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martedì 16 settembre 2014

A A A Capitano Achab cercasi. E Moby Dick anche.

Tre fotogrammi dal mondo per sintetizzare una tendenza. Nel desolato Nord norvegese, giovani che emigrano verso la tranquillità di un impiego in città, lasciando le baleniere "spiaggiate" : se proprio devono andare al largo, meglio farlo per i generosi stipendi delle piattaforme petrolifere, che per diventare moderni capitani Achab. Nei mari d'Islanda, turisti con binocoli al collo che arricchiscono pescherecci fino a ieri armati di arpioni.
In Giappone, tonnellate di carne di balena che giacciono invendute nei congelatori.
Sono tre immagini che rivelano che la caccia a Moby Dick è in ritirata. Non che le balene siano al sicuro, anzi. Inquinamento, (anche quello acustico dei sonar), riscaldamento climatico e catture accidentali, (anche con le illegali spadare italiane), sono ormai più letali degli arpioni.
"Responsabili della morte di centinaia di migliaia di esemplari ogni anno", dice Alessandro Gianni di Greenpeace Italia. Per contro, stando all' IWC, la Commissione Internazionale per la caccia alle balene, i numeri dei cetacei catturati dalle baleniere, sono calati a 1325 nel 2012 dai 6700 del 1986, l'anno di introduzione della moratoria sulla caccia.
Merito delle campagne animaliste, degli arrembaggi degli eco-pirati come Sea Shephered, dei tempi che trasformano gusti, sensibilità e necessità, più che di una conversione alla riverenza per la legge.
Norvegia e Islanda, infatti, continuano a violare il divieto internazionale. Mentre il Sol Levante continua a rispettarlo solo formalmente, mascherando la più alacre operazioni di pesca dei cetacei al mondo, con il pretestuoso richiamo alla ricerca scientifica.
Norvegia, Islanda e Giappone insieme, nei 27 anni dall'inizio della moratoria, hanno ucciso quasi 30.000 esemplari, perlopiù balenottere minori. Un'enormità. Ma comunque meno di quante ne venivano eliminate in un solo anno fra le due guerre.
Chissà se avranno notato la differenza laggiù, negli abissi. Già, perché ci sono specie come la balena artica, che arrivano a vivere 200 anni. E potrebbe pure essercene qualcuna che, miracolosamente scampata per tutto questo tempo alle fiocine, ricordi ancora il cruento trambusto che c'era nelle acque fredde del pianeta nel lontano 1925, quando furono introdotte le navi-officina. Con gli arpioni esplosivi, inventati nell'ottocento, e il varo di questi macelli-galleggianti, la caccia grossa era iniziata.
La decimazione dei cetacei schizzò all'inaudita cifra di 40.000 all'anno, mentre i loro corpi venivano depredati come miniere. "Le interiora diventavano corde per racchette e i denti tasti per pianoforte", racconta il britannico Philip Hoare, autore di Leviatano, ovvero la balena (Einaudi 2013), saggio storico-naturalistico-letterario sulla bestia di Melville.
L'olio ricavato dal grasso, che aveva illuminato a lungo le notti dell'uomo, iniziava a essere rimpiazzato dal petrolio. Ma per molto tempo ancora finì in un'infinità di prodotti, (margarina, linoleum, lubrificanti), arricchendo anche Aristotele Onassis. Poi, c'era la carne. Così proteica che il generale americano MacArthur, a capo dell'occupazione del Giappone, pensò bene di usarla per nutrire i giapponesi impoveriti dalla distruzione bellica, avviando la moderna industria baleniera del paese, con tale successo che anche le mense scolastiche iniziarono a proporla.
Oggi, invece, le 5000 tonnellate di carne nei surgelatori della patria dei sushi, sono l'epitome di una follia economica tutta nipponica. Lo scorso anno l'Istituto per la ricerca sui cetacei, responsabile della caccia “scientifica”, ha ammesso che tre quarti del pescato non aveva acquirenti. Del resto la carne dei mastodonti del mare, è ormai prelibatezza offerta da qualche ristorante chic di Tokio o consumata da sparute comunità marinare.
Vuoi per una evoluzione della dieta o delle coscienze, il 90% dei giapponesi non la mangia più. Eppure la guerra al leviatano continua e i contribuenti sono costretti a finanziarla. 7 milioni di euro l'anno. Che probabilmente aiutano anche Tokio a ingrossare il fronte anti-moratoria comprando i voti dei paesi nell' IWC.
Perché il Giappone si ostini a portare avanti una caccia che è un salasso pubblico, è questione che a Greenpeace riassumono nella parola "potere": "E' un favore a un ristretto numero di persone, in un paese dove il ministero della pesca è molto potente".
Così potente che è riuscito anche a dirottare dei fondi della ricostruzione post-tsunami. Un'altra spiegazione la offre Hoare : "I giapponesi consumano l'80% dei tonni rossi pescati nel pianeta. E Tokio difende il diritto a cacciare balene, per non dover cedere in futuro sul tonno o altri pesci a rischio". Ovvero, ammazzare infruttuosamente i cetacei oggi, per continuare a mangiare serenamente sashimi domani.
Il profitto, per l'appunto, è uno dei temi della moral suasion ecologista.
Che vorrebbe vedere abbandonare il whaling per il whale whatching, la caccia per il turismo. L'avvistamento di capodogli e megattere è business da 2 miliardi di dollari nel mondo. Nella sola Islanda, gli escursionisti delle acque artiche sono arrivati a 175.000 nel 2012. E persino in Giappone stanno crescendo del 6% l'anno. Secondo il Fondo Internazionale per il Welfare degli animali.
Dove non è riuscita l'argomentazione animalista, insomma, potrebbe arrivare quella più prosaica del denaro. La stessa che, in parte, sta spingendo i giovani norvegesi a non seguire le rotte dei padri. Delle 200 baleniere attive negli anni 50', solo 20 continuano a cacciare, soddisfacendo quel 5% di cittadini rimasti a mangiare carne di balena.
La demografia marina, però, resta in allarme. Oggi le balenottere azzurre, il più grande mammifero vivente, sono un migliaio: l'1% della popolazione originaria. Quelle nel santuario antartico appena 75. Il precipizio dell'estinzione è a un passo. Eppure noi, arrivati sulla terra ben dopo le regine degli oceani, continuiamo a sapere pochissimo su di loro. Solo dopo aver camminato sulla Luna, siamo riusciti a fotografare una balena nel suo habitat.
La letteratura ne aveva fatto un mostro, anche perché era un mistero. Ora che ci fa simpatia, siamo noi ad apparire ancora come mostri ai suoi occhi.


d. R.

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