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giovedì 22 ottobre 2015

Arriva Halloween tra folklore e business.

Negli Usa i costumi di Halloween vengono comprati anche per cani e gatti. Con l'arrivo dell'autunno e dei primi freddi, i festaioli di tutto il mondo hanno gli occhi puntati sull'appuntamento ormai imperdibile di Halloween.

La notte di Ognissanti è anche in Italia un fenomeno diffuso e ormai Halloween è stato adottato dalle nostre tradizioni. Sebbene si abbia ancora la percezione che sia una festività straniera, i ragazzi, e i meno giovani, cercano un locale dove passare la serata e sfoggiare il proprio costume e molti bambini bussano alle porte chiedendo dolcetti in regalo, ed è anche meglio accontentarli visto che altrimenti potrebbero riservare degli scherzetti.
Con un'unica eccezione nel 2013, quando i consumi dedicati ad Halloween sono diminuiti del 10%, negli ultimi anni la Coldiretti ha registrato un trend crescente di spesa, con le famiglie italiane che dedicano un budget sempre più elevato all'acquisto di zucche, arredi spaventosi e costumi. L'ammontare dei consumi annuali è nell'ordine dei 300 milioni di euro: il picco si è avuto nel 2014, con circa 350 milioni. Per una festività relativamente recente, sono numeri di tutto rispetto.
Tuttavia, se consideriamo il luogo dove la festività pagana è nata e cresciuta, cioè il mondo anglosassone e in particolare gli Stati Uniti, il paragone non regge. La febbre di Halloween infatti non coinvolge solo adulti e bambini. Nel 2014 gli americani hanno speso ben 350 milioni di dollari, per acquistare costumi di Halloween per i propri animali domestici. In pratica l'intero ammontare, (o quasi, dato il cambio euro/dollaro), dei consumi italiani, sono stati dedicati per vestire a festa solo cani e gatti.
I costumi per adulti fanno sempre la parte del leone, seguiti a ruota da quelli per i bambini. A partire dal 2011 la spesa per le due categorie, prese singolarmente, non è mai scesa sotto il miliardo di dollari, andando a toccare punte di 1,4 miliardi nel 2012. Il giro di affari negli Usa e quindi nell'ordine delle migliaia di milioni di dollari, esattamente 7,4 miliardi di spesa totali, (considerando gli acquisti per addobbi e dolciumi), per la notte di Ognissanti nel 2014. Ciò significa che ogni statunitense ha pagato per questa festa, circa 22,76 dollari, ben più dei circa 6 euro spesi da ogni italiano.
Anche se Halloween è la festività americana per eccellenza, molti non sanno che le sue radici sono nella vecchia Inghilterra. Le antiche tradizioni celtiche della notte del 31 ottobre, sono infatti emigrate in America a seguito del colonialismo e il boom di immigrati irlandesi nel 18º secolo, non ha fatto altro che consolidare la popolarità e il folklore della notte di Ognissanti.
Sebbene abbia radici nel Regno Unito, i britannici sono preoccupati che la popolarità di Halloween stia spodestando festività ben più radicate nella tradizione inglese. Ad esempio, una ricerca del 2014, ha investigato gli effetti della popolarità di Halloween sulla cosiddetta "Bonfire Night", la notte dei fuochi d'artificio, che si festeggia solo pochi giorni dopo la notte di Ognissanti, il 5 novembre.
Infatti circa il 40% degli intervistati è d'accordo che la notte del 31 ottobre, stia avendo effetti negativi sul giorno dedicato alla memoria del fallito attentato al re inglese del 1605, a cui partecipò il famoso rivoluzionario Guy Fawkes.
Fortunatamente in Italia Halloween non ha nessun concorrente diretto e i fautori delle tradizioni possono dormire sonni tranquilli ... Purché lo facciano con tanti dolcetti a portata di mano.


venerdì 16 ottobre 2015

Il Rally del Pane.

