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lunedì 15 agosto 2016

Modi di dire 26

Si dice . . . “portare le arance in carcere”

L'espressione “portare le arance in carcere” a qualcuno, spesso ha un valore di dissuasione, per esempio: “Non tentare quell'azzardo! Non voglio portarti le arance in galera”. Il modo di dire deriverebbe dal fatto che un tempo il vitto delle prigioni, specie nell'800 e primo 900, era molto povero di alimenti freschi, in particolare di frutta e quindi i detenuti soffrivano di gravi carenze vitaminiche, in particolare di vitamina C, PP e D, (per la non esposizione alla luce solare), con conseguente rischio di gravi malattie come lo scorbuto. Un celebre trattato medico del 1813, sottolineava infatti come lo scorbuto fosse epidemico soprattutto negli ospedali, nelle carceri e sulle navi. Erano dunque parenti e amici a rifornire i carcerati di frutta e in particolare di agrumi, ottimi per prevenire la malattia.


Si dice . . . “sudare sette camicie”

Vuol dire fare una fatica tremenda per ottenere qualcosa. Il modo di dire è antico e con variazioni: le camicie citate potevano anche essere 3, 4 o 9. Lo scrittore toscano del '500 Francesco Berni scriveva per esempio: “Sudaron tre camicie e un farsetto” (Rime 1, 5). L'affermarsi del numero 7 è legato all'antico valore magico e arcano della cifra, che esprimeva una lunga sequenza; si va dai biblici sette giorni in cui Dio creò il mondo, (nell'ultimo si riposò), ai sette cieli, alle sette vite dei gatti, alle sette meraviglie del mondo, ai sette peccati capitali, ai sette colli e ai sette re di Roma ecc. Ha alto valore simbolico il fatto che, Eracle, morì non riuscendo a togliersi una camicia, (o tunica), avvelenata dal sangue del centauro Nesso.


Si dice . . . “troppa grazia Sant'Antonio!”

E' l'esclamazione ironica di chi ha ottenuto più di quanto desiderava, con risultati persino controproducenti. Associata alla frase vi è una leggenda popolare che racconta di un commerciante che, arricchitosi dopo una vita difficile, potè realizzare il suo sogno: comprarsi un cavallo. Quando però si trattò di montarvi in groppa, l'uomo si rese conto che a causa delle sue gambe troppo corte, non riusciva a darsi lo slancio per salire in sella. Dopo alcuni tentativi falliti il commerciante supplicò l'aiuto di Sant'Antonio, amico nelle situazioni difficili. Spiccò allora un nuovo balzo, ma mise stavolta tanta forza che scavalcò la groppa dell'animale e cadde dall'altra parte. A questo punto il poveretto esplose nell'esclamazione.


Si dice . . . “essere il grande vecchio”

La definizione di “grande vecchio” ha un senso ambiguo: può indicare un anziano leader carismatico con una prestigiosa storia alle spalle, quindi un punto di riferimento per tutti nel suo campo, ma si usa anche per indicare la figura di un “burattinaio”, regista occulto di un progetto politico, una setta religiosa o un'organizzazione criminale. Fu molto usato negli anni '80 per riferirsi a un supposto organizzatore della cosiddetta “strategia della tensione”. All'origine del motto c'è la figura del Vecchio della Montagna, definizione di Marco Polo per al-Hasan ibn as-Sabbah (1034-1124), leggendario leader musulmano ismailita. In Persia la sua setta, i Nizariti, per affermarsi praticava l'omicidio politico mirato, per cui il nome dei seguaci del vecchio capo, heyssessin, dette origine al termine assassini.



Si dice . . . “Paganini non ripete”

La frase “Paganini non ripete” viene usata con ironia da chi rifiuti l'invito di replicare quanto abbia già detto o fatto. Il riferimento del motto è a quanto accadde una sera del febbraio del 1818, al Teatro Carignano di Torino. Quella sera Carlo Felice, vicerè di Sardegna, dopo avere assistito a un concerto di Niccolò Paganini (1782-1840), uno dei più grandi violinisti di tutti i tempi, fece pregare il maestro di replicare un brano che aveva molto gradito. Il musicista genovese, grande improvvisatore in tutte quante le sue esecuzioni e quindi non avvezzo alle repliche, fece inviare al futuro re il messaggio: “Paganini non ripete”. Quel rifiuto costò al musicista il permesso di eseguire un terzo concerto, in programma sempre a Torino e lo indusse a lasciare per anni il Regno di Sardegna.


