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giovedì 30 luglio 2015

Sfatiamo la cultura del superlavoro.

Sto girando per parlare del mio nuovo libro Cambiare passo (in italiano appena pubblicato da Rizzoli), ed è stimolante conoscere persone nuove e ascoltare i loro racconti, su come cercano di destreggiarsi nella nostra cultura del superlavoro e dello sfinimento. "Non ricordo quand'è stata l'ultima volta che non mi sono sentita stanca", mi ha detto una giovane donna dopo la mia conversazione con Sheryl Sandberg alla San Francisco Symphony Hall. Ed è un sentimento che riecheggia in molti, uomini e donne, giovani e vecchi. La domanda che mi sento rivolgere più spesso dai giovani è una variante sul tema : per te che ce l'hai fatta, è facile dire "non lavorate troppo", ma come la mettiamo con quelli di noi che cominciano adesso, e il successo lo inseguono?
È una domanda interessante, all'apparenza logica. Dico "all'apparenza" perché le sue premesse sono viziate da più di un errore. Innanzitutto, una domanda del genere dà per scontato che il successo nel lavoro e quello nella vita siano la stessa cosa. E definire il successo in termini così limitati è proprio una conseguenza di quei parametri imperfetti, che Cambiare passo tenta di farci superare.
Noi siamo più del lavoro che facciamo. Confondere le due cose finisce, presto o tardi, per portare a scelte controproducenti. Il nostro mondo pullula di vittime di questa confusione : individui di enorme successo ma depressi, preda di qualche dipendenza o di disturbi da stress.
Il secondo errore di fondo in quella domanda, è il presupposto che il superlavoro sia l'unica via possibile : anche se per voi il successo professionale è la cosa più importante, privarvi del sonno, non ricaricare mai le batterie, non ritagliarvi mai un po' di tempo per riflettere e stare con le persone care, non è una strategia di carriera sostenibile. Non solo la quantità e la qualità del lavoro sono cose ben distinte, ma a un certo punto - e prima di quanto si creda - finiscono per diventare inversamente proporzionali. Eppure è incredibile quanto questo mito si è radicato.
Quando ho parlato del libro con Oprah Winfrey durante il suo programma Super Soul Sunday, (conversazione che negli Usa andrà in onda per la festa della mamma), lei mi ha raccontato che nei primi anni del suo show lavorava sempre fino a molto tardi, al punto che, tornata a casa, crollava sul letto senza neppure svestirsi.
Certo, si può essere tentati di attribuire il suo enorme successo proprio a quell'eccesso di lavoro, ma, come emerge dalla nostra discussione, è evidente che non è stato così. Oprah ha avuto successo, sia sul fronte professionale che su quello personale, grazie ai suoi fenomenali talenti, alla sua capacità di empatia, al dono di saper raccontare arrivando al cuore delle persone e al desiderio di stimolarle a vivere nel miglior modo possibile. Oprah non è diventata Oprah perché ha lavorato così tanto da non avere la forza di svestirsi la sera. Lo è diventata nonostante questo.
Il che mi fa tornare in mente una storia analoga, quella di Erin Callan, che l'anno scorso ha raccontato al New York Times come è arrivata a diventare direttore finanziario di Lehman Brothers, per poi dimettersi poco prima che la società crollasse. Il lavoro, dice, veniva sempre prima di tutto il resto, anche a scapito del suo matrimonio. Dopo aver lasciato la società Erin era distrutta, e riprendersi le è costato fatica. "Non sapevo che valore attribuire alla persona che ero rispetto a quello che facevo" scrive. "Ero esattamente ciò che facevo".
Ora che ha avuto tempo di riflettere, si rende conto di essere sempre stata più del suo lavoro : "Fino a poco tempo fa pensavo che la mia assoluta concentrazione sulla carriera, fosse l'ingrediente principale della mia riuscita. Ma ora comincio a rendermi conto di essermi sottovalutata. Avevo talento, intelligenza ed energia. Non era necessario essere così estrema. Anzi, lavorando in quel modo, alla lunga, i risultati diminuiscono". E conclude: "Sono convinta che avrei potuto raggiungere risultati simili mantenendo perlomeno un po' più alta la qualità della vita privata".
E il punto è proprio questo : occorre sbarazzarsi dell'idea pericolosa che l'eccesso di lavoro sia un prerequisito essenziale per risultare efficaci e offrire prestazioni di qualità. Perché spesso è vero proprio l'opposto.


Arianna Huffington

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