La genesi di quella che è stata una delle più prestigiose manifestazioni motoristiche nazionali, raccontata a piena voce dal suo realizzatore, Arnaldo Cavallari.

Notte da tabarro. L'aria fredda e pungente sul volto. Il cielo maculato di stelle. Guardavo e mi guardavo. Un'altra sfida. Un'altra corsa.
Perché Arnaldo? Perché a cinquant'anni passati non fermarsi un po'? Perché continuare a correre incessantemente?
"Perché così fanno le stelle", mi risposi. E ringraziai le stelle. Arrivavo da un incontro con i dirigenti del Ferrari Club di Taglio di Po e con alcuni appassionati locali di rally. Erano state gettate le basi per realizzare un rally nel Polesine. Un rally vero e proprio dalle nostre parti non si era mai visto.
La mia esperienza al servizio di un evento particolare, inedito. Un progetto che identificai in tre messaggi: Polesine, Albarella e Ciabatta Polesana, nata da poco. Cioè coniugare i rally e la vita. Sapevo come si metteva in piedi un rally. Non per niente avevo frequentato il meglio anche in questo senso: Stochino (San Martino), Asquini (Alpi orientali), Rava (Sanremo), Salvay (999 Minuti). Non avevo mai organizzato, ma mi sentivo pronto a seguire il loro esempio. Mi presi la responsabilità di tutto. Tanto per cambiare ...
Il Ferrari Club mise la licenza Csai di organizzatore, necessaria dal punto di vista formale e legale. Preso dal prurito di vedere crescere il progetto, non mi resi conto che questo "favore" sarebbe potuto costarmi caro. Nell'ambiente, un rally nel Polesine suscitò subito interesse, ma anche perplessità.
"Tutte strade pianeggianti dalle tue parti, Arnaldo, e che rally puoi inventarti senza montagne o colline?"
Mi misi di buzzo buono per farli ricredere. "Trapanai" il Polesine in lungo e in largo. Scovai stradine sconosciute, sterrate, piene di curve e di difficoltà. Tutte attorno ad Adria. Disegnai un percorso come piaceva a me. Prove speciali tortuose. Tra una curva e l'altra mai più di 50 mt di rettilineo. Fatto il percorso, occorreva vendere bene il rally. La sana e pragmatica filosofia di sempre.
Era importante convincere coloro che ci davano una mano economicamente. Far capire che il rally poteva diventare uno strumento utile per la loro attività, che la promozione e la pubblicità avrebbero assicurato un ritorno d'immagine. Io ero l'esempio. Organizzavo, ma ero anche sponsor, col marchio Ciabatta Polesana. Non per niente volli che si chiamasse il Rally del Pane.
La sponsorizzazione, però, andava seguita, accompagnata, promozionata. Era quello che predicavo a tutti: ai potenziali sponsor del rally, come ai piloti che mi chiedevano consigli. La prima edizione del Rally del Pane andò in scena nella notte tra il 31 marzo e il 1 aprile 1984.
La notte mi è sempre stata amica. Fu un successo straordinario. Un coinvolgimento generale. Tre giorni, (dal venerdì alla domenica), agitati, pieni. Tre giorni dentro un frullatore.
Il molino divenne l'epicentro dell'evento. Stracolmo di gente, di auto da corsa, (le verifiche tecniche si svolsero lì), di gioia. Una sezione dell'edificio fu destinata all'area operativa: direzione gara, segreteria, sala stampa, sezione cronometristi e via discorrendo. Il cortile evaporava felicità anche dal terreno. Un'aia festaiola, dove le variopinte auto da corsa sostituivano i trattori. Un rombo che faceva tremare le finestre e fuggire i colombi da sotto le pensiline. Il pane, ovviamente, grande accentratore. Grande anima che accomuna. Usciva a getto continuo dal forno sperimentale e le maestranze del molino, resesi disponibili spontaneamente, lo servivano, correndo avanti e indietro per accontentare tutti.
Una mortadella da mezzo quintale restò ore e ore in balia di un'affettatrice. Vennero "seccate" un numero incalcolato di damigiane di vino locale. Tutti mangiarono e bevettero. Piloti, navigatori, accompagnatori, meccanici, giornalisti, cronometristi, lo staff organizzativo del rally, paesani, curiosi e visitatori.
Ricordo una coppia che addentò una lunga ciabatta imbottita. Uno di qua, l'altra di là. Una specie di gara. Finirono col togliersi il pane di bocca.
Il palco partenza in piazza, davanti alla cattedrale. Una girandola di luci e di sorrisi. La premiazione si svolse nel ridotto del teatro comunale di Adria. Un'apoteosi. Autorità, personaggi, premi per tutti i concorrenti. Conclusi stanco, ma felice. Ero riuscito ancora una volta ad aggregare, a far stare bene tanti.
Il Rally del Pane divenne qualcosa di eclatante. L'anno dopo coinvolsi come sponsor nientemeno che l'AGIP. I responsabili marketing dell'azienda petrolifera, erano rimasti sorpresi dal successo registrato. L'AGIP era conosciuta come partner della Ferrari. Non sponsorizzava altro. Nel 1985, invece affiancò il suo marchio sia alla Ferrari, sia al Rally del Pane. Il suggello perfetto. Avevo lavorato bene. Il Comune di Adria per la premiazione non mi diede il ridotto, bensì tutto il teatro comunale. Aveva capito.
Andò avanti così per quattro anni. In un crescendo che sembrava perpetuo. Il Rally del Pane me lo sentivo nelle ossa, nella pelle. Invece di affievolirsi, costante delle cose che si ripetono, l'ebbrezza aumentava ogni anno. Era amato anche dai panettieri miei clienti. Si sentivano parte integrante di un avvenimento. Poi finì tutto. Sciolto come neve al sole. Un paio di mesi prima di dare il via alla macchina organizzatrice della quinta edizione, quelli del Ferrari Club vennero da me.
"Quest'anno il rally lo organizziamo noi", dissero a bruciapelo. Subito rimasi senza parole. Finché chiesi: E io? "Non abbiamo più bisogno di te. Ci piacerebbe che continuassi a fare lo sponsor. Ma per l'organizzazione ci arrangiamo. Non c'entri più".
La meschinità umana, accidenti. Ancora una volta sulla mia strada. Nonostante fornissi puntualmente e dettagliatamente ai miei interlocutori i conti che riguardavano il rally, si erano convinti che nascondessi qualcosa. Insomma, che speculassi. Mi girarono le spalle anche molti di quelli che ritenevo amici. Velocissimi a salire sul carro di chi prometteva.
La mia reazione li lasciò di stucco: "Bene, vado al mare. Saluti".
In realtà, la faccenda mi rodeva. Mi avevano sottratto il giocattolo. Mi avevano tolto un pezzo di vita. E, per di più, usando l'insinuazione, il sospetto, la cattiveria gratuita. Sapevo che da soli non avrebbero fatto molta strada. Per realizzare certe cose ci voleva la passione che loro non avevano. E ci volevano i soldi. Il rally costava circa 150 milioni di lire. Un centinaio arrivava dagli iscritti e dagli sponsor. Ma il resto lo metteva il marchio Ciabatta Polesana. Erano soldi che tiravo fuori volentieri, rappresentando un ottimo veicolo pubblicitario. Adesso dovevano cercarli da un'altra parte, ed era una bella somma. Mi sentivo offeso, dopo tutto quello che avevo fatto. Non poteva finire così. Non potevo dargliela vinta.