Si dice . . . “andare a zonzo”

Significa andare in giro, vagare senza porsi una meta precisa, anche per semplice divertimento. L'espressione è piuttosto antica e si ritrova già nel XVI secolo, ma non si conosce con precisione l'etimologia del termine “zonzo”. L'ipotesi più accreditata è che si tratti di una parola onomatopeica, che cioè voglia ricordare il ronzio emesso da mosche e mosconi durante il loro volo notoriamente irregolare, imprevedibile e in apparenza senza scopo. Secondo alcuni linguisti invece il termine deriverebbe da “gironzolare”, letteralmente farsi dei piccoli giri. Per qualche altro infine si tratta di un termine volutamente privo di significato, il nome di una località inesistente che giustifichi ironicamente il girovagare a vuoto.


Si dice . . . “fare il terzo grado a qualcuno”

Indica un interrogatorio duro e incalzante o una lunga serie di domande anche indiscrete, da parte di chi interroga. L'origine di questo modo di dire è incerto, ma esistono due ipotesi plausibili. Una fa riferimento ai tre gradi di giudizio del processo, l'ultimo dei quali, il più importante, si tiene in Italia davanti alla corte di Cassazione e in cui un eventuale interrogatorio è decisivo. L'altra si lega ad un episodio di storia di Francia: quando il re Filippo il Bello nel 1307 decise, per i suoi interessi, di sciogliere il ricco e potente ordine cavalleresco dei Templari, riuscì a estorcere ai cavalieri confessioni infamanti o informazioni sui tesori nascosti con interrogatori crudeli e torture. I templari avevano 3 gradi gerarchici: apprendisti, compagni e maestri; proprio gli appartenenti al “terzo grado” subirono i trattamenti più tremendi, che spesso terminavano con il rogo.


Si dice . . . “processo per direttissima”

Il processo per direttissima o, correttamente “giudizio direttissimo”, è un procedimento penale speciale in cui mancano l'udienza preliminare e la fase predibattimentale. Le condizioni richieste per procedere con questo tipo di giudizio sono l'arresto in flagranza di reato, (ossia mentre il reato viene commesso) e la confessione del reo. In questo caso su richiesta del pubblico ministero l'imputato, se l'arresto è valido, può essere giudicato entro 48 ore. Se l'arresto non viene convalidato il giudizio può avvenire antro 30 giorni dal fermo, ma se P.M. e imputato sono d'accordo. Organo giudicante è in genere il “tribunale monocratico”, composto da un solo magistrato.


Si dice . . . “prendere con le molle”

La frase fatta “prendere con le molle”, o anche “con le pinze”, si riferisce a una situazione o a una persona da trattare con estrema cautela, prudenza e attenzione, poiché da essa potrebbero derivare guai o danni. Viene usata anche per indicare affermazioni o informazioni, che si ritengono poco attendibili e a cui è meglio non credere prima di un'attenta verifica. Le molle citate nella frase, sono l'attrezzo adoperato per maneggiare i tizzoni ardenti nel camino, il tutto a sottolineare la circospezione con cui è necessario trattare qualche cosa “che scotta” e che potrebbe metaforicamente ustionare l'interessato.


Si dice . . . “porto delle nebbie”


La definizione di “porto delle nebbie” si diffuse negli anni 80', in riferimento alla Procura della Repubblica di Roma, a causa di una serie di episodi poco chiari e di insabbiamenti di inchieste giudiziarie. Il modo di dire si usa ancora oggi a indicare uffici o sportelli in cui scompaiono pratiche oppure non si dà seguito a istanze. Il riferimento è al titolo italiano del film di Marcel Carnè, Le Quai des brumes (1938), con Jean Gabin e Michèle Morgan, ispirato al romanzo di Pierre Mac Orlan (1927). Ma nella sua struttura è più aderente al detto il quasi omonimo romanzo poliziesco, Le port des brumes di Georges Simenon (1932). Qui il protagonista, il commissario Maigret, per risolvere un caso di omicidio, si scontra con un muro di omertà eretto dagli abitanti di un piccolo porto della Normandia.

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