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domenica 15 giugno 2014

Presteresti la tua casa ad uno sconosciuto ?

Ho sempre pensato che fosse una pratica bellissima. Ho sempre ammirato tutti coloro che lo fanno. Perché, diciamocelo, occorre essere generosi, curiosi, aperti, incuranti, rilassati e impavidi. Perché bisogna avere una grande disponibilità a condividere, e a mettersi in gioco. Perché è necessario affrancarsi da quell'attaccamento insano alle cose. Perché non bisogna avere paura di perdere pezzetti di sé, condividendo i propri oggetti nella propria tana.
Ho sempre pensato che scambiare la propria casa con quella di sconosciuti, affittare, o, ancora meglio, prestare i luoghi in cui si vive abitualmente a qualcuno di cui non sai nulla, sia un atto di libertà. Perché, in fondo, quel senso di possesso esclusivo e viscerale rende tutti un po' schiavi.
Ho sempre predicato bene e razzolato malissimo. Io, casa mia, non l'ho mai scambiata con nessuno, non l'ho mai prestata a ignoti né tantomeno affittata a estranei paganti. Casa mia è mia, mi dice la pancia. E mio il letto in cui dormo, sono mie le lenzuola, mio il cuscino, mio il bagno, miei i cassetti, mie le memorie e la biancheria che ci stanno dentro, mio il comodino con sopra il romanzo che sto leggendo, mio il divano, mie le fotografie che raccontano la mia storia, mio il tavolo della cucina, mia la libreria, mio il rosso psichedelico con cui ho dipinto la parete della sala da pranzo, mia l'aria sopra il mio pavimento e sotto il mio soffitto. Non va bene.
Sono territoriale come un gatto, possessiva e gelosa come la più nevrotica delle massaie, meschina come chi non riesce a elevarsi oltre il proprio ombelico.
Anche quest'anno trascorriamo l'estate nella città di A, in Massachusetts, dove mio marito lavora tra economisti marxisti ed emarginati come lui: e noi - prole ed io - cerchiamo il nostro ubi consistam, con alterni risultati.
"Paul, il mio collega, ci presta casa sua. Starà via tre mesi. Dice che gli fa piacere se stiamo da lui", ha annunciato mio marito. "Lo sa che abbiamo tre figli maschi e piccoli?". "Certo". "Sa che useremo i suoi letti, la sua cucina, il suo bagno?". "Credo che lo immagini".
Così, Paul mi ha dato una grande lezione e ci ha accolto, in cinque nel suo mondo, con generosità, disinvoltura, naturalezza e coraggio.
Non ho mai incontrato Paul. E neppure sua moglie. Né i suoi due figli, poco più grandi dei miei. Ma vivo a casa loro.
Di loro so che amano camminare in montagna a fare picnic, perché ho visto le fotografie appese ai muri. So che amano il jazz e hanno una collezione di dischi in vinile che ascoltano con un giradischi d'epoca, che mi ha ricordato l'infanzia e ha suscitato la morbosa curiosità dei miei figli.
So che amano i tè esotici e non si scompongono se sono pieni di farfalline. So che leggono libri di fantascienza e nel garage hanno sette
biciclette, tre monopattini e un paio di trampoli. Non hanno neppure uno specchio in cui guardarsi tutti interi. Probabilmente la domenica fanno il barbecue e tagliano l'erba del giardino. Forse hanno fatto un viaggio in Africa e hanno portato indietro delle maschere paurose.
Mangiano gelatina alla menta che ha un colore verde smeraldo, giocano a scacchi e su un albero hanno costruito una casa. Hanno un pianoforte e una cartina del mondo, appesa in bagno, proprio accanto al gabinetto, ed è un bel modo per ripassare la geografia e coltivare i propri desideri di fuga.
Percorriamo le loro tracce, lasciamo che il loro mondo ci inghiotta, che la loro presenza impalpabile, ma prepotente, ci avviluppi.
Cerchiamo di essere discreti e rispettosi, consapevoli del privilegio di abitare il contenitore di vite altrui. Questo posto mi ha convinto: aprirò un giorno la mia casa a un Paul di passaggio, metterò a tacere la massaia possessiva e gelosa e condividerò le mie tracce e le mie cose. Perché è un bel modo per lasciarsi andare, per liberarsi dei propri egoismi un po' gretti, per scoprire quali e dove sono le cose importanti.


Claudia “Elasti” De Lillo

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