Quando
ero piccola, ero piuttosto brava a scuola. Ero diligente,
perfezionista e un po' secchiona. Ero educata, mite, timida ai limiti
della patologia, ombrosa quanto basta, assennata, talmente pallida da
essere terrorizzata persino dai clown al circo e dai gorghi nella
vasca da bagno quando l'acqua scende nello scarico.
Soffrivo
di mal di mamma, di mal di scuola e di mal di macchina. Non ero molto
dotata negli sport e quelli con la palla, in particolare, mi davano
un'enorme ansia. Anche l'atletica, ora che ci penso, mi inchiodava
implacabile alla mia inguaribile inettitudine. Ero graziosa ma non
abbastanza per comparire nella turpe e vagheggiata classifica della
più carina della classe. Avevo qualche timido corteggiatore, ma mai
appartenente all'ambita e spesso deviante categoria dei maschi alfa.
Per
quelle come me, introverse, riflessive e afflitte da una vita
interiore ipertrofica ma crepuscolare, l'infanzia non è stata una
scampagnata. Ho il sospetto che mia madre, per natura sicura,
determinata e risoluta come uno schiacciasassi, guardasse quella
bambina fragile e impaurita, così poco attrezzata nell'infida arte
dello stare al mondo, con preoccupazione, perplessità e una buona
dose di scoramento.
Per
fortuna si cresce, le spalle si fanno più larghe, si scoprono,
dentro e fuori, risorse strumenti per non farsi travolgere dalla
corrente, si impara a nuotare e si finisce per prenderci gusto fino a
decidere che sì, in fin dei conti la vita una cosa bella, che va
condivisa.
Ed
ecco che, dimentica della mia infanzia e della montagna aspra che mi
è toccato scalare, mi sono, con una buona dose di incoscienza,
replicata tre volte, in tre tizi altri da me, per genere, indole e
talenti, e attualmente sono immersa fino al collo in tre infanzie
tanto diverse e lontane da quella che fu la mia. E forse, proprio per
questo, tanto affascinanti.
Ho
scoperto così un aspetto entusiasmante, arricchente e insidiosissimo
dell'essere genitori, che non avevo mai considerato.
Un
aspetto irresistibile, come una magia, da maneggiare tuttavia con
enorme cura e attenzione, per non fare e non farsi male, da godersi
con generosa partecipazione che talvolta può virare in passione.
"Mi
ha detto che mi ama", racconta mio figlio grande, 11 anni, con
una gravità beffarda. "E tu cosa le hai risposto?". "Che
deve aspettare perché anche Martina e Giuliana me lo hanno detto. E
devono darmi il tempo per decidere. Anche se forse non scelgo nessuna
e me ne sto tranquillo a giocare con Pietro che mi diverto di più".
Leggero,
superficiale, sereno. Lo ascolto, catturata da quella maschia
noncuranza. E penso a me che al cospetto della prima dichiarazione,
unica e quindi preziosissima seppur non corrisposta, su un pullman,
da parte di un ragazzetto riccioluto e molto nerd, al rientro di una
gita in quinta elementare, mi sentii morire, mi si chiuse lo stomaco
e soffrii di insonnia per tre giorni.
Mio
figlio di mezzo e i suoi capelli pazzi hanno chiesto se possono
essere adottati dalla famiglia del suo amico Stefano, o almeno
passare le vacanze di agosto insieme a loro. "Voi restate la mia
prima famiglia e non vi dimenticherò", ci rassicura lui,
impavido e vagabondo. Alla sua età per me era un dramma persino
andare a una festa di compleanno di coetanei e la prospettiva di
passare una notte fuori casa era paragonabile al patibolo.
Essere
genitori è come stare al cinema, tutti i giorni. Guardare il mondo
con occhi, testa e cuore altrui, ma anche un po' propri. È il
privilegio di vivere altre vite, osservando loro, i figli,
rigorosamente altro da noi ma con qualche pezzo in comune. È la
vertigine di fare la storia con i se e con i ma.
Basta
non lasciarsi prendere la mano, resistere alla tentazione di
un'invasione di campo, rispettare gli abissi che separano noi e loro,
riconoscere il filo che ci lega. Se si riesce nell'ardua impresa di
tenere le distanze, lo spettacolo può essere il migliore e il più
istruttivo mai visto.
“Elasti”
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