"Cercate
di fari i normali, per piacere. So che per voi è difficile ma almeno
provateci". Questo è mio figlio maggiore, censorio, bacchettone
e terribilmente conformista, almeno fuori dalle mura domestiche, come
si conviene a un preadolescente in erba. Questa è la sua perentoria
raccomandazione, ogni volta che usciamo insieme, perché noi, gli
altri tre maschi ed io, lo imbarazziamo. Lo imbarazza il fratello di
mezzo perché ha i capelli pazzi, gli occhi tondi e traspira sfrenata
e anarchica passionalità. Lo imbarazza il piccolo perché è
pericolosamente imprevedibile. Lo imbarazza il suo papà che trabocca
economia marxista e baresità da ogni poro e lo imbarazzo io che, in
quanto madre, mi macchio quotidianamente di inverecondi reati e
impresentabili nefandezze.
Lo
imbarazziamo tutti noi per il solo fatto di esistere e di
appartenerci reciprocamente. Io, quella vergogna, quell'ansia di
normalità, quel malsano senso di responsabilità per interposta
persona, pesante come un macigno, li conosco, li riconosco, li ho
incontrati all'età di mio figlio, li ho combattuti con alterni
risultati e ogni tanto, anche oggi, mi aggrediscono, infidi e
velenosi.
Il
desiderio di essere trasparente, di confondersi nella folla, di
uniformarsi al tuo branco, di non sollevare interrogativi, di non
suscitare stupore, sorpresa o perplessità, di essere normali - dove
quello di normalità è un concetto tanto rassicurante quanto
insensato e inesistente - è un'ambizione legittima dell'infanzia e
della prima adolescenza, perché crescere è un'attività insidiosa e
impegnativa, che necessita di anonimato più che di ribalta.
Io,
da ragazzina, mi vergognavo di avere genitori separati, di chiedere
informazioni per la strada, di uscire di casa con il mascara e,
qualche anno dopo, di uscire senza mascara, di ammettere che non
avevo fatto nè comunione nè cresima, di rivelare le mie origini
ebraiche, di dire che mia nonna era comunista, di interagire con le
commesse nei negozi di abbigliamento, di domandare "Scusi, dov'è
il bagno?", di indossare scarpe che scoprissero le dita dei
piedi, di mostrare in pubblico il mio primo amore, di comprare gli
assorbenti, di sciogliermi i capelli a scuola, di indossare gli
occhiali da vista e anche quelli da sole.
Da
ragazzina, insomma, mi vergognavo di stare al mondo. Ed era tutto
molto complicato, come forse lo è ora per mio figlio che ci chiede
di sforzarci di essere, o sembrare, normali.
L'importante
è liberarsi progressivamente degli imbarazzi e non farne una cifra
stilistica, acquisire sicurezza, emanciparsi dal giudizio altrui e
soprattutto dal nostro.
L'importante
è alleggerirsi con il tempo. Perché la vita, anno dopo anno, si
complica da sola senza bisogno di paturnie auto inflitte.
E
io? Ho imparato? Sono cresciuta? Riesco a camminare a testa alta,
senza curarmi di nessuno? Ho acquisito la sicurezza sufficiente per
scoprire le dita dei piedi, comprarmi i Tampax e portare
orgogliosamente i miei occhiali da miope sul naso? Che voto mi do,
io, adesso? Che credibilità ho io, quando seppellisco sotto una
risata di imbarazzi le inibizioni di mio figlio?
"Amore,
vado a fare la spesa. Hai bisogno di qualcosa?" "No,
grazie, Elasti ... Anzi si! Siamo rimasti senza cosi". "No,
quelli non li compro!". "Ma scusa, stai andando al
supermercato. Cosa ti costa?". "Mi costa l'imbarazzo. Lo
sai che non sono capace di comprare preservativi". "Non
posso crederci". "Eddai, è un articolo che comprano i
maschi, non le femmine". "E perché mai?". "Perché
lo dico io". "Sei grande, hai tre figli, predichi
l'emancipazione e ti dai tante arie da donna liberata e poi? Senza
contare che non li usi nemmeno per fare sesso promiscuo, con partner
occasionali incontrati al bar, ma per banalissimi rapporti coniugali.
Temi l'implacabile giudizio della signorina delle casse che
certamente avrà altro cui pensare?"
"Hai
vinto. Li compro".
Elasti
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