In primo luogo, li diffidai dall'usare la denominazione Rally del Pane. Era mia. L'avevo registrata. Le lettere degli avvocati fioccarono. E siccome quei signori avevano già dato il via alle pubblicazioni, utilizzando proprio quel nome che faceva comodo, dovettero gettare tutto alle ortiche. Ma non bastava. Uscire di scena non è mai stata la mia specialità. Così mi venne un'altra idea.
Con una decina di amici veri, fuoriusciti dallo staff organizzativo del rally, ideai la prima edizione del Rally del Pane per auto storiche, quinto Rally del Pane, primo trofeo Ville Venete. Un revival sotto l'egida dell' Historic Racing Cars.
Sponsor della gara, Ciabatta Polesana e AGIP. Sostenitori, Albarella e Comune di Adria. Tanto per far capire da che parte stavano ... Allestii un happening in grande stile. Pressoché perfetto. Per una settimana il rally e il pane si integrarono. Furono organizzati incontri, convegni, uno in particolare d'interesse internazionale: il pane del Duemila.
Per quanto riguarda il rally, basta con tanti tratti cronometrati e avanti invece con un percorso che toccava tutti e sette i capoluoghi del Veneto. All'apparenza, un tracciato facile, dunque. In realtà, nascondeva un'insidia che pochi concorrenti intuirono. Sulle strade aperte al traffico, infatti, il codice della strada imponeva una media non superiore ai 50 all'ora. Facile a dirsi, impossibile a farsi sulle viuzze che avevo scelto, lungo le prealpi venete, da Bassano a Verona, tortuose all'inverosimile e per giunta, disseminate di controlli orari ravvicinati. La gara si sarebbe decisa lì, ai controlli orari. Infatti, fu così. I concorrenti prima rimasero spiazzati, poi apprezzarono la mia trovata.
Fu un trionfo. Agonistico e coreografico. Auto d'altri tempi. Un remarque da brivido. Lo splendore mozzafiato delle ville venete. L'arte che si fondeva nell'arte. Motori e architettura. Tanta gente sbracciante lungo il percorso. Una sorta di Mille Miglia. E i molini adriesi a fare da collante.
La premiazione, la domenica sera, fu qualcosa che ad Adria ricordano ancora oggi. Il teatro comunale si specchiava nei suoi giorni migliori. Come quando ospitava i cantanti e gli artisti più importanti del mondo.
Ricordo che entrammo in teatro accolti dall'Aida. Le strutture, i muri fremevano sotto i tamburi della marcia trionfale. Fu commozione generale.
Il proscenio trasformato in palco partenza del rally. A sua volta sferzato da luci baluginanti. Sembrava una visione. Una fantasticheria da fiaba. La bellezza sensuale di Eleonora Vallone, madrina della manifestazione. Io volteggiavo sul palco come fossi su una nuvola. Giacca verde e camicia bianca. I colori ufficiali del rally, indossati anche da tutti i miei collaboratori e collaboratrici, compresa Miss rally, eletta nel frattempo.
All'esterno, Adria aveva preso le sembianze di Disneyland. Fuochi d'artificio, laser luminosi stravolgevano una realtà sottratta alla sua abituale intimità. I negozi rimasero aperti. Una processione di luci. Centoventotto commercianti supporter del rally. Partecipando, distribuendo materiale informativo e pubblicitario del rally. Elettrizzati per esserci. Elettrizzati per aver aderito al mio suggerimento. Mi feci tanti altri amici. E dimenticai le amarezze provate. Un rally così, doveva rappresentare il top, il meglio. Di conseguenza, non potevo concedere repliche. Molti di quelli che c'erano, si risentirono della mia decisione.
"Ma come, ci hai dato lo zuccherino è adesso ce lo togli? È ingiusto ..."
"No, è giusto", rispondevo, "così il Rally del Pane resterà per sempre un piacevole ricordo. Per voi e per me".


Arnaldo Cavallari da “Una vita nel sole”

sabato 10 ottobre 2015

La prostituzione in giro per il mondo e per i secoli.

Eschimesi

Gli eschimesi sono soliti offrire una donna, in genere la moglie del padrone di casa, all'ospite.

Mylitta

Racconta Erodoto che le donne greche si recavano, almeno una volta nella loro vita, nel tempio della dea Mylitta, come la chiamavano gli assiri, per prostituirsi a uno sconosciuto. Una volta entrate nel tempio, non potevano più uscirne finché uno straniero non aveva gettato una moneta d'argento nel loro grembo, ripetendo la frase di rito : “Ti convoco in nome della dea Mylitta”. La donna non aveva il diritto di rifiutare la moneta e soltanto dopo essersi concessa poteva tornare a casa. Stando a Erodoto, le donne più brutte aspettavano anche tre o quattro anni.


Sinonimi

Sinonimi di prostituta, pornoi, nell'antica Grecia : compagna, (etera), donna pubblica, reclusa, lupa, puledra, madia, passeggiatrice e altri.

Seguitemi

Si conserva tuttora un sandalo con la parola “seguitemi” incisa sulla suola, in modo che la prostituta, camminando, lasciasse sul terreno molle delle strade questo messaggio, chiarissimo anche per i più sprovveduti.

Divieti

Tra gli antichi romani una donna il cui nonno, padre o marito, avesse ricoperto la carica di cavaliere romano, non poteva darsi alla prostituzione.

Maometto

Maometto si sposò 14 volte, ma sempre con vedove, a parte il caso di Ayesha. La poligamia era per Maometto un modo di aiutare donne rimaste prive di ogni appoggio, ma poiché c'era il rischio dell'abuso, i commentatori del Corano fissarono a 4 il numero delle mogli, sebbene nel testo sacro non si trovino che vaghi accenni in merito. Infatti, oltre a Maometto, anche altri sovrani dell'Islam ebbero più di 4 spose. In realtà, nella massa musulmana, la monogamia era la regola, mentre erano soprattutto i capi più potenti o i sovrani ad avere diverse mogli. Mogli e concubine, che erano indici di un certo ceto sociale, portarono alla formazione dell'harem, che influì su parte della struttura politica islamica.

Donna

In alcuni racconti della letteratura sacra indiana, si accenna alla maggiore sensualità della donna : Ila, che è un mese uomo e uno donna, si dedica ai piaceri della carne come donna, mentre passa il mese in cui è un uomo in pia meditazione.

Amore

La voracità di una donna è due volte quella dell'uomo, la sua furberia quattro volte, la sua sfrontatezza sei volte, e la sua capacità di provar piacere nell'amore otto volte”, antico proverbio indiano.

Cina

All'epoca della dinastia Zhou, circa1120-222 a.C., si era stabilito un numero fisso di compagne necessarie per nutrire e rinvigorire il re, che aveva una regina, 3 consorti, 9 mogli di secondo rango, 27 mogli di terzo rango e 81 concubine. Si erano stabilite queste cifre in base a un sistema in cui, i numeri dispari indicavano le forze positive della natura, il maschio è la potenza virile, mentre i numeri pari erano passivi, simbolo della donna e della fertilità femminile. 3, il primo numero dispari dopo 1, aveva un significato di grande potenza, mentre il 9, 3 volte 3, indicava la potenza sovrabbondante. Moltiplicando 9 per 3, si otteneva 27, e 27 per 3 81, da cui il numero delle compagne necessarie.

Pechino

Marco Polo, il famoso viaggiatore del XIII secolo, riferì che a Pechino vi erano oltre 20.000 donne che vivevano prostituendosi, mentre a Hang-Chau, erano in quantità tale che egli rinunciava a calcolarne anche approssimativamente il numero.


Da “Storia della prostituzione. Dall'antichità agli anni 60'” di Vern L. Bullough 

sabato 3 ottobre 2015

Orizzonte rosa. Il desiderio di essere trasparente degli adolescenti.

"Cercate di fari i normali, per piacere. So che per voi è difficile ma almeno provateci". Questo è mio figlio maggiore, censorio, bacchettone e terribilmente conformista, almeno fuori dalle mura domestiche, come si conviene a un preadolescente in erba. Questa è la sua perentoria raccomandazione, ogni volta che usciamo insieme, perché noi, gli altri tre maschi ed io, lo imbarazziamo. Lo imbarazza il fratello di mezzo perché ha i capelli pazzi, gli occhi tondi e traspira sfrenata e anarchica passionalità. Lo imbarazza il piccolo perché è pericolosamente imprevedibile. Lo imbarazza il suo papà che trabocca economia marxista e baresità da ogni poro e lo imbarazzo io che, in quanto madre, mi macchio quotidianamente di inverecondi reati e impresentabili nefandezze.
Lo imbarazziamo tutti noi per il solo fatto di esistere e di appartenerci reciprocamente. Io, quella vergogna, quell'ansia di normalità, quel malsano senso di responsabilità per interposta persona, pesante come un macigno, li conosco, li riconosco, li ho incontrati all'età di mio figlio, li ho combattuti con alterni risultati e ogni tanto, anche oggi, mi aggrediscono, infidi e velenosi.
Il desiderio di essere trasparente, di confondersi nella folla, di uniformarsi al tuo branco, di non sollevare interrogativi, di non suscitare stupore, sorpresa o perplessità, di essere normali - dove quello di normalità è un concetto tanto rassicurante quanto insensato e inesistente - è un'ambizione legittima dell'infanzia e della prima adolescenza, perché crescere è un'attività insidiosa e impegnativa, che necessita di anonimato più che di ribalta.
Io, da ragazzina, mi vergognavo di avere genitori separati, di chiedere informazioni per la strada, di uscire di casa con il mascara e, qualche anno dopo, di uscire senza mascara, di ammettere che non avevo fatto nè comunione nè cresima, di rivelare le mie origini ebraiche, di dire che mia nonna era comunista, di interagire con le commesse nei negozi di abbigliamento, di domandare "Scusi, dov'è il bagno?", di indossare scarpe che scoprissero le dita dei piedi, di mostrare in pubblico il mio primo amore, di comprare gli assorbenti, di sciogliermi i capelli a scuola, di indossare gli occhiali da vista e anche quelli da sole.
Da ragazzina, insomma, mi vergognavo di stare al mondo. Ed era tutto molto complicato, come forse lo è ora per mio figlio che ci chiede di sforzarci di essere, o sembrare, normali.
L'importante è liberarsi progressivamente degli imbarazzi e non farne una cifra stilistica, acquisire sicurezza, emanciparsi dal giudizio altrui e soprattutto dal nostro.
L'importante è alleggerirsi con il tempo. Perché la vita, anno dopo anno, si complica da sola senza bisogno di paturnie auto inflitte.
E io? Ho imparato? Sono cresciuta? Riesco a camminare a testa alta, senza curarmi di nessuno? Ho acquisito la sicurezza sufficiente per scoprire le dita dei piedi, comprarmi i Tampax e portare orgogliosamente i miei occhiali da miope sul naso? Che voto mi do, io, adesso? Che credibilità ho io, quando seppellisco sotto una risata di imbarazzi le inibizioni di mio figlio?
"Amore, vado a fare la spesa. Hai bisogno di qualcosa?" "No, grazie, Elasti ... Anzi si! Siamo rimasti senza cosi". "No, quelli non li compro!". "Ma scusa, stai andando al supermercato. Cosa ti costa?". "Mi costa l'imbarazzo. Lo sai che non sono capace di comprare preservativi". "Non posso crederci". "Eddai, è un articolo che comprano i maschi, non le femmine". "E perché mai?". "Perché lo dico io". "Sei grande, hai tre figli, predichi l'emancipazione e ti dai tante arie da donna liberata e poi? Senza contare che non li usi nemmeno per fare sesso promiscuo, con partner occasionali incontrati al bar, ma per banalissimi rapporti coniugali. Temi l'implacabile giudizio della signorina delle casse che certamente avrà altro cui pensare?"
"Hai vinto. Li compro".


Elasti