Sto
girando per parlare del mio nuovo libro Cambiare passo (in italiano appena pubblicato da Rizzoli), ed è stimolante
conoscere persone nuove e ascoltare i loro racconti, su come cercano
di destreggiarsi nella nostra cultura del superlavoro e dello
sfinimento. "Non ricordo quand'è stata l'ultima volta che non
mi sono sentita stanca", mi ha detto una giovane donna dopo la
mia conversazione con Sheryl Sandberg alla San Francisco Symphony
Hall. Ed è un sentimento che riecheggia in molti, uomini e donne,
giovani e vecchi. La domanda che mi sento rivolgere più spesso dai
giovani è una variante sul tema : per te che ce l'hai fatta, è
facile dire "non lavorate troppo", ma come la mettiamo con
quelli di noi che cominciano adesso, e il successo lo inseguono?
È
una domanda interessante, all'apparenza logica. Dico "all'apparenza"
perché le sue premesse sono viziate da più di un errore.
Innanzitutto, una domanda del genere dà per scontato che il successo
nel lavoro e quello nella vita siano la stessa cosa. E definire il
successo in termini così limitati è proprio una conseguenza di quei
parametri imperfetti, che Cambiare
passo
tenta di farci superare.
Noi
siamo più del lavoro che facciamo. Confondere le due cose finisce,
presto o tardi, per portare a scelte controproducenti. Il nostro
mondo pullula di vittime di questa confusione : individui di enorme
successo ma depressi, preda di qualche dipendenza o di disturbi da
stress.
Il
secondo errore di fondo in quella domanda, è il presupposto che il
superlavoro sia l'unica via possibile : anche se per voi il successo
professionale è la cosa più importante, privarvi del sonno, non
ricaricare mai le batterie, non ritagliarvi mai un po' di tempo per
riflettere e stare con le persone care, non è una strategia di
carriera sostenibile. Non solo la quantità e la qualità del lavoro
sono cose ben distinte, ma a un certo punto - e prima di quanto si
creda - finiscono per diventare inversamente proporzionali. Eppure è
incredibile quanto questo mito si è radicato.
Quando
ho parlato del libro con Oprah Winfrey durante il suo programma Super
Soul Sunday,
(conversazione che negli Usa andrà in onda per la festa della
mamma), lei mi ha raccontato che nei primi anni del suo show lavorava
sempre fino a molto tardi, al punto che, tornata a casa, crollava sul
letto senza neppure svestirsi.
Certo,
si può essere tentati di attribuire il suo enorme successo proprio a
quell'eccesso di lavoro, ma, come emerge dalla nostra discussione, è
evidente che non è stato così. Oprah ha avuto successo, sia sul
fronte professionale che su quello personale, grazie ai suoi
fenomenali talenti, alla sua capacità di empatia, al dono di saper
raccontare arrivando al cuore delle persone e al desiderio di
stimolarle a vivere nel miglior modo possibile. Oprah non è
diventata Oprah perché ha lavorato così tanto da non avere la forza
di svestirsi la sera. Lo è diventata nonostante questo.
Il
che mi fa tornare in mente una storia analoga, quella di Erin Callan,
che l'anno scorso ha raccontato al New
York Times
come è arrivata a diventare direttore finanziario di Lehman Brothers,
per poi dimettersi poco prima che la società crollasse. Il lavoro,
dice, veniva sempre prima di tutto il resto, anche a scapito del suo
matrimonio. Dopo aver lasciato la società Erin era distrutta, e
riprendersi le è costato fatica. "Non sapevo che valore
attribuire alla persona che ero rispetto a quello che facevo"
scrive. "Ero esattamente ciò che facevo".
Ora
che ha avuto tempo di riflettere, si rende conto di essere sempre
stata più del suo lavoro : "Fino a poco tempo fa pensavo che la
mia assoluta concentrazione sulla carriera, fosse l'ingrediente
principale della mia riuscita. Ma ora comincio a rendermi conto di
essermi sottovalutata. Avevo talento, intelligenza ed energia. Non
era necessario essere così estrema. Anzi, lavorando in quel modo,
alla lunga, i risultati diminuiscono". E conclude: "Sono
convinta che avrei potuto raggiungere risultati simili mantenendo
perlomeno un po' più alta la qualità della vita privata".
E
il punto è proprio questo : occorre sbarazzarsi dell'idea pericolosa
che l'eccesso di lavoro sia un prerequisito essenziale per risultare
efficaci e offrire prestazioni di qualità. Perché spesso è vero
proprio l'opposto.
Arianna
Huffington
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