Si
dice . . . “guardare in cagnesco”
La
locuzione “guardare (o guardarsi) in cagnesco” vuol dire
osservare di traverso, dare occhiatacce torve, con ostilità e
rabbia. Ritroviamo la frase già nella letteratura dell'800 e non
deve stupire la luce negativa in cui è visto quello che oggi si
considera l'amico più caro dell'uomo. Questo e molti altri modi di
dire che riguardano i quattrozampe, (lavorare come un cane, freddo
cane, vita da cani, fare un male cane, solo come un cane, ecc.), ci
ricordano tempi non lontani in cui essi erano tenuti in catene,
disprezzati, privati del cibo per accrescere la loro ferocia in
guerra o contro i ladri, lasciati al freddo, fuori dalle abitazioni o
per strada perché non trasmettessero malattie e parassiti. Vita
non invidiabile.
Si
dice . . . “il canto del cigno”
Questa
definizione si riferisce all'ultimo segno di vivacità di una vita
che si sta spegnendo e, per estensione, all'ultima espressione di
alto livello della carriera di un professionista o di un artista
oramai in declino. Il modo di dire è antico. Si basa sulla
credenza, un tempo assai diffusa, secondo la quale il cigno reale,
(Cygnus olor), detto anche “cigno muto” perché in genere emette
solo sbuffi e brontolii gutturali, quando era posseduto dal
presentimento della morte intonava un canto dolce e melodioso. Un
canto talmente soave da ispirare artisti come Schubert e Tchaikovsky,
che sul tema composero opere immortali. Ed è da notare che con il
termine “cigno”, si indicano i maggiori musicisti e poeti di età
romantica.
Si
dice . . . “ . . . dei miei stivali”
La
locuzione aggettivale “. . . dei miei stivali”, (intellettuale
dei miei stivali, medico dei miei stivali, ecc.), si usa in
riferimento a persone o cose vantate come importanti e di cui invece
non si ha nessuna stima, che si ritiene non abbiano valore. Un
tempo si usavano espressioni più dirette, ad esempio: “Sei proprio
uno stivale!” oppure in senso eufemistico “Non rompere gli
stivali!” (non infastidire). L'intento è chiaramente paragonare
in senso spregiativo, persone e cose a ciò che serve a ricoprire i
piedi e che dunque è collocato al livello del terreno, nel punto più
basso e ignobile possibile.
Si
dice . . . “a sbafo”
Mangiare
a sbafo, bere a sbafo, entrare al cinema a sbafo ecc. vuol dire
ottenere qualcosa a spese d'altri, gratuitamente. Il modo di dire
deriva da sbafare,
ossia mangiare avidamente e in abbondanza, ed è una voce di origine
onomatopeica, (richiama cioè il movimento della bocca che mastica).
Dello stesso significato e altrettanto usata è la locuzione “a
scrocco” che deriva da scrocchio,
un'antica forma di usura. In pratica chi otteneva un prestito “a
scrocchio” era obbligato a ritirare anche dei beni valutati ben
oltre il prezzo reale ed era costretto, oltre alla restituzione del
prestito, a pagarli alla cifra imposta.
Si
dice . . . “a caval donato non si guarda in bocca”
Significa
che ciò che ci viene dato in regalo o comunque senza aver fatto
particolari sforzi o sborsato quattrini, deve essere ben accetto e
non va criticato troppo, per non inimicarsi una sorte che ha voluto
essere benevola. Il fatto di “guardare in bocca” all'equino, si
riferisce all'esame della dentatura per stabilirne l'età.
Veterinari ed esperti infatti, sono in grado di attribuire con buona
precisione gli anni e i mesi di vita dell'animale, esaminando con
cura lo stato degli incisivi superiori e inferiori e le condizioni
del resto della dentatura, specie se si tratta di puledri o di
esemplari giovani.
Si
dice . . . “essere un micco”
Questo
modo di dire popolare, molto usato in Toscana, indica una persona
sciocca e raggirabile, un bellimbusto tanto grullo quanto pieno di
se. All'origine del modo di dire, arrivatoci dalla Spagna intorno
al XVIII secolo, c'è il termine di origine caraibica
mico,
usato per denominare piccole scimmie platirrine sudamericane come gli
uistiti. Questi piccoli e graziosi primati vennero importati in
Europa come animali da ornamento e compagnia e probabilmente la loro
espressione sgomenta è all'origine della metafora.
Si
dice . . . “affrontare un fortunale”
Significa
trovarsi di fronte, anche in senso metaforico, a una perturbazione
atmosferica di enorme forza. Nella scala di Beaufort, divisa in 12
gradi di intensità, il fortunale occupa l'11° posto con venti oltre
i 100 km/h in grado di creare gravi difficoltà alla navigazione,
oltre che ingenti danni a terra. Il termine è antico e lo
ritroviamo già in un passo di Boccaccio (XIV secolo): “da tempo
fortunal portati” ossia da tempo burrascoso, tