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domenica 23 ottobre 2016

Modi di dire 27

Si dice . . . “guardare in cagnesco”

La locuzione “guardare (o guardarsi) in cagnesco” vuol dire osservare di traverso, dare occhiatacce torve, con ostilità e rabbia. Ritroviamo la frase già nella letteratura dell'800 e non deve stupire la luce negativa in cui è visto quello che oggi si considera l'amico più caro dell'uomo. Questo e molti altri modi di dire che riguardano i quattrozampe, (lavorare come un cane, freddo cane, vita da cani, fare un male cane, solo come un cane, ecc.), ci ricordano tempi non lontani in cui essi erano tenuti in catene, disprezzati, privati del cibo per accrescere la loro ferocia in guerra o contro i ladri, lasciati al freddo, fuori dalle abitazioni o per strada perché non trasmettessero malattie e parassiti. Vita non invidiabile.


Si dice . . . “il canto del cigno”

Questa definizione si riferisce all'ultimo segno di vivacità di una vita che si sta spegnendo e, per estensione, all'ultima espressione di alto livello della carriera di un professionista o di un artista oramai in declino. Il modo di dire è antico. Si basa sulla credenza, un tempo assai diffusa, secondo la quale il cigno reale, (Cygnus olor), detto anche “cigno muto” perché in genere emette solo sbuffi e brontolii gutturali, quando era posseduto dal presentimento della morte intonava un canto dolce e melodioso. Un canto talmente soave da ispirare artisti come Schubert e Tchaikovsky, che sul tema composero opere immortali. Ed è da notare che con il termine “cigno”, si indicano i maggiori musicisti e poeti di età romantica.


Si dice . . . “ . . . dei miei stivali”

La locuzione aggettivale “. . . dei miei stivali”, (intellettuale dei miei stivali, medico dei miei stivali, ecc.), si usa in riferimento a persone o cose vantate come importanti e di cui invece non si ha nessuna stima, che si ritiene non abbiano valore. Un tempo si usavano espressioni più dirette, ad esempio: “Sei proprio uno stivale!” oppure in senso eufemistico “Non rompere gli stivali!” (non infastidire). L'intento è chiaramente paragonare in senso spregiativo, persone e cose a ciò che serve a ricoprire i piedi e che dunque è collocato al livello del terreno, nel punto più basso e ignobile possibile.


Si dice . . . “a sbafo”

Mangiare a sbafo, bere a sbafo, entrare al cinema a sbafo ecc. vuol dire ottenere qualcosa a spese d'altri, gratuitamente. Il modo di dire deriva da sbafare, ossia mangiare avidamente e in abbondanza, ed è una voce di origine onomatopeica, (richiama cioè il movimento della bocca che mastica). Dello stesso significato e altrettanto usata è la locuzione “a scrocco” che deriva da scrocchio, un'antica forma di usura. In pratica chi otteneva un prestito “a scrocchio” era obbligato a ritirare anche dei beni valutati ben oltre il prezzo reale ed era costretto, oltre alla restituzione del prestito, a pagarli alla cifra imposta.



Si dice . . . “a caval donato non si guarda in bocca”


Significa che ciò che ci viene dato in regalo o comunque senza aver fatto particolari sforzi o sborsato quattrini, deve essere ben accetto e non va criticato troppo, per non inimicarsi una sorte che ha voluto essere benevola. Il fatto di “guardare in bocca” all'equino, si riferisce all'esame della dentatura per stabilirne l'età. Veterinari ed esperti infatti, sono in grado di attribuire con buona precisione gli anni e i mesi di vita dell'animale, esaminando con cura lo stato degli incisivi superiori e inferiori e le condizioni del resto della dentatura, specie se si tratta di puledri o di esemplari giovani.



