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venerdì 24 marzo 2017

Addio Monnezza. E' morto Tomas Milian.

Er Cubbano de Roma nun c’è ppiù. Tomas Milian se n’è andato il 22 marzo a Miami, il suo approdo statunitense, dall’isola natia prima e dall’Italia poi, che per lui è stata una matrigna tutta particolare: l’ha portato alle stelle senza dargli mai la vera gloria e dopo lo ha scordato senza troppi complimenti.
Dei morti, specie di quelli illustri, non si può dire che bene. Nel caso di Milian, amato più dal pubblico che dalla critica e apprezzato per la sua estrema professionalità più dai registi di mestiere che dagli autori, il bene è meritato.
Ma senza le ipocrisie, che invece sono traboccate sulla stampa più mainstream: Il cinema lo piange, Il cinema è in lutto, ha titolato in tutta fretta più d’uno, abituato a credere che le tecniche di titolazione contengano verità autonome.
In realtà, quelli che l’hanno pianto sono gli stessi che, a partire dagli anni ’90, avevano tentato di rivalutarlo, meglio ancora di dargli il posto che gli spettava nella storia di quel cinema italiano, anche di serie b, che sapeva parlare un linguaggio internazionale e del quale Milian fu è stato un volto di primo piano.
Da Lattuada, Zeffirelli e Visconti al trash: con questa breve formula si è tentato di sintetizzare una carriera che di sicuro avrebbe meritato più attenta analisi.
Tormentato, pensoso e coltissimo, Er Cubbano è stato tra i migliori della composita legione straniera di attori che furoreggiò a Cinecittà tra la seconda metà dei ’60 e i primi ’80. Era in buona compagnia: dei grandi (l’immenso Klaus Kinski, il bravissimo Helmut Berger, il tosto Mario Adorf e l’angelico Lou Castel), dei belli (Ray Lovelock, Chris Avram, Luc Merenda, George Hilton e Gianni Garko) e dei semplicemente bravi (Henry Silva e Frank Wolff) e si trovata a suo agio con tutti e in tutte le situazioni.
Per i più, specie per i coatti che lo consideravano un modello e un nume tutelare, Milian è stato Er Monnezza, Er Gobbo, Er Trucido e Nico Giraldi. In poche parole, un’icona del trash più viscerale e genuino. Però, al netto dei soliti sociologismi, occorre prendere atto che lui, da cubano, è riuscito a fare una cosa che non è riuscita neppure ai suoi colleghi italiani: interpretare una certa idea di romanità fino a incarnarla ed esportarla fuori da quelle borgate a cui si era ispirato.
Ma, sempre per restare al cinema popolare, Milian prima ancora è stato Curchillo, il bandito messicano ignorante, analfabeta, buono e furbo. Sia che recitasse con la sua voce, gettonatissima nei western grazie all’accento latino, sia che se la facesse prestare da Ferruccio Amendola, Er Cubbano tirava sempre e caratterizzava al massimo ogni ruolo.
Un camaleonte raro e bravissimo e forse non sarebbe scorretto il paragone con Gian Maria Volonté. Probabilmente per questo fu efficacissimo anche nei ruoli più nazionalpopolari, che erano il prodotto di uno studio attento della psicologia di quartiere, non dissimile da quello praticato da Alberto Sordi e Carlo Verdone.
La carriera italiana di Milian terminò a metà anni ’80 col declino del cinema di genere, di Cinecittà e delle sale, e fu sepolta nei ’90 quando la produzione, grazie anche ai finanziamenti pubblici, finì in mano ai radical chic.
Solo quelli di Nocturno Cinema, impegnati a partire dalla fine del millennio a riscoprire e rivalutare il cinema italiano dei ’70 e a toglierlo dal ghetto delle seconde serate, si ricordavano di lui, che in America aveva costruito una seconda carriera al seguito dei big.
Le lacrime sono giuste, anche se nei suoi confronti sembrano non poco di coccodrillo. Sarebbero più sincere se fossero dedicate anche al nostro cinema, che è morto prima di lui.

Saverio Paletta

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