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domenica 23 ottobre 2016

Modi di dire 27

Si dice . . . “guardare in cagnesco”

La locuzione “guardare (o guardarsi) in cagnesco” vuol dire osservare di traverso, dare occhiatacce torve, con ostilità e rabbia. Ritroviamo la frase già nella letteratura dell'800 e non deve stupire la luce negativa in cui è visto quello che oggi si considera l'amico più caro dell'uomo. Questo e molti altri modi di dire che riguardano i quattrozampe, (lavorare come un cane, freddo cane, vita da cani, fare un male cane, solo come un cane, ecc.), ci ricordano tempi non lontani in cui essi erano tenuti in catene, disprezzati, privati del cibo per accrescere la loro ferocia in guerra o contro i ladri, lasciati al freddo, fuori dalle abitazioni o per strada perché non trasmettessero malattie e parassiti. Vita non invidiabile.


Si dice . . . “il canto del cigno”

Questa definizione si riferisce all'ultimo segno di vivacità di una vita che si sta spegnendo e, per estensione, all'ultima espressione di alto livello della carriera di un professionista o di un artista oramai in declino. Il modo di dire è antico. Si basa sulla credenza, un tempo assai diffusa, secondo la quale il cigno reale, (Cygnus olor), detto anche “cigno muto” perché in genere emette solo sbuffi e brontolii gutturali, quando era posseduto dal presentimento della morte intonava un canto dolce e melodioso. Un canto talmente soave da ispirare artisti come Schubert e Tchaikovsky, che sul tema composero opere immortali. Ed è da notare che con il termine “cigno”, si indicano i maggiori musicisti e poeti di età romantica.


Si dice . . . “ . . . dei miei stivali”

La locuzione aggettivale “. . . dei miei stivali”, (intellettuale dei miei stivali, medico dei miei stivali, ecc.), si usa in riferimento a persone o cose vantate come importanti e di cui invece non si ha nessuna stima, che si ritiene non abbiano valore. Un tempo si usavano espressioni più dirette, ad esempio: “Sei proprio uno stivale!” oppure in senso eufemistico “Non rompere gli stivali!” (non infastidire). L'intento è chiaramente paragonare in senso spregiativo, persone e cose a ciò che serve a ricoprire i piedi e che dunque è collocato al livello del terreno, nel punto più basso e ignobile possibile.


Si dice . . . “a sbafo”

Mangiare a sbafo, bere a sbafo, entrare al cinema a sbafo ecc. vuol dire ottenere qualcosa a spese d'altri, gratuitamente. Il modo di dire deriva da sbafare, ossia mangiare avidamente e in abbondanza, ed è una voce di origine onomatopeica, (richiama cioè il movimento della bocca che mastica). Dello stesso significato e altrettanto usata è la locuzione “a scrocco” che deriva da scrocchio, un'antica forma di usura. In pratica chi otteneva un prestito “a scrocchio” era obbligato a ritirare anche dei beni valutati ben oltre il prezzo reale ed era costretto, oltre alla restituzione del prestito, a pagarli alla cifra imposta.



Si dice . . . “a caval donato non si guarda in bocca”


Significa che ciò che ci viene dato in regalo o comunque senza aver fatto particolari sforzi o sborsato quattrini, deve essere ben accetto e non va criticato troppo, per non inimicarsi una sorte che ha voluto essere benevola. Il fatto di “guardare in bocca” all'equino, si riferisce all'esame della dentatura per stabilirne l'età. Veterinari ed esperti infatti, sono in grado di attribuire con buona precisione gli anni e i mesi di vita dell'animale, esaminando con cura lo stato degli incisivi superiori e inferiori e le condizioni del resto della dentatura, specie se si tratta di puledri o di esemplari giovani.



