est consulting

est consulting
Il primo portale dedicato all'investitore italiano in Rep. Ceca e Slovacchia

mercoledì 21 agosto 2013

Vegani e onnipotenza.

Sarà capitato anche a voi, di trovarsi alla cassa di un alimentari biologico, avere dimenticato di portare da casa la sporta biodegradabile e sentirvi circondati da sguardi gelidi, mentre chiedete a bassa voce: "Un sacchetto". O di essere seduti al ristorante di fianco a una coppia, che domanda al cameriere dettagliate informazioni sulla vita vissuta dal pollo che vorrebbero ordinare, e di vedere che si rilassano solo quando hanno saputo che il pollo, che si chiamava Alex, era stato allevato con latte di capra, soia e asparagi selvatici.
Loro, rilassati, perché voi invece siete raggiunti dal dubbio se ridere, o sentirvi piuttosto insensibili e anche un po' ignoranti. Ma se di fronte alle virtù esibite da vegani, fruttariani, crudisti, fedeli amanti del Bio e dell'organico, di patiti di menù ricchi di rintracciabilità, pur riconoscendo necessità ambientali e valore etico delle loro scelte, oltre alle differenze sostanziali tra le diverse tribù della nuova alimentazione, vi siete sentiti un po' snobbati, guardati dall'alto e con un misto di sacralità e supponenza, una ragione, a quanto pare c'è.
Non si tratta del primo studio a sostenere che, dietro l'alone del consumatore verde, si nasconde un cuore poco empatico, ma la recente ricerca del giovane psicologo Kendall Eskine della Loyola University di New Orleans, nata per cercare le conseguenze morali derivanti dall'esposizione al cibo organico, ha suscitato scalpore.
L'abstract della sua ricerca, pubblicata sul Journal of Social Psycological and Personality Science, è uno dei testi più analizzati dai siti di opinione del 2012. Il perché, come la ricerca, è semplice: divisi i soggetti dell'esperimento in tre gruppi, Eskine ha mostrato e fatto valutare al primo solo cibi organici e di poco sapore, al secondo gruppo comfort food, cioè piacevoli schifezze che fanno male al fisico ma bene all'umore, e al terzo gruppo ha assegnato cibi neutrali.
Poi ha chiesto a ciascuno dei gruppi due cose: esprimere, dopo aver ascoltato brevi storie emblematiche, il proprio giudizio su comportamenti trasgressivi; in seguito, di offrirsi volontari per un lavoro poco gratificante e non pagato.
Risultato: gli "organici" si sono mostrati più spietati nei giudizi e indisponibili ad aiutare l'altro. "C'è qualcosa nella scelta organica che fa sentire migliori e comportare peggio", deduce Eskine, raggiunto nel frattempo da numerose mail di protesta e accuse di essere pagato dall'industria alimentare americana. "Scegliendo organico, è come se a quel punto avessero già compiuto il loro dovere, e potessero quindi permettersi comportamenti poco etici e asociali".
In tempi di emergenza obesità, (negli Stati Uniti un bambino su quattro ha già sviluppato una forma pre-diabetica), si guarda sempre di più nel piatto dell'altro e a farlo sono soprattutto le istituzioni, (Disney e Michelle Obama alleati contro il junk food, il sindaco di New York, Bloomberg, schierato contro le mega confezioni di bevande zuccherate; misure simili in mezza Europa).
In questi casi è l'autorità a occuparsi del contenuto del piatto; quella che manca, è la responsabilità personale del consumatore. Per proteggere la propria salute partendo dal carrello della spesa, è indiscutibile che la scelta bio e organica sia più sana di quella industriale. Ma questa scelta sembra produrre anche altre conseguenze. Di fronte alla generale avanzata organica, vegana, anti carne - almeno in quasi tutti i paesi che se lo possono permettere, in Italia per esempio, secondo l'Eurispes il 10% della popolazione, il 13,5% tra i ragazzi, è ormai vegetariano, un piccolo ma determinato 0,4% vegano - come cambiano psicologia e comunicazione, come si modificano i rapporti tra i diversi tipi di consumatori?
