Era
un lunedì mattina come gli altri. Stavo andando a scuola, con i miei
figli. Si parlava del perché, dopo la pioggia, lungo quel tragitto,
spuntano tanti vermi - ne avevamo contati 52 e non eravamo neppure a
metà strada -, dei vantaggi di una vita da vampiro, della
superiorità del cioccolato rispetto ogni altra sostanza commestibile
nell'universo e di altre simili faccende metafisiche, che
abitualmente occupano le nostre conversazioni in quei 15 minuti.
Una
vibrazione nella tasca. Un SMS della mia amica Alessandra. Un oscuro
presagio dell'incubo che mi avrebbe inghiottito di li a breve. "Credo
che tu abbia un virus nella posta elettronica. Controlla".
"E
tra il Gianduja e il bianco?". "..." "Mamma che
c'è?". "Niente". "Allora perché non mi
rispondi?". "Scusa, qual'era la domanda?".
Mentre
disquisivamo di vermi, vampiri e cioccolato, dal mio account era
partito, a mia insaputa, un messaggio che aveva raggiunto tutti i
miei contatti : mia madre, mia suocera, il capo del personale
dell'ufficio, le maestre dei miei figli, un vicino di casa, il fabbro
e la mia ex estetista, gli amici, Andrea Bernasca che mi faceva
copiare le versioni di greco al liceo, un'imprenditrice che produce
liquirizia, l'elettrauto. Insomma tutti quanti, vicini e lontani.
"Mi
trovo casualmente a Liverpool. Ho perso il portafoglio e la Trebisonda. Vorrei tornare a casa ma non ho una lira in tasca.
Pertanto, amici miei che abitate nel mio cuore oltre che nel mio
indirizzario, mandatemi un po' di soldi. Un giorno, forse, ve li
restituirò. Per sempre vostra e grata Elasti". Questo era il
senso di quel messaggio. Bizzarro, certo. Vagamente imbarazzante.
Piuttosto implausibile. Soprattutto prodromo di successivi nefasti
eventi.
Il
virus o il genio del male che mi ha spedita a Liverpool, subito dopo
ha cambiato i connotati e le credenziali del mio account in modo da
renderne impossibile il suo recupero, e, infine, lo ha cancellato e
ridotto in cenere.
Dentro
quella casella di posta elettronica c'erano i miei ultimi cinque
anni, oltre agli indirizzi della mamma, del Bernasca, del fabbro e di
moltissime altre persone per me fondamentali. C'erano i carteggi,
spesso demenziali, tra me e mio marito, le comunicazioni tra i
genitori della V C, corrispondenza di lavoro, fotografie, ricordi, i
messaggi di mio papà che non c'è più, gli inviti alle feste
dell'asilo, le liste della spesa, gli amori di un'amica single, le
congratulazioni per un bambino appena nato, fotografie, filmini.
C'era la mia vita.
Certo,
una vita che non si mangia, non si annusa e non si può toccare, ma
non meno densa e importante.
Mi
sono rivolta a Google, ho riempito moduli, ho spedito dichiarazioni
in cui giuravo che io sono io, mi sono iscritta a ferventi forum di
sventurati, vittime, come me, di questa beffa crudele e criminale.
Sono
stata assalita dal panico. E quando ho preso coscienza, alla luce
dell'esperienza altrui e del vuoto in cui cadevano le mie richieste
di aiuto, che quella scatola con cinque anni dentro era stata
inghiottita da un buco nero e difficilmente qualcuno me l'avrebbe
restituita, il panico ha lasciato il posto a uno sconforto incredulo
e lacrimoso e a un senso di perdita rabbioso e miserabile.
Non
pensavo si potesse stare così male per una stupida, seppur vitale,
casella postale. Non avevo capito quanto fossero interconnessi il
mondo fuori e quello dentro una casella.
Ero
convinta che ci fosse un posto in cui stare tranquilla, un
inespugnabile backup di me stessa. Mi sbagliavo, ci sbagliamo in
tanti a fidarci, a sparpagliare pezzi importanti di noi qui e lì
senza riunirli e fare l'appello con regolarità, a sopravvalutare una
password che si chiama come il gatto.
Ora
sono uscita dal lacrimoso sconforto. Forse un po' più forte,
certamente più saggia. Mi consolo con la contemplazione, insieme ai
miei figli, dei vermi tra casa e scuola, con lo studio della vita
felice dei vampiri e, naturalmente pensando alle inespugnabili,
quelle sì, scorte di cioccolato nella dispensa.
Claudia
“Elasti” De Lillo
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