato, dettando anche le “note” a Rombolotti, quando improvvisamente sentii un gran colpo dietro. La macchina sbandò e vedemmo la ruota posteriore sinistra che ci passava davanti, per poi sparire dentro un burrone. Si erano allentati i dadi e la ruota si era staccata dal mozzo. Fine prematura delle prove. "Forza Cavajari".
Sabato. Stessa solfa. Su e giù perfezionando le note. Da una vettura davanti a noi, partì un sasso che centrò il nostro parabrezza e lo mandò in frantumi. Siccome i guai non arrivano mai da soli, si scatenò un temporale. Quindi, acqua, fango e quant'altro nell'abitacolo. Quaderno delle note e abbigliamento in bagnomaria.
Ma chi se ne frega. Eravamo felici di essere lì. Prendevamo tutto come veniva. Osannati dai nostri connazionali, seguiti ad ogni passo da giornalisti e radiocronisti, sommersi di inviti per asado e chivito. Cortesia e simpatia ovunque. "Forza Cavajari".
Domenica, ore 8:00. Mi svegliò la radio. Ululava l'estrazione a sorte dei numeri che assegnavano le 18 vetture da gara, ai 5 piloti europei e ai 13 argentini. Impiegammo quasi due ore per arrivare alla partenza. Un caos metropolitano moltiplicato per cinque. Migliaia di persone giunte con ogni mezzo. Auto stantuffanti, camioncini rumorosi, autobus con la gente penzoloni all'esterno tanto strapieni erano, camion con i pneumatici lisci come le monoposto da pista. Tutti si affannavano per disporsi lungo il tracciato. Entusiasmo alle stelle. Il percorso pullulava di grandi griglie fumanti, dove l'asado cuoceva riempiendo la vallata di un unico, intenso profumo di invitante carne alla brace. "Forza Cavajari".
Ore 11,30. Partenza tre minuti l'uno dall'altro. La 125 special da gara era poco più di una vettura di serie. Giusto una lucidatina ai condotti e lo scarico aperto. Non mi trovavo per niente. Guidavo male, la macchina andava dove voleva. Arrivai su e scoprii che noi europei, avevamo preso una scoppola non indifferente dai piloti locali. D'altronde, loro conoscevano a memoria il percorso. Correvano addirittura senza coequiper. Recalde era un giovane del posto, fortissimo. Carlomagno addirittura abitava a Mina Clavero e confessava candidamente di aver fatto su e giù mille volte.
Intanto Canedo, il re delle montagne argentine, si era rovesciato in una curva. No problem. Gli spettatori l'avevano subito raddrizzato e nonostante l'incidente, era nientemeno che terzo assoluto. Dopo mezz'ora si ripartì per il percorso inverso. La faticaccia durò due ore e cinque minuti. Vinse Recalde. Io giunsi settimo. Non male per un "vecchio". "Forza Cavajari".
La corsa vera, comunque, andò in scena successivamente, tornando a Carlos Paz, con Rombolotti alla guida del muletto. Il bilancio: due tamponamenti, un rovesciamento di camioncino carico di peones urlanti, altre varie bottarelle subite e date. Il tutto, circondati dai più stravaganti mezzi a motore, con il volume della radio al massimo e teste e gambe tentacolari che spuntavano dei finestrini. Fu un rodeo, non un viaggio.
Alla sera, festa megagalattica. Una sfilata per le vie di Carlos Paz, ragazze in costume sul cofano e sul tetto delle 125 giunte al traguardo. Banda, musica, fuochi d'artificio. Premiazione su un palco dove eravamo in duecento, quando poteva contenerne non più di cinquanta. Una baldoria collettiva. Sfrenata. Un ambiente nel quale mi ritrovavo ...
Ci intrattenemmo con alcune bellezze locali e senza accorgercene arrivò il mattino del lunedì.
La cosa più struggente fu l'addio al piccolo Jorge. Le sue lacrime, i suoi abbracci. "Cavajari, Cavajari ...". Lo lasciai con il nodo alla gola.
Senza aver dormito, via di nuovo verso Cordoba. Poi Buenos Aires. Un po' di shopping. La sera eravamo sul Boeing 707 che ci riportava in Italia. In testa e nel cuore la "saudade", come la chiamano in Brasile, e il piccolo Jorge.


Arnaldo Cavallari da “Una vita nel sole”

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