Si dice . . . “essere un micco”

Questo modo di dire popolare, molto usato in Toscana, indica una persona sciocca e raggirabile, un bellimbusto tanto grullo quanto pieno di se. All'origine del modo di dire, arrivatoci dalla Spagna intorno al XVIII secolo, c'è il termine di origine caraibica mico, usato per denominare piccole scimmie platirrine sudamericane come gli uistiti. Questi piccoli e graziosi primati vennero importati in Europa come animali da ornamento e compagnia e probabilmente la loro espressione sgomenta è all'origine della metafora.



Si dice . . . “affrontare un fortunale”

Significa trovarsi di fronte, anche in senso metaforico, a una perturbazione atmosferica di enorme forza. Nella scala di Beaufort, divisa in 12 gradi di intensità, il fortunale occupa l'11° posto con venti oltre i 100 km/h in grado di creare gravi difficoltà alla navigazione, oltre che ingenti danni a terra. Il termine è antico e lo ritroviamo già in un passo di Boccaccio (XIV secolo): “da tempo fortunal portati” ossia da tempo burrascoso, tempestoso. Ciò perché la dea Fortuna rappresentava il fato, la sorte dispensatrice di bene e di male, (era spesso raffigurata con un timone in mano), e ad essa si affidavano i marinai quando si imbattevano in condizioni così avverse.


Si dice . . . “mausoleo”

Il termine “mausoleo” designa un monumento sepolcrale grande e maestoso, costruito per conservare le spoglie di un imperatore, un re o una figura importante e ammirata, come ad esempio il mausoleo di Augusto a Roma o quello di Teodorico a Ravenna. Questo nome deriva da Mausolo, governatore della provincia persiana della Caria, in Asia minore, dal 377 a. C. alla sua morte. Egli fece costruire ad Alicarnasso, oggi Bodrum, in Turchia, un immenso monumento funebre in marmo con statue e fregi. Affidò il progetto agli architetti greci Pizio e Satiro e la decorazione ai maggiori scultori del tempo tra cui Skopas. Alla morte di Mausolo nel 353 a. C. il monumento venne completato da Artemisia, sorella e moglie. Alto quasi 50 metri, ricco di bassorilievi, il mausoleo di Alicarnasso, fu considerato una delle sette meraviglie del mondo. Venne distrutto da un terremoto nel XIV secolo e le rovine furono usate come materiale da costruzione.


Si dice . . . “homo homini lupus”

L'espressione latina homo homini lupus, tuttora in uso nel parlare e nello scrivere colto, significa che “l'uomo è lupo per l'(altro) uomo” ed è un invito a guardarsi dalla tendenza innata nell'essere umano a sopraffare il proprio simile, proprio come un carnivoro uccide la preda per sopravvivere. Si tratta di un detto popolare di origine molto antica. La prima citazione che è giunta fino a noi risale all'Asinaria, commedia dell'autore latino Plauto vissuto tra il III e il II secolo a. C. Il modo di dire è poi stato ripreso con varie sfumature da altri autori dell'antica Roma come il poeta comico Cecilio Stazio, successivo a Plauto, ed è stato tramandato fino alla letteratura moderna.



Si dice . . . “musica delle sfere”


Si riferisce a una melodia celestiale, di bellezza e armonia tali da sembrare divina. All'origine del detto vi è un antico concetto filosofico. Il mondo classico pensava infatti che il cielo rispecchiasse la perfezione della divinità e i maggiori filosofi greci si dedicarono alla ricerca delle leggi dell'armonia celeste. Allora si era convinti che i 7 pianeti, (Sole, Mercurio, Venere, Luna, Marte, Giove e Saturno), ruotassero intorno alla Terra ciascuno in una propria sfera cosmica, di sostanza eterea e che all'esterno vi fosse un'altra sfera in cui erano incastonate le stelle fisse. Il moto di ciascuna di queste sfere, avrebbe prodotto una melodia divina, non udibile dall'orecchio umano, ma semmai decifrabile con la matematica. Questa teoria fu presente nella cultura occidentale fino all'avvento della scienza moderna.

sabato 15 ottobre 2016

Dario Fo: addio al vate dei radical chic.