Si dice . . . “essere un micco”

Questo modo di dire popolare, molto usato in Toscana, indica una persona sciocca e raggirabile, un bellimbusto tanto grullo quanto pieno di se. All'origine del modo di dire, arrivatoci dalla Spagna intorno al XVIII secolo, c'è il termine di origine caraibica mico, usato per denominare piccole scimmie platirrine sudamericane come gli uistiti. Questi piccoli e graziosi primati vennero importati in Europa come animali da ornamento e compagnia e probabilmente la loro espressione sgomenta è all'origine della metafora.



Si dice . . . “affrontare un fortunale”

Significa trovarsi di fronte, anche in senso metaforico, a una perturbazione atmosferica di enorme forza. Nella scala di Beaufort, divisa in 12 gradi di intensità, il fortunale occupa l'11° posto con venti oltre i 100 km/h in grado di creare gravi difficoltà alla navigazione, oltre che ingenti danni a terra. Il termine è antico e lo ritroviamo già in un passo di Boccaccio (XIV secolo): “da tempo fortunal portati” ossia da tempo burrascoso, tempestoso. Ciò perché la dea Fortuna rappresentava il fato, la sorte dispensatrice di bene e di male, (era spesso raffigurata con un timone in mano), e ad essa si affidavano i marinai quando si imbattevano in condizioni così avverse.


Si dice . . . “mausoleo”

Il termine “mausoleo” designa un monumento sepolcrale grande e maestoso, costruito per conservare le spoglie di un imperatore, un re o una figura importante e ammirata, come ad esempio il mausoleo di Augusto a Roma o quello di Teodorico a Ravenna. Questo nome deriva da Mausolo, governatore della provincia persiana della Caria, in Asia minore, dal 377 a. C. alla sua morte. Egli fece costruire ad Alicarnasso, oggi Bodrum, in Turchia, un immenso monumento funebre in marmo con statue e fregi. Affidò il progetto agli architetti greci Pizio e Satiro e la decorazione ai maggiori scultori del tempo tra cui Skopas. Alla morte di Mausolo nel 353 a. C. il monumento venne completato da Artemisia, sorella e moglie. Alto quasi 50 metri, ricco di bassorilievi, il mausoleo di Alicarnasso, fu considerato una delle sette meraviglie del mondo. Venne distrutto da un terremoto nel XIV secolo e le rovine furono usate come materiale da costruzione.


Si dice . . . “homo homini lupus”

L'espressione latina homo homini lupus, tuttora in uso nel parlare e nello scrivere colto, significa che “l'uomo è lupo per l'(altro) uomo” ed è un invito a guardarsi dalla tendenza innata nell'essere umano a sopraffare il proprio simile, proprio come un carnivoro uccide la preda per sopravvivere. Si tratta di un detto popolare di origine molto antica. La prima citazione che è giunta fino a noi risale all'Asinaria, commedia dell'autore latino Plauto vissuto tra il III e il II secolo a. C. Il modo di dire è poi stato ripreso con varie sfumature da altri autori dell'antica Roma come il poeta comico Cecilio Stazio, successivo a Plauto, ed è stato tramandato fino alla letteratura moderna.



Si dice . . . “musica delle sfere”


Si riferisce a una melodia celestiale, di bellezza e armonia tali da sembrare divina. All'origine del detto vi è un antico concetto filosofico. Il mondo classico pensava infatti che il cielo rispecchiasse la perfezione della divinità e i maggiori filosofi greci si dedicarono alla ricerca delle leggi dell'armonia celeste. Allora si era convinti che i 7 pianeti, (Sole, Mercurio, Venere, Luna, Marte, Giove e Saturno), ruotassero intorno alla Terra ciascuno in una propria sfera cosmica, di sostanza eterea e che all'esterno vi fosse un'altra sfera in cui erano incastonate le stelle fisse. Il moto di ciascuna di queste sfere, avrebbe prodotto una melodia divina, non udibile dall'orecchio umano, ma semmai decifrabile con la matematica. Questa teoria fu presente nella cultura occidentale fino all'avvento della scienza moderna.

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