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martedì 26 aprile 2016

25 Aprile festa della liberazione, ma da che?

Sono contento che oggi, in linea col trend festivo, la tv abbia trasmesso molti film leggeri. A costo di passare per ammiratore dei criminali e di essere confuso con qualche nevrotico epigono del revisionismo, sono contento di essere sopravvissuto alla retorica del 25 aprile. Se questa data fosse diventata l’invito a riflettere su una tragedia, e quella subita dagli italiani fu tragedia in proporzioni immani, l’avrei celebrata anch’io. Ma da meridionale non m’identifico affatto con quegli eventi terribili, per chi perse e per chi vinse. Non mi identifico affatto con la macelleria messicana (così la definì Montanelli) che si scatenò a partire dal 25 aprile 1945 e durò - disturbata poco e male dai carabinieri, dai reparti dell’esercito rimasti fedeli allo Stato e dalle truppe alleate, per fortuna angloamericane e non dell’altra parte vincitrice, di stanza sul nostro territorio - per un altro anno buono. Qui la bonomia di Guareschi, che cercò di incoraggiare una sorta di riconciliazione attraverso i suoi romanzi, c’entra poco. Anzi, non c’entra affatto. Infatti, la storia dice altro: poco vicino alle terre dove Don Camillo e Peppone passavano dai cazzotti agli abbracci ci fu una carneficina in nome della “liberazione”. Già: per fortuna eravamo un paese occupato, altrimenti chi ci avrebbe liberato da liberatori che non erano neppure tali? Chiedete a qualche friulano, che magari ricorda le vicissitudini di genitori e nonni alle prese con gli abusi del IX corpus dell’esercito jugoslavo, che significato possa avere per loro il 25 aprile.
Ma non voglio insistere con memorie tragiche, che stentano ad essere stemperate in una storiografia civile perché ancora esistono fondazioni e istituti che mangiano fondi pubblici in nome di un antifascismo ridotto a slogan. Voglio, piuttosto, soffermarmi su alcuni “dettagli” giuridici, solo da noi considerati tali, che tuttavia in qualsiasi altro paese civile sarebbero la parte basilare di qualsiasi racconto storiografico credibile. Il 25 aprile non fu una “liberazione”, come ci si vuol far credere, ma una capitolazione. Cioè una resa quasi senza condizioni di un paese ad altri paesi avversari. A prescindere che questo paese fosse “occupato” militarmente dai tedeschi, che poi non erano tutti nazisti ma in larga parte persone comuni strappate alla vita di tutti i giorni da una guerra assurda, e dalle autorità legittime. Ora, al di là della propaganda spacciata per storia, ribadisco un altro dettaglio: se quella sconfitta non comportò la cancellazione dell’Italia dalle mappe politiche non fu merito della resistenza - quella “bianca” e “verde”, composta da cattolici, ammutinati dell’esercito i quali, in effetti, fecero azioni militari vere e proprie, e quella “rossa”, che, priva di vere competenze militari, praticò soprattutto azioni di sabotaggio – ma del fatto che, comunque, al Sud esisteva un altro Stato italiano legittimo sostenuto dagli angloamericani. Perché celebrare solo i partigiani? E quei soldatini del Regno del Sud, che continuarono a cadere a migliaia sulla Linea Gotica per riunificare il paese, che erano? Figli di…?
Ma noi restiamo il paese dove è più facile fare gli ingegneri informatici che gli storici, perché i primi non vengono di solito censurati. Restiamo il paese dove le patacche passano per gioielli e, ciascuno ai suoi livelli, si viene fischiati e minacciati se si contraddicono le vulgate: toccò prima all’ex partigiano azionista Giorgio Bocca, che si dimostrò critico verso la resistenza e ne contestò aspramente la componente comunista; poi a Renzo De Felice, autore di un corpus storico che i suoi detrattori nemmeno se lo sognano; è toccato, infine, a Giampaolo Pansa, buon ultimo nel turbare la vulgata a suon di patacche troppo spesso spacciata per storia.
La storia è troppo importante e troppo vasta perché possano scriverla solo i vincitori, macchiatisi spesso di nefandezze simili a quelle attribuite ai vinti.
Io abolirei il 25 aprile e, semmai, lo sostituirei del tutto con l’unica, vera festa che possa rappresentare tutto un popolo: il 2 giugno. È triste vedere l’anniversario della Repubblica, scelta comunque da tutto un popolo, ridotto ai minimi termini: una parata militare e qualche alzabandiera timido davanti alle prefetture. Eppure la vera festa democratica è questa, perché tutti, persino i caricaturali eredi degli ex fascisti, possono identificarvisi. Tant’è: ma da un paese privo di memoria storica, che si appresta a buttare a mare la Costituzione del ’48 e le sue libertà in nome di una cultura strapaesana delle autonomie (fallimentari, oppressive, sciupone e ladre molto più del vituperato Stato “accentratore”), ci si può aspettare questo e di peggio.
Seppelliamo i nostri morti e diamo loro l’eterno riposo. Ma ricordiamoci pure che le celebrazioni “divisive”, che esaltano gli uni senza meriti e attribuiscono agli altri anche le colpe che non hanno avuto, sono la strada sbagliata. Basta con la retorica e, se proprio vogliamo parlare ancora di storia, facciamolo coi libri e i documenti alle mani.
Tutto il resto è chiacchiera.

Saverio Paletta


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