È stato l’ultimo vate dei radical-chic. Con Dario Fo se n’è andato uno degli ultimi esponenti di un certo modo di creare arte e fare “cultura”. Rivoluzionario più sul palcoscenico che nella vita, Fo è stato un lucido protagonista di certi ambienti - che in Italia hanno fatto scuola, creato mode e imposto censure - per cui la “politica” veniva prima della “cultura”, che si legittimava solo sulla base di un “messaggio”.
Non ho mai creduto alla storia dell’“arte per l’arte”, che considero onanismo. Ma Fo e altri suoi illustri colleghi, a partire da Giorgio Strehler, sono stati l’esempio dell’eccesso opposto. Lo chiamavano “teatro civile” e, in effetti, l’arte di Fo ha trasudato passione civile in ogni suo aspetto. Ma era anche teatro “di sinistra”, con tutte le conseguenze del caso. Tra queste il conformismo culturale, che poi ha allontanato un sacco di gente dal mondo della cultura. Certo, valeva allora quel che vale oggi: non è colpa solo della sinistra italiana se il mondo della cultura si schiera sempre a sinistra; una grossa mano gliel’hanno data i moderati, che hanno fatto della propria ignoranza un vanto spacciandola per pragmatismo.
Il dissacrante Dario Fo, spaccò i botteghini e fece cassetta anche oltre i propri meriti artistici, che c’erano e non erano pochi, cavalcando alla grande i luoghi comuni e gli stereotipi che anche lui aveva contribuito a creare. E che si imposero a tal punto da far sembrare a molti anche il trash più becero (e l’Italia ne ha prodotto tantissimo) una boccata d’ossigeno.
Già: l’impegno a tutti i costi, solo in una direzione, e la satira a
bersaglio unico hanno stancato tantissimi. Persino Fantozzi che, costretto a subire cineforum pesantissimi, se ne usci col famigerato: “Per me è una cagata pazzesca”. Allo stesso modo fecero tanti italiani che preferivano le cosce della Bouchet e le tette della Fenech a certe pieces teatrali.

Tuttavia, non si può negare a Fo una grande coerenza e sarebbe azzardato ridurre a una “posa” il suo anticonformismo, molto più genuino del suo spirito rivoluzionario: quando i suoi “compagni” hanno preso il potere dopo aver buttato alle ortiche sin troppi ideali, lui si è rifugiato alla corte di Beppe Grillo per dire dei “borghesi” di oggi che vanno a braccetto con gli ex comunisti del Pd quel che diceva dei “borghesi” di ieri che votavano Dc, spesso senza turarsi il naso (per quelli di oggi non c’è problema: non hanno più l’olfatto…).
E viene quasi da rimpiangerlo, ora che il trash, non quello divertente di certi film vecchi e ingenui, ma quello becero della vita quotidiana, è diventato costume e detta le proprie regole ai media e alla cultura. Ora che gli attori, complice una crisi senza precedenti, lasciano il posto nei teatri a soubrette non più telegeniche e a cabarettisti televisivi, ridateci Fo, Streheler e, visto che ci siamo, il “fascista” Albertazzi. Aridatece i puzzoni. Meglio la loro “pesantezza” e la loro retorica di tanta, avvilente pochezza.


Saverio Paletta

giovedì 13 ottobre 2016

Caso Corona, stop alle telecamere.

Che Fabrizio Corona si sia messo di nuovo nei guai, non mi meraviglia: capita a tutte le teste calde che credono di godere di qualche speciale impunità. Non parlo di impunità giudiziaria, intendiamoci: quel che doveva pagare, Corona finora l’ha pagato, anche se con qualche sconto. Ma mi riferisco a quel particolare impatto che quelli come lui hanno sui media, nessuno dei quali, finora, l’ha crocifisso, al contrario di ciò che capita sistematicamente a tanti “pesci piccoli”, per esempio ai pusherini di quartiere, sbattuti in pagina sol perché trovati in possesso di un po’ d’erba. Anzi: Corona è stato vezzeggiato, carezzato e vellicato da tv, quotidiani e rotocalchi.
In fondo, il personaggio “tirava”: figo, trasgressivo, in perenne compagnia, dolce e non, di “bone”, a partire dalla supercoscialunga Nina Moric e menefreghista di tutto e di tutti. Un antieroe 2.0, a misura dei sogni bagnati di ragazzine piene di voglia di trasgredire a buon mercato. E poi, i suoi reati presunti e reali, che colpivano ricchi altrettanto impuniti e volgari nel loro esibizionismo, erano poca cosa, se paragonati agli atti aberranti di altri antieroi. Per capirci, Corona non era Pietro Maso, il ragazzo che ottenne negli anni ’90 una forte notorietà mediatica dopo aver ammazzato i genitori in maniera barbara e per futili motivi. Maso, che ricevette in carcere parecchie lettere d’amore, divenne una star negativa. Finché poi i media, allora meno degradati, non decisero che fosse troppo e staccarono la spina ben prima che la magistratura scrivesse, con una condanna sonora, la parola fine su tutta quella vicenda orribile.
Nel caso di Corona, neanche paragonabile (per fortuna) all’orrore di Maso, è accaduto l’inverso: i media, partiti da una vicenda boccaccesca in cui c’era di tutto (presunti lenoni, ex re puttanieri più estorsori), hanno ingigantito il personaggio del paparazzo oltre i suoi meriti, pochi o nulli, e le sue colpe, non così pesanti come le considera parte dell’opinione pubblica. Ed ecco che, da semplice estorsore che viveva del sottobosco della Milano by night, Corona è diventato un maitre-a-penser del politicamente scorretto. Troppa grazia.
Ci siamo sorbiti per anni le sue pose da palestrato in cella, le sue parolacce e i suoi insulti a chi lo inquisiva. Ora, si può pure ammettere che il Nostro è stato un po’ sfigatello e ha beccato un magistrato, Woodcock, noto per riuscire a ottenere rinvii a giudizio e condanne anche in tempi “lampo”. Però da qui a lamentarsi ne corre.
«La legge non è uguale per tutti e quello che è scritto nelle aule di giustizia è una fesseria», ha detto Corona. Ha ragione: a quanti carcerati, costretti a dividersi una cella in sei, è stato concesso di gingillarsi coi pesi davanti alle telecamere? Quanti imputati, per affermazioni meno gravi rivolte a chi li giudicava, si sono beccati l’accusa di vilipendio? Quanti giornalisti sono stati condannati per semplici errori professionali? E il tutto nel silenzio più assoluto e senza ricevere la minima solidarietà?
Corona ha avuto più di un’occasione per rifarsi. E sbaglia chi ora dice che, in seguito all’ultimo arresto è diventato indifendibile, perché indifendibile, Corona, lo era sin dall’inizio. Gli auguro due cose: di uscire prosciolto e di finire nell’anonimato. Chissà che, alle prese con un lavoro vero e distante da quel jet set in cui è nato e ha sgomitato, non metta la testa a posto. E, magari, visto che c’è, impari pure un po’ di buone maniere


Saverio Paletta

sabato 8 ottobre 2016

L'emigrazione colpisce tutti, i calabresi di più.

