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mercoledì 6 maggio 2015

Festa della mamma. La vertigine di fare la storia con i se e con i ma.

Quando ero piccola, ero piuttosto brava a scuola. Ero diligente, perfezionista e un po' secchiona. Ero educata, mite, timida ai limiti della patologia, ombrosa quanto basta, assennata, talmente pallida da essere terrorizzata persino dai clown al circo e dai gorghi nella vasca da bagno quando l'acqua scende nello scarico.
Soffrivo di mal di mamma, di mal di scuola e di mal di macchina. Non ero molto dotata negli sport e quelli con la palla, in particolare, mi davano un'enorme ansia. Anche l'atletica, ora che ci penso, mi inchiodava implacabile alla mia inguaribile inettitudine. Ero graziosa ma non abbastanza per comparire nella turpe e vagheggiata classifica della più carina della classe. Avevo qualche timido corteggiatore, ma mai appartenente all'ambita e spesso deviante categoria dei maschi alfa.
Per quelle come me, introverse, riflessive e afflitte da una vita interiore ipertrofica ma crepuscolare, l'infanzia non è stata una scampagnata. Ho il sospetto che mia madre, per natura sicura, determinata e risoluta come uno schiacciasassi, guardasse quella bambina fragile e impaurita, così poco attrezzata nell'infida arte dello stare al mondo, con preoccupazione, perplessità e una buona dose di scoramento.
Per fortuna si cresce, le spalle si fanno più larghe, si scoprono, dentro e fuori, risorse strumenti per non farsi travolgere dalla corrente, si impara a nuotare e si finisce per prenderci gusto fino a decidere che sì, in fin dei conti la vita una cosa bella, che va condivisa.
Ed ecco che, dimentica della mia infanzia e della montagna aspra che mi è toccato scalare, mi sono, con una buona dose di incoscienza, replicata tre volte, in tre tizi altri da me, per genere, indole e talenti, e attualmente sono immersa fino al collo in tre infanzie tanto diverse e lontane da quella che fu la mia. E forse, proprio per questo, tanto affascinanti.
Ho scoperto così un aspetto entusiasmante, arricchente e insidiosissimo dell'essere genitori, che non avevo mai considerato.
Un aspetto irresistibile, come una magia, da maneggiare tuttavia con enorme cura e attenzione, per non fare e non farsi male, da godersi con generosa partecipazione che talvolta può virare in passione.
"Mi ha detto che mi ama", racconta mio figlio grande, 11 anni, con una gravità beffarda. "E tu cosa le hai risposto?". "Che deve aspettare perché anche Martina e Giuliana me lo hanno detto. E devono darmi il tempo per decidere. Anche se forse non scelgo nessuna e me ne sto tranquillo a giocare con Pietro che mi diverto di più".
Leggero, superficiale, sereno. Lo ascolto, catturata da quella maschia noncuranza. E penso a me che al cospetto della prima dichiarazione, unica e quindi preziosissima seppur non corrisposta, su un pullman, da parte di un ragazzetto riccioluto e molto nerd, al rientro di una gita in quinta elementare, mi sentii morire, mi si chiuse lo stomaco e soffrii di insonnia per tre giorni.
Mio figlio di mezzo e i suoi capelli pazzi hanno chiesto se possono essere adottati dalla famiglia del suo amico Stefano, o almeno passare le vacanze di agosto insieme a loro. "Voi restate la mia prima famiglia e non vi dimenticherò", ci rassicura lui, impavido e vagabondo. Alla sua età per me era un dramma persino andare a una festa di compleanno di coetanei e la prospettiva di passare una notte fuori casa era paragonabile al patibolo.
Essere genitori è come stare al cinema, tutti i giorni. Guardare il mondo con occhi, testa e cuore altrui, ma anche un po' propri. È il privilegio di vivere altre vite, osservando loro, i figli, rigorosamente altro da noi ma con qualche pezzo in comune. È la vertigine di fare la storia con i se e con i ma.
Basta non lasciarsi prendere la mano, resistere alla tentazione di un'invasione di campo, rispettare gli abissi che separano noi e loro, riconoscere il filo che ci lega. Se si riesce nell'ardua impresa di tenere le distanze, lo spettacolo può essere il migliore e il più istruttivo mai visto.


Elasti” 

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