Mio
marito, l'economista marxista barese, ha un rapporto difficile con i
telefoni cellulari. Probabilmente li considera uno strumento del
demonio, un prodotto voluttuario figlio del capitalismo più barbaro
o forse solo un oggetto antipatico. Per questo, finché ha potuto, si
è rifiutato di possederne uno.
"Ora
basta. O compri un cellulare o cerco un altro marito con la
reperibilità incorporata", dissi quando arrivò il figlio
numero tre, quasi quattro anni or sono. Lui, in un accesso di
remissività, capitolò e comprò il modello più primitivo,
antiestetico ed economico dell'ipermercato.
"Mi
fa schifo", disse estraendo il suo gioiello dai sacchetti della
spesa e dimenticandolo sul tavolo della cucina, tra il latte e la
farina.
Da
allora lo strumento del demonio rimase prevalentemente spento o
inascoltato, spesso dimenticato oltremanica o oltre oceano, o dentro
tasche di giacche insonorizzate. Restò lì, inutilizzato, come le
cravatte, il pettine e il panno per pulire gli occhiali.
Restò
lì fino a quando non fu scoperto dal figlio piccolo che, da buon
terzogenito, è abituato a farsi largo sgomitando in sordina o a
insinuarsi nelle maglie larghe della sbrindellata trama familiare,
scovando tesori nella distratta negligenza altrui.
"Cos'è?
Fa le foto?", Domandò brandendo lo scarto tecnologico. "È
il cellulare di papà. Non so se faccio fotografie ma tu smettila di
aprirlo e chiuderlo, altrimenti si rompe".
Il
piccolo, con la caparbia determinazione dei suoi tre anni e mezzo,
adottò lo strumento reietto e regalò a quell'esistenza grama, una
seconda chance.
Varie
volte, nel corso della giornata, lui inchiodava, estraeva l'oggetto,
lo scuoteva vigorosamente, ("Perché lo agiti in quel modo?".
"Perché così le foto vengono meglio"), lo apriva, metteva
a fuoco e, click, scattava per poi richiuderlo, shakerarlo ancora una
volta ("E adesso perché lo scuoti ancora?". "Lo so io
perché"), e riporlo.
Per
settimane, per mesi, si è aggirato serio, compito, orgogliosamente
compreso nel suo nuovo ruolo di cacciatore d'immagini al telefono,
muovendosi, come gli capita spesso, ben sotto il radar genitoriale.
Qualche
giorno fa ho trovato il telefonino dimenticato sul tavolo della
cucina, tra un succo di frutta i biscotti. L'ho liberato dalle
briciole e ho aperto la cartelletta "Fotografie". Ce
n'erano 346, da giugno a oggi. Inquadrature sbilenche, spesso
sfuocate, catturate da un'altezza ombelicale. C'erano uccelli,
piastrelle del pavimento, la testiera del letto capovolta, la
corteccia di un albero, due formiche, il sacco nero della spazzatura,
la scritta sul cartone del latte, un lombrico che sembra una foglia,
una foglia che sembra un coccodrillo, una macchinina rossa, la
portiera di un'automobile blu, un sandalo senza piede, un piede senza
scarpa, i miei capelli legati con un fermaglio, la barba del papà,
la guancia di un bambino piena di lentiggini, il sole, bianco, nero.
E
poi, lì dentro, in quella cartelletta bislacca, c'erano un fratello
con il suo sorriso sgangherato e sdentato, la nonna con la borsa
rossa, una signora incontrata per la strada che fa ciao con la mano,
la panettiera con il grembiule blu, la cassiera del supermercato, con
la messa in piega, il benzinaio, un passante a cui avevamo chiesto
informazioni, un altro fratello che fa le boccacce, un autoritratto
del fotografo che si guarda allo specchio, la dirimpettaia mentre
stende i panni al davanzale e ride.
C'erano
le estreme propaggini dei nostri sguardi frettolosi, mondi ai
margini, nobilitati da un tizio di taglia mignon che shakera, apre,
scatta, chiude, ri-shakera. C'era il suo punto di vista sugli
abitanti di quei mondi, visti dal basso: primi piani di pance, di
sederi, di menti, di bocche. E scorrere quelle immagini strampalate e
sghembe è stato illuminante, come affacciarsi su un panorama
esotico, come ritrovare l'incanto, come sbirciare nella testa di un
ragazzino che sfugge al radar e "shakera" i telefonini,
perché "lui sa".
Claudia
“Elasti” De Lillo
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