Buongiorno a tutti. Ieri ho letto il rapporto Migrantes 2016, sul quale mi sarei aspettato qualche riflessione di colleghi (o, meglio ancora, di esperti), perché stavolta i “profughi” siamo noi.
L’Aire, l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero, ha registrato, al 31 dicembre 2015, altri 174.516 italiani che vivono fuori dal paese rispetto al 2014.
Questo numero, già di per sé preoccupante, è una goccia nell’oceano dell’emigrazione 2.0 dell’era post industriale e post benessere: lo stesso rapporto sottolinea che, sempre alla fine dello scorso anno, gli italiani iscritti in questa anagrafe sono 4.811.163 in tutto. Il 7,9 per cento della popolazione. L’unica consolazione è che circa il 70% di questi ha approfittato alla grande della cittadinanza europea e solo il 30%, che si è trasferito fuori continente, può essere considerato migrante

Chi emigra di più

Fin qui il “macro”, che, a dirla tutta, non è esaltante. In compenso, il “micro” è peggio, anche se magari può sembrare consolatorio scoprire che dal Sud si emigra un po’ meno, visto che le regioni col maggior aumento di “espatriati” recenti sono la Lombardia e la Valle d’Aosta, col 6,5 e il 6,3% in più. Se la passano male anche l’opulenta Emilia Romagna (6% in più) e il ricco Veneto (5,7% in più). Però non sarei così catastrofico: queste quattro regioni non solo fanno parte di un blocco territoriale che continua ad essere ricco ma è geograficamente avvantaggiato, perché inserito a pieno titolo, grazie alla maggiore vicinanza e a una rete di collegamenti formidabile, nella Mitteleuropa (e, al riguardo, il rapporto fa capire che le mete di molti sono la Svizzera e la Germania). Detto altrimenti, per tanti il tutto si risolve in un semplice cambio di residenza non troppo diverso dall’emigrazione interna che ha “piagato” il Sud e cambiato il Paese fino agli anni ’70.

Il sud sta peggio

I guai, invece, sono tutti di noi meridionali, calabresi in particolare,
perché, grazie all’insipienza delle classi dirigenti, subiamo anche la geografia come un castigo. Per noi, a causa della fatiscenza delle infrastrutture e dell’insufficienza dei collegamenti, anche spostarci di regione significa ancora emigrare allo stesso modo dei nostri nonni e bisnonni. E non finisce qui, visto che i dati non vanno solo letti, ma devono essere interpretati. Infatti, se la fuga dal Nord è una fuga dal declino, che rivela impietosamente i limiti della rete delle piccole e medie imprese (già vantata come motore dell’Italia e ora solo emblema della nostra vocazione al nanismo) la fuga dal Sud è fuga e basta. E da tutto.

Il mio provincialismo

Un vizio contratto in anni di redazioni cosentine mi spinge, al pari di tanti altri colleghi, a concentrarmi sulle mie vicinanze immediate, quasi come se il resto non esistesse. Il mondo finisce a Buffalora, per dirla con Tiziano Sclavi, e la nostra Buffalora è compresa tra il Pollino e lo Stretto. La mia, in particolare, finisce un po’ più su: all’altezza della Sila Greca e del Savuto. Lo chiamiamo giornalismo. In realtà è provincialismo di grana grossa, che ci impedisce di parlare alla maggior parte dei nostri corregionali e concittadini: quella che vive fuori Buffalora, possibilmente all’estero.

Calabria sempre maglia nera e a Cosenza è peggio

A proposito di provincialismo, ecco il dato più macroscopico: Cosenza è la provincia da cui si emigra di più, subito dopo il territorio di Roma e provincia. Le agenzie e i giornali online non hanno riportato il dato preciso. Però c’è il dato assoluto della Calabria che fa paura perché ci regala qualcosa di peggio della consueta maglia nera, a cui siamo abituati: dal 2006 sono 393.118 i calabresi che hanno fatto le valige, con o senza passaporto e comunque verso l’estero. Sono poco più del 20% della popolazione residente e pesano sull’anagrafe molto più dei 422.556 lombardi (meno del 5% su un totale di 10 milioni), e dei 475.629 campani (meno del 10% su una popolazione di circa 6 milioni). Ci fregano i lucani coi loro 124.214 migranti (un quinto della popolazione) e ci tallonano i siciliani con 730mila migranti (circa l’11 e rotti percento su poco più di 5 milioni).

Riflessioni

Mi torna in mente la battuta fatta nel 2008 da Carlo Vulpio, il giornalista che allora faceva il tifo per il pm De Magistris: «Ogni anno emigrano dal Sud circa 25mila abitanti: è come se sparisse una città».
Lui lo faceva per alimentare la caccia alle streghe e l’affannosa - ma doverosa - ricerca di un colpevole, finalmente identificato nelle nostre classi politiche, del degrado del Mezzogiorno. Ma il dato resta pesantissimo: ogni anno spariscono, giusto per insistere nei parametri provinciali, due Amantea, quasi una Rossano, una Corigliano o una Rende, una Castrovillari intera più pezzi del suo hinterland o due Castrolibero intere. In tre anni, viene fagocitata una Cosenza. E, va da sé, i migranti possono poco nel saldo delle nascite, visto che dei 5 milioni di stranieri residenti solo una fetta minuscola è in Calabria, ne scappa come e quando può e fa numero più nei centri d’accoglienza che nei cantieri e nei campi, dove lavora spesso a condizioni disumane.
I nostri profughi non hanno più la valigia di cartone, ma il trolley e il case per il laptop. Spesso parlano bene una lingua straniera (e se no la studiano: l’altra sera ho notato a Quattromiglia l’insegna della British School che annunciava il corso di spagnolo a fianco di quello, tradizionale, d’inglese). È più che un sospetto che scappino da una classe dirigente, politica ed economica, che stenta a parlare correttamente e agisce anche peggio.
Possibile che, tra un morto ammazzato e l’ennesimo scandalo, nessuno abbia avuto il tempo e la voglia di scovare la vera notizia in questo rapporto? Ho letto male io oppure i principali quotidiani calabresi hanno “ammazzato” la notizia, che avrebbe meritato ben altre riflessioni, nelle pagine nazionali e interregionali? Quasi come se questo dramma, sbattutoci in faccia dalla Caritas, non ci riguardasse in prima persona.
Evidentemente, contano di più altri sondaggi: quelli pro e contro Oliverio, ad esempio. E mi fermo qui. Chiudo con un quesito: mentre sciorino questi dati, apprendo anche degli ultimi guai giudiziari dell’ex presidente Scopelliti, e la notizia ci sta tutta. Possibile, invece, che nessuno processi mai le responsabilità politiche in tempo utile?


Saverio Paletta

sabato 1 ottobre 2016

Il culo è l'origine del mondo.

Apparso di recente in Europa e reso popolare da mademoiselle Schweppes, il costume da bagno brasiliano, che lascia le natiche completamente nude, ha conferito alle donne che l'indossano l'aspetto di longilinee gazzelle, dalle forme sfuggenti e ispirate. Il che ci ha anche permesso di fare la conoscenza di una natica rimontante, che sembra non finire mai, che forse scompare sotto le ascelle, che si può paragonare a un'immensa goccia d'acqua o anche alle graziose pere originarie del Berry, (con la polpa un po' aspra, non troppo succosa), chiamate curettes.
In breve, non era chiaro se si assistesse alla caduta di una chiappa o al suo decollo. Quella natica impressionante ebbe tuttavia curiosi effetti, poiché alcuni, dapprima entusiasti di quel costume che non mostrava niente davanti e tutto dietro, pensarono poi che quelle fanciulle dalle natiche sfrenate, facessero concentrare il desiderio in quella parte della loro anatomia.
Ma loro smentirono vivamente. Del resto, se un simile costume propone una concezione assolutamente nuova della natica, indica peraltro ai piccoli sfrontati, grazie all'increspatura alla quale si riduce penetrando nel solco, che la porta resta chiusa. In breve, il costume da bagno brasiliano sta alla nullità come il sottinteso sta alla confessione. Meno tessuto c'è, più il simbolo è tenace. Gli organi esposti sono altrettanti scudi posti a difesa. Sono più idee pure che parti del corpo. Le natiche sembrano offerte, immediatamente accessibili, ma restano intoccabili nella loro provocante noncuranza. Al punto che quel costume da bagno, deve essere considerato essenzialmente come un bastione della morale. E ad alcuni farà rimpiangere quella che un tempo era una delle delizie della spiaggia: il costume bagnato.
Quando le ragazze uscivano dal bagno, scrive Patrick Grainville, (Il paradiso degli uragani), "Le natiche erano così umide, così aderenti al tessuto, che si sarebbero dette due otri spaccati". Il costume bagnato è infatti una materia ultrasensibile, in cui si disegnano per trasparenza fessure e rotondità. Quando il tessuto, per l'effetto centripeto del tuffo, si è spostato nello spazio fra le cosce, le labbra del sesso si trovano segretamente compresse e le masse dei glutei aspirati dalla voragine centrale: il che, secondo Grainville, colpisce l'uomo direttamente al cuore.
Ma c'è anche qualcosa di peggio, ossia quel pallore così particolare delle chiappe uscite dal costume bagnato, quella carne più compatta e al tempo stesso più molle, che si manifesta nella sua goffaggine puerile e nel suo ondeggiare un po' ottuso. Tutto questo oggi è stato distrutto da una pelle disperatamente liscia, tesa fino a scoppiare, da una pellicola impalpabile e uniformemente soleggiata: la natica abbronzata.
"L'uomo nudo è un mollusco" diceva Jacques Lacan. Ma ormai è tutto finito. Abbiamo detto addio a quelle grosse spugne di carne umida, a quei grossi frutti molli e opachi che sorgevano dalla pelle come se finalmente scoprissero la luce. A quelle grosse natiche esitanti, che costituivano il fascino equivoco di un segreto carpito. A quella sorpresa inconfessabile della pelle bianca, che aveva qualcosa di impenetrabile e dolce, un bianco riservato da sempre, un bianco smarrito, ancora confuso, impubere e casto. Un bianco che faceva venir voglia di morderlo.
Era precisamente la poesia del cinema "in bianco e nero", che ha offerto una versione della carne ad un tempo perfetta, diafana e spiritualizzata. "Il cinema a colori guadagna in incanto, (quando guadagna), quanto ha perduto in fascino", diceva Edgar Morin. Mentre il bianco e nero denuda la pelle, il colore la opacizza, tende ad armonizzare il corpo al paesaggio. Il bianco e nero provoca un lampo, rivelava una carne colma di morbidezza. Il colore ha ucciso l'erotismo del biancore, il film finisce per sfumare e attenuare il colore proprio
come un tempo faceva col grigio. La natica colorata è diventata sinonimo di natica grigia. E il grigio fa perdere alla natica tutta la sua magia. Sembra tetra e spaventosamente piatta. Arriviamo persino a chiederci, di fronte a pelli così trionfalmente abbronzate da sembrare decisamente morte, se non converrebbe piuttosto rovesciarle, scoprendo finalmente ciò che le ha fatte vivere e rendendo visibile la bellezza degli organi.
Se vogliamo realmente farci un'idea della polpa della chiappa, dei suoi muscoli e dei suoi nervi, forse dovremmo ricorrere agli scorticati del Rinascimento, agli studi di Allori (1535-1607), ad esempio, in cui la natica accuratamente scarnificata mostra le sue masse palpitanti e i suoi fusi muscolari. Allora si vedrebbe che, curiosamente, la natica dell'uomo è striata più o meno come la carne della razza. Il che indica forse una remota origine acquatica dell'umanità, o che l'uomo ha cominciato a costituirsi delle natiche nelle profondità del mare.
Che la natica sia l'origine del mondo non sarebbe, del resto la minore delle sue bizzarrie.


Jean-Luc Hennig