La scoperta di Eskine è un contributo sia per migliorare chi si sente già migliore, sia per spingere l'industria bio a evitare nella sua comunicazione troppi riferimenti alla purezza, all'onestà e sincerità dei prodotti, come fossero valori esclusivi e trasmissibili. "Ho voluto capire", continua lo psicologo, "in che modo scelta del cibo organico e morale, convivono e si influenzino. Il termine da tenere a mente è moral licensing, (licenza morale) : in psicologia descrive la condizione in cui una persona si ritiene, sulla base delle scelte già compiute, nel giusto, e si autorizza, di conseguenza, a comportamenti opposti. Chi mangia cibi senza pesticidi o per i quali non è stato fatto del male a nessun essere vivente, si sente superiore. Come se insieme al cibo più onesto, avesse comprato anche un bonus di moralità, da spendere poi in altri campi".
Un po' la stessa attitudine di quei ciclisti che, ritenendosi nel giusto, pensano di poter guardare dall'alto al basso appiedati e guidatori. A risultati simili era già arrivata anche Nina Mazar, ricercatrice dell'Università di Toronto, che aveva dimostrato come gli acquirenti di cibo organico, siano addirittura più propensi al furto e alla menzogna dei consumatori di merendine e junk food.
"Mi hanno accusato di tutto dopo questa ricerca", conclude Eskine, per molti anni vegetariano, "ma capisco l'animosità: si tratta di un movimento nuovo e che si deve affermare. Mi accontenterei se alla fine forse il marketing a cambiare, e si smettesse di proclamare quanto sei straordinario se scegli alimenti bio". Un po' di confusione nasce anche da come interpretiamo le etichette. Sappiamo, per esempio, che tutto quello che ha pochi grassi e più sano. Le bevande gassate, che pure sono prive di grassi, bene non fanno. Forse, come dice uno dei più noti dietologi americani, Mark Hyman, l'ideale sarebbe di evitare cibi con promesse di benessere sull'etichetta, o ancor meglio, evitare tutti quelli con l'etichetta. Dagli onnivori cui eravamo abituati a ritenerci da piccoli, ci stiamo lentamente trasformando in vegetariani, ma non di un tipo solo: ci sono "pescetariani", "latto-ovo-tariani", ecc.
Ci sono eccessi opposti e si contano prime vittime dell'"ortoressia", (l'appetito per cibi giusti), sindrome identificata dal clinico statunitense Robert Bratman e che riguarda chi è ossessionato dalla ricerca di cibo organico puro, al punto di diventarne dipendente.
Da parte loro vegetariani e vegani sono allarmati per la diffusione in Italia della "vegefobia", (definita “volontà di farci vergognare della nostra preoccupazione per gli animali”), o “paura dei vegetariani”, come scrivono sul loro sito, dove hanno pubblicato i risultati di una ricerca su come vegetariani e vegani sono trattati dalla stampa italiana: su quasi 400 articoli analizzati, il 74,3% contiene giudizi negativi.
Che non sia una rivoluzione totalmente pacifica, lo dimostra anche la reazione della medicina ufficiale russa, che alla crescita del movimento vegano cerca di opporsi con fermezza. Attraverso un comunicato del dietologo di Stato di San Pietroburgo, il dottor Dotsenko, ha lanciato pesanti anatemi. Dall'altra parte del mondo, uno dei libri che più hanno fatto per spingere il consumatore verso un'etica dell'alimentazione è “Se niente importa”, di Jonathan Safran Foer.
Appartiene ai preconcetti immaginare il romanziere mentre, alla cassa di un negozio biologico, nega il sacchetto con aria virtuosa?

Michele Neri

Nessun commento:

Posta un commento