Lei
circola in pantaloncini corti, sempre gli stessi, e indossa magliette
sbrindellate. Porta scarpe da ginnastica sdrucite, ciabatte sciatte
oppure niente. Non si pettina mai e non si trucca più. Quando il
super io dotato di senso estetico si risveglia, lei raccoglie le
chiome informi in una coda di cavallo e si sente terribilmente in
ordine. Quando fa la spesa, saluta le cassiere domandando loro come
stiano e si congeda augurando: "Have a good one", sinonimo
di "buona giornata", ma più disinvolto e giovane.
Cucina
hot
dog,
organizza play date con bambini fuori controllo e madri nevrotiche e, dal gelataio,
ordina un cono al gusto di pasta di biscotto con praline dorate
sopra. Insane
Body Challenge
è il nome del corso che frequenta in palestra, insieme a tizi e
tizie come lei, in calzoncini e coda di cavallo.
Il
sabato va al farmers market e compra teste d'aglio ammaccate e biologiche per cifre astronomiche.
Mangia bacche e semi di zucca e guarda il reparto vegano del
supermercato con inconsulto interesse. Continua a depilarsi solo per
un residuo retaggio culturale, destinato, prima o poi, a essere
scardinato dalla convinzione che l'obbligo morale di strapparsi i
peli sia una delle innumerevoli, infide manifestazioni
dell'oppressione di genere e della schiavitù a canoni estetici
retrogradi e nefasti. Sta pensando di iscriversi a un gruppo di
meditazione e al circolo del libro all'angolo.
I
suoi figli sono tre creature allo stato brado. Frequentano campi
estivi in cui imparano a maneggiare serpenti, bacherozzi, api e
funghi velenosi. Parlano, come piccoli Zelig,
la lingua di Paolino Paperino, con lo stesso inquietante accento del
pennuto. Mangiano gelatina alla menta con l'arrosto e spalmano burro
di arachidi sulle banane. Raccolgono, pagati a cottimo, vermi per il
compost della vicina di casa e la sera, prima di cena, guardano un
terrificante programma in tv che si chiama American
Ninja Challenge,
dove nerboruti signore e signori, convinti di essere tartarughe
guerriere, si sottopongono a prove fisiche inumane e umilianti.
Questi
quattro tizi, vittime di una spaventosa metamorfosi e di pericolose
derive yankee, siamo noi, alla nostra sesta estate nella città di
A., tra i boschi del Massachusetts, dove, mentre il pater
familias
economista marxista lavora per l'abbattimento del capitalismo
globale, ci lasciamo risucchiare dalle lusinghe della provincia
rurale e fricchettona americana.
Il
problema è che siamo, tutti noi, per natura, indole, necessità e
spirito di sopravvivenza, creature duttili. Come spugne, ci
impregniamo dell'ambiente che ci circonda e finiamo per
assomigliargli prima ancora di prenderne coscienza. Le radici, forse,
restano altrove ma parole, abitudini, gesti e aspetto cambiano
rapidamente. È un gioco, un esercizio, il tentativo, destinato
comunque al fallimento, di sembrare meno alieni di quel che siamo, di
sentirci un po' più uguali, inseriti, simili. Siamo bravissimi a
sentirci a casa. Siamo professionisti dell'adattamento,
dell'aggiustamento e dell'accomodamento.
Quanto
tempo ci vorrebbe per diventare quello che non siamo? Probabilmente
meno di quanto pensiamo. Tutto questo mi meraviglia e mi terrorizza.
Saremmo capaci di cambiare anche la sostanza? Non so e non voglio
saperlo.
Per
fortuna, noi abbiamo lui : il monito, il detentore dell'essenza, il
bacchettone, l'integerrimo. Mentre noi ci abbandoniamo
all'acclimatamento selvaggio, vendendo la nostra anima e i nostri
vermi alla vicina di casa vegana, mio marito vigila e reprime la
mescolanza etnica. Lui è l'eccezione che conferma la regola. Lui è
barese e nient'altro, incorruttibile e fedele alle sue gloriose
origini.
Lui
consuma taralli, sforna focacce pugliesi, cerca l'olio bitontino e
sogna le cime di rapa. Ascolta rapper salentini e aspetta la notte
della taranta. E ci guarda sprezzante come si guardano i traditori,
("Vergognatevi! Siete passati al lato oscuro della forza!").
Lui
ci mantiene ancorati a quello che siamo. Forse dovremmo essergli
grati.
“Elasti”
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