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domenica 24 agosto 2014

Attenzione : la normalità diventa patologia psichica. Le case farmaceutiche ringraziano.

Me lo diceva, la mamma, di non mordicchiarmi i polpastrelli. Non ho
mai smesso. Ma adesso la questione esula dall'aspetto estetico e perfino dallo stigma sociale, e si è fatta più complessa: quella che per me - e per buona parte del genere umano - è una piccola nevrosi, (certo dolorosa, soprattutto se si deve intagliare il legno o armeggiare dei bottoni, ma non è il mio caso), secondo una nuova edizione del DSM, il manuale che usano gli psichiatri di tutto il mondo per fare le diagnosi, diventerà una patologia psichica ufficiale, insieme ad altri comportamenti che fino ad oggi avevamo considerato "normali".
Il DSM, la cui quinta edizione sarà pubblicata a maggio, (a oltre un decennio dalla precedente), è più noto con il nome esteso di Manuale Statistico Diagnostico dei disturbi mentali. Edito dall'APA, la potente associazione di psichiatri americani, è la bibbia del settore, in ogni parte del mondo. Fin dalla prima versione, datata 1952, classifica le patologie della mente, è uno strumento fondamentale per la ricerca sui farmaci e soprattutto per gli specialisti, perché stabilisce i criteri secondo i quali identificare il disturbo in un ambito medico che spesso è "ancora privo di test biologici, dove la diagnosi è basata su una descrizione, quindi soggettiva e vulnerabile alla critica", spiega il professor Claudio Mencacci, presidente della Società Italiana di Psichiatria.
Questa edizione numero cinque è stata curata da una task force di 1500 scienziati da 39 paesi, tra cui un italiano, il Prof. Mario Maj dell'Università di Napoli, a capo anche della World Psichiatric Organization : interpellato, si è dichiarato prima disponibile per una intervista salvo poi rimandarla. Sulla base delle indiscrezioni e della pubblicazione a dicembre di alcune novità sul sito ufficiale dell'APA, il DSM-5 è stato criticatissimo, ed è già oggetto di un dibattito molto aspro, che sta travalicando l'ambito accademico per entrare in quello sociale.
Dove avrà notevoli conseguenze: per esempio, verrà modificata la diagnosi di autismo. La nuova etichetta di Disturbo di Spettro Autistico incorporerà le diverse diagnosi del DSM-4, Sindrome di Asperger, Disturbo Disintegrativo dell'Infanzia, Disturbo Pervasivo dello Sviluppo non altrimenti specificato.
"Considero la diagnosi un aspetto fondamentale del nostro lavoro", spiega Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicoanalista, ordinario alla sapienza di Roma dove dirige anche la scuola di specializzazione in psicologia clinica. "Ma la diagnosi non è solo un problema di nomi: e anche un atto relazionale sociale. La riformulazione dell'autismo spingerà i medici a essere più selettivi nel diagnosticare il disturbo, (alcuni dicono fino al 50% di diagnosi meno)".
Ovviamente però così si rischia di trascurare dal punto di vista dell'assistenza scolastica o da quella assicurativa, bambini che presentano forme lievi del disturbo.
Negli Usa e nel resto del mondo, le proteste contro semplificazioni come queste vanno avanti da tempo, sostenute e argomentate in conferenze, articoli di giornale, scritti scientifici e blog divulgativi soprattutto per opera di un noto scienziato, il professore Allen Frances, professore emerito alla Duke University e capo della task force che ha redatto la versione precedente del DSM, la 4.
"L'inclusione del lutto nella diagnosi di depressione maggiore significa riconoscerlo come evento stressante, ma anche medicalizzarlo", lasciando troppo spazio a soluzioni di tipo farmacologico, continua Lingiardi. Di spazio per i farmaci in ambito psichiatrico anche in Italia ce n'è molto: mentre dal 2000 al 2010 il consumo di antipsicotici è diminuito dal 3,28% al 2,80%, quello di antidepressivi è passato dall'8,18 al 35,72% (Rapporto Osservasalute 2011).
"Non si può fare un manuale diagnostico marginalizzando la psicologia", continua Lingiardi, che con Franco Del Corno ha curato l'edizione italiana del Manuale Diagnostico Psicodinamico (ed. Cortina). Riprende: "Ma il fatto più clamoroso del DSM-5 è il fallimento nel campo dei disturbi della personalità. Era stata annunciata una rivoluzione, ma nulla cambierà. La promessa era che si potesse valutare l'intensità di un disturbo, non solo la sua presenza-assenza, e invece questa promessa non verrà mantenuta".
Concorda Gary Greenberg, psicoterapeuta americano e autore del libro-inchiesta Manufacturing Depression e di un altro volume, The Book of Woe, proprio sul DSM-5, in uscita a maggio per Penguin: "Ci stiamo muovendo verso una medicalizzazione della normalità. Sempre di più le nostre umane sofferenze sono catalogate con nomi medici e curate con i farmaci".
In questo senso, la marcia indietro di Frances, che anche lui ha un libro in uscita sul DSM-5 il prossimo aprile, è chiarificatrice. Mentre lo psichiatra americano criticava in ogni sede la redazione del nuovo manuale, si è assunto le proprie responsabilità, ammettendo l'errore di aver contribuito ad una iper-medicalizzazione dell'infanzia quando ha introdotto l'ADHD, la Sindrome da Deficit di Attenzione e Iperattività nella quarta edizione del manuale: "Da lì in poi la malattia è stata diagnosticata molto più del dovuto, negli Stati Uniti, e ciò ha permesso alle aziende farmaceutiche di guadagnare milioni", ha scritto Frances.
"Da qualche tempo è partita la campagna Boycott DSM-5, sul cui successo non so fare previsioni", riprende Lingiardi. "Eppure negli ultimi sessant'anni, il DSM ha costruito a livello internazionale un linguaggio diagnostico "condiviso", il che ha ovviamente condiviso, nel bene e nel male, la concezione di malattia mentale nell'epoca contemporanea", continua Lingiardi. "Il potere di costruire una diagnosi è un grande potere: sociale ed economico, basti pensare all'inevitabile rapporto tra creazione di diagnosi e produzione di farmaci".
Oltre al rischio di medicalizzare il lutto e di patologizzare i lievi disturbi neuro cognitivi dell'anziano, altri comportamenti umani, secondo Frances e Lingiardi, sono a rischio di iper-medicalizzazione: le abbuffate di cibo (il binge-eating) come patologia autonoma, la difficoltà a separarsi dagli oggetti diagnosticata come disturbo da accumulo, i bambini con persistente irritabilità ed episodi frequenti di comportamento esplosivo considerati come pazienti affetti da disturbo distruttivo della disregolazione emotiva, la combinazione di abuso più dipendenza in un'unica diagnosi, "con il rischio di confondere i tossicodipendenti cronici con chi fa uso limitato di sostanze stupefacenti".
"Il concetto di dipendenze comportamentali, in questo modo, potrebbe essere esteso fino a far diventare malattia mentale tutto ciò che agli individui piace di più", sostengono Frances e una buona parte del mondo scientifico. Mondo che non si può dire che negli ultimi anni sia rimasto a guardare. "Tutt'altro, gli oppositori della nuova versione della DSM hanno fatto sentire fortissima la loro voce", spiega Paolo Migone, psichiatra, ex docente all'università di Parma e condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane "fino a costringere l'APA a ritrattare alcune formulazioni, e anche e soprattutto a uscire allo scoperto, pubblicando su un apposito sito Web tutte le novità in cantiere: fino a qualche mese fa, infatti, i lavori delle singole task force erano segretati, e tutti gli scienziati coinvolti al progetto erano coperti da un patto, controfirmato, di segretezza".
Le pressioni internazionali hanno quindi costretto l'associazione ad "aprire" alle critiche. Appena pubblicate sul Web le bozze, la direzione è stata sommersa da più di 8000 commenti. "Che però hanno avuto soprattutto l'effetto di permettere all'APA di dire che erano disponibili alla discussione. Perché tra le modifiche non c'è, a oggi, nulla di significativo", specifica Greenberg.
La quinta versione del DSM passerà alla storia come la più controversa, la più tecnologica, (il Web ha giocato un ruolo chiave come gruppo di pressione), e anche come la più cara. "Frances sostiene che il progetto DSM è costato all'APA 25 milioni di dollari", continua Lingiardi. "L'APA ha dovuto stringere i tempi di redazione per uscire in primavera. Erano al collasso finanziario, e adesso devono monetizzare", aggiunge Paolo Migone.
Sembra che il prezzo di copertina dell'edizione in inglese sarà 199 dollari, mentre per quella italiana bisognerà aspettare il 2014, chiarisce Tiziano Strambini, curatore della traduzione italiana per la casa editrice Elsevier. "Io dei contenuti non li ho ancora visti, o solo gestito il contratto con l'American Psychiatric Press è previsto i tempi di traduzione".
E lo stesso Strambini, sottolinea come il manuale sia uno dei punti nodali del business della casa editrice: "L'edizione precedente ha venduto intorno alle 20.000 copie, anche passando attraverso i circuiti delle case farmaceutiche. Si deve considerare che non è un oggetto necessario solo agli psichiatri ma anche a psicologi e neurologi, che hanno una formazione clinica e possono prescrivere medicine".
Qualche miglioramento, però, in quest'edizione sembra esserci: "Sui disturbi dell'identità di genere si è fatto un importante passo avanti. Il nuovo termine proposto, meno stigmatizzante per la comunità dei e delle transessuali, è Disforia di Genere", sottolinea Lingiardi.
Alla fine anche il giudizio del professor Mencacci è nel complesso positivo: "Il DSM-5 ha la capacità di portare il più possibile evidenze scientifiche in un mondo in cui se ne fa spesso a meno. Porterà a un'attenzione sempre maggiore verso la tematica della malattia mentale. In Europa il 38,2% della popolazione soffre di disturbi mentali, e la stessa depressione sottostimata del 40%. Le novità di questo manuale vanno nella direzione della diagnosi precoce, il che vorrà dire cambiare il percorso di vita di tante, tante persone".

Paola Santoro





domenica 10 agosto 2014

La recessione picchia duro. Nascono gli euro-naufraghi espatriati.

Isabel a quarant'anni e padroneggia quattro lingue : inglese e francese,
spagnolo e arabo. In due di queste lingue scrive così bene che il lettore di "Le Monde" sa che lei è francese, mentre chi la legge a Madrid dà per scontato che è spagnola.
È stata un'inviata di guerra su alcuni fronti caldi del medio oriente. Io l'ho conosciuto al seguito di Barack Obama, di Mitt Romney e di altri candidati nelle ultime campagne elettorali qui negli Stati Uniti. È quel che si dice una reporter d'assalto, nel senso più positivo possibile. Aggressiva, determinata nel dare la caccia alle notizie.
Da molti mesi Isabel è diventata, dal suo punto di vista, una "travet", una passacarte, un'impiegata con un lavoro di routine. Si è trovata un contratto a termine all'ufficio stampa delle Nazioni Unite qui a New York, dove perlopiù deve mettere in bella prosa dei comunicati ufficiali.
Per come è fatta lei, questo lavoro equivale a una specie di “morte civile”. Con tutto il rispetto per il mestiere degli uffici stampa, posso capirla : per una che era abituata a non avere orari, ad ammazzarsi di lavoro pur di ottenere l'intervista giusta, lo scoop, o semplicemente per scrivere un articolo più ricco e informato dei concorrenti, trovarsi a timbrare il cartellino dalle 9 alle 18 tutti i giorni, in una gigantesca organizzazione burocratica, è un ripiego.
Ma Isabel deve vivere, pagare le bollette della luce, l'affitto, l'assicurazione sanitaria. I contratti a termine dell'Onu sono la sua scialuppa di salvataggio.
Il giornale che la stipendiava come corrispondente dagli Stati Uniti, che fu un quotidiano spagnolo importante, non esiste più. Per un paio d'anni, dopo la bancarotta di quel giornale, Isabel ha girato come un'anima in pena fra Madrid e Parigi, cercando di rimettersi sul mercato, offrendo il suo know how di corrispondente dall'estero. Ora sta cercando di ottenere una Green Card, il permesso di residenza permanente negli Stati Uniti. Non si sente americana, anzi è molto critica verso questo paese. Ma si rassegna a questa realtà : per lei, tornare indietro non è più un'opzione. Non oggi, non domani, forse mai più ?
Ne conosco tante e tanti, come Isabel. Non sono classificabili sotto l'etichetta "fuga dei cervelli", che è un fenomeno diverso. Isabel era qui al servizio dei suoi lettori spagnoli, quando la sua casa madre è sparita in un'implosione. Quelli come lei assomigliano piuttosto a dei naufraghi alla deriva, la cui terra d'origine è stata sommersa da uno tsunami. In un film di fantascienza sarebbero degli astronauti su una base spaziale, dove le comunicazioni con la terra sono interrotte, e cominciano a chiedersi se la terra esista ancora.
È una nuova fauna umana, questa degli "euro-naufraghi espatriati",
alla deriva. Vittime della crisi internazionale dell'euro zona, dove in diversi paesi la depressione economica raggiunge livelli quasi analoghi a quella degli anni 30'. Nel caso di Isabel si incrociano due crisi, quella della Spagna è quella della carta stampata, ma questo è un altro discorso.
Mi accorgo che diventano sempre più numerosi, questi europei abbandonati al loro destino qui a New York, da un'Europa che non può più permettersi i loro servizi. Sono diversi dai talenti in fuga, non certo perché le vicende dei nostri cervelli emigranti siano meno drammatiche.
Il giovane ricercatore scientifico italiano o francese, che lascia il proprio paese e approda qui, fa una scelta, spesso obbligata, provocata dai tagli ai fondi per le università ; sa che la sua partenza forse è senza ritorno. Approda nel paese più ricco del mondo per i finanziamenti alla scienza.
Quelli come Isabel erano qui a servizio del loro paese, di un pubblico che dall'altra parte dell'Atlantico avrebbe bisogno di saperne di più, di capire dove sta andando il mondo "che cresce".
Isabel sta pensando di usare il proprio spagnolo per riconvertirsi come giornalista della stampa messicana o argentina o colombiana. E anche questo un segno dei tempi : qui a New York i mass-media che reclutano giornalisti vengono dai paesi emergenti e si chiamano Al Jazeera, Rt (televisione russa), o Cctv (cinese).


Federico Rampini

domenica 3 agosto 2014

I bimbi di oggi e le nuove tecnologie. Vantaggi o svantaggi ?

Mio marito, l'economista marxista barese, ha un rapporto difficile con i telefoni cellulari. Probabilmente li considera uno strumento del demonio, un prodotto voluttuario figlio del capitalismo più barbaro o forse solo un oggetto antipatico. Per questo, finché ha potuto, si è rifiutato di possederne uno.
"Ora basta. O compri un cellulare o cerco un altro marito con la reperibilità incorporata", dissi quando arrivò il figlio numero tre, quasi quattro anni or sono. Lui, in un accesso di remissività, capitolò e comprò il modello più primitivo, antiestetico ed economico dell'ipermercato.
"Mi fa schifo", disse estraendo il suo gioiello dai sacchetti della spesa e dimenticandolo sul tavolo della cucina, tra il latte e la farina.
Da allora lo strumento del demonio rimase prevalentemente spento o inascoltato, spesso dimenticato oltremanica o oltre oceano, o dentro tasche di giacche insonorizzate. Restò lì, inutilizzato, come le cravatte, il pettine e il panno per pulire gli occhiali.
Restò lì fino a quando non fu scoperto dal figlio piccolo che, da buon terzogenito, è abituato a farsi largo sgomitando in sordina o a insinuarsi nelle maglie larghe della sbrindellata trama familiare, scovando tesori nella distratta negligenza altrui.
"Cos'è? Fa le foto?", Domandò brandendo lo scarto tecnologico. "È il cellulare di papà. Non so se faccio fotografie ma tu smettila di aprirlo e chiuderlo, altrimenti si rompe".
Il piccolo, con la caparbia determinazione dei suoi tre anni e mezzo, adottò lo strumento reietto e regalò a quell'esistenza grama, una seconda chance.
Varie volte, nel corso della giornata, lui inchiodava, estraeva l'oggetto,
lo scuoteva vigorosamente, ("Perché lo agiti in quel modo?". "Perché così le foto vengono meglio"), lo apriva, metteva a fuoco e, click, scattava per poi richiuderlo, shakerarlo ancora una volta ("E adesso perché lo scuoti ancora?". "Lo so io perché"), e riporlo.
Per settimane, per mesi, si è aggirato serio, compito, orgogliosamente compreso nel suo nuovo ruolo di cacciatore d'immagini al telefono, muovendosi, come gli capita spesso, ben sotto il radar genitoriale.
Qualche giorno fa ho trovato il telefonino dimenticato sul tavolo della cucina, tra un succo di frutta i biscotti. L'ho liberato dalle briciole e ho aperto la cartelletta "Fotografie". Ce n'erano 346, da giugno a oggi. Inquadrature sbilenche, spesso sfuocate, catturate da un'altezza ombelicale. C'erano uccelli, piastrelle del pavimento, la testiera del letto capovolta, la corteccia di un albero, due formiche, il sacco nero della spazzatura, la scritta sul cartone del latte, un lombrico che sembra una foglia, una foglia che sembra un coccodrillo, una macchinina rossa, la portiera di un'automobile blu, un sandalo senza piede, un piede senza scarpa, i miei capelli legati con un fermaglio, la barba del papà, la guancia di un bambino piena di lentiggini, il sole, bianco, nero.
E poi, lì dentro, in quella cartelletta bislacca, c'erano un fratello con il suo sorriso sgangherato e sdentato, la nonna con la borsa rossa, una signora incontrata per la strada che fa ciao con la mano, la panettiera con il grembiule blu, la cassiera del supermercato, con la messa in piega, il benzinaio, un passante a cui avevamo chiesto informazioni, un altro fratello che fa le boccacce, un autoritratto del fotografo che si guarda allo specchio, la dirimpettaia mentre stende i panni al davanzale e ride.
C'erano le estreme propaggini dei nostri sguardi frettolosi, mondi ai margini, nobilitati da un tizio di taglia mignon che shakera, apre, scatta, chiude, ri-shakera. C'era il suo punto di vista sugli abitanti di quei mondi, visti dal basso: primi piani di pance, di sederi, di menti, di bocche. E scorrere quelle immagini strampalate e sghembe è stato illuminante, come affacciarsi su un panorama esotico, come ritrovare l'incanto, come sbirciare nella testa di un ragazzino che sfugge al radar e "shakera" i telefonini, perché "lui sa".

Claudia “Elasti” De Lillo