Sono
contento che oggi, in linea col trend festivo, la tv abbia trasmesso
molti film leggeri. A costo di passare per ammiratore dei criminali e
di essere confuso con qualche nevrotico epigono del revisionismo,
sono contento di essere sopravvissuto alla retorica del 25 aprile. Se
questa data fosse diventata l’invito a riflettere su una tragedia,
e quella subita dagli italiani fu tragedia in proporzioni immani,
l’avrei celebrata anch’io. Ma da meridionale non m’identifico
affatto con quegli eventi terribili, per chi perse e per chi vinse.
Non mi identifico affatto con la macelleria messicana (così la
definì Montanelli) che si scatenò a partire dal 25 aprile 1945 e
durò - disturbata poco e male dai carabinieri, dai reparti
dell’esercito rimasti fedeli allo Stato e dalle truppe alleate, per
fortuna angloamericane e non dell’altra parte vincitrice, di stanza
sul nostro territorio - per un altro anno buono. Qui la bonomia di
Guareschi, che cercò di incoraggiare una sorta di riconciliazione
attraverso i suoi romanzi, c’entra poco. Anzi, non c’entra
affatto. Infatti, la storia dice altro: poco vicino alle terre dove
Don Camillo e Peppone passavano dai cazzotti agli abbracci ci fu una
carneficina in nome della “liberazione”. Già: per fortuna
eravamo un paese occupato, altrimenti chi ci avrebbe liberato da
liberatori che non erano neppure tali? Chiedete a qualche friulano,
che magari ricorda le vicissitudini di genitori e nonni alle prese
con gli abusi del IX corpus dell’esercito jugoslavo, che
significato possa avere per loro il 25 aprile.
Ma
non voglio insistere con memorie tragiche, che stentano ad essere
stemperate in una storiografia civile perché ancora esistono
fondazioni e istituti che mangiano fondi pubblici in nome di un
antifascismo ridotto a slogan. Voglio, piuttosto, soffermarmi su
alcuni “dettagli” giuridici, solo da noi considerati tali, che
tuttavia in qualsiasi altro paese civile sarebbero la parte basilare
di qualsiasi racconto storiografico credibile. Il 25 aprile non fu
una “liberazione”, come ci si vuol far credere, ma una
capitolazione. Cioè una resa quasi senza condizioni di un paese ad
altri paesi avversari. A prescindere che questo paese fosse
“occupato” militarmente dai tedeschi, che poi non erano tutti
nazisti ma in larga parte persone comuni strappate alla vita di tutti
i giorni da una guerra assurda, e dalle autorità legittime. Ora, al
di là della propaganda spacciata per storia, ribadisco un altro
dettaglio: se quella sconfitta non comportò la cancellazione
dell’Italia dalle mappe politiche non fu merito della resistenza -
quella “bianca” e “verde”, composta da cattolici, ammutinati
dell’esercito i quali, in effetti, fecero azioni militari vere e
proprie, e quella “rossa”, che, priva di vere competenze
militari, praticò soprattutto azioni di sabotaggio – ma del fatto
che, comunque, al Sud esisteva un altro Stato italiano legittimo
sostenuto dagli angloamericani. Perché celebrare solo i partigiani?
E quei soldatini del Regno del Sud, che continuarono a cadere a
migliaia sulla Linea Gotica per riunificare il paese, che erano?
Figli di…?
Ma
noi restiamo il paese dove è più facile fare gli ingegneri
informatici che gli storici, perché i primi non vengono di solito
censurati. Restiamo il paese dove le patacche passano per gioielli e,
ciascuno ai suoi livelli, si viene fischiati e minacciati se si
contraddicono le vulgate: toccò prima all’ex partigiano azionista
Giorgio Bocca, che si dimostrò critico verso la resistenza e ne
contestò aspramente la componente comunista; poi a Renzo De Felice,
autore di un corpus storico che i suoi detrattori nemmeno se lo
sognano; è toccato, infine, a Giampaolo Pansa, buon ultimo nel
turbare la vulgata a suon di patacche troppo spesso spacciata per
storia.
La
storia è troppo importante e troppo vasta perché possano scriverla
solo i vincitori, macchiatisi spesso di nefandezze simili a quelle
attribuite ai vinti.
Io
abolirei il 25 aprile e, semmai, lo sostituirei del tutto con
l’unica, vera festa che possa rappresentare tutto un popolo: il 2
giugno. È triste vedere l’anniversario della Repubblica, scelta
comunque da tutto un popolo, ridotto ai minimi termini: una parata
militare e qualche alzabandiera timido davanti alle prefetture.
Eppure la vera festa democratica è questa, perché tutti, persino i
caricaturali eredi degli ex fascisti, possono identificarvisi.
Tant’è: ma da un paese privo di memoria storica, che si appresta a
buttare a mare la Costituzione del ’48 e le sue libertà in nome di
una cultura strapaesana delle autonomie (fallimentari, oppressive,
sciupone e ladre molto più del vituperato Stato “accentratore”),
ci si può aspettare questo e di peggio.
Seppelliamo
i nostri morti e diamo loro l’eterno riposo. Ma ricordiamoci pure
che le celebrazioni “divisive”, che esaltano gli uni senza meriti
e attribuiscono agli altri anche le colpe che non hanno avuto, sono
la strada sbagliata. Basta con la retorica e, se proprio vogliamo
parlare ancora di storia, facciamolo coi libri e i documenti alle
mani.
Tutto
il resto è chiacchiera.
Saverio
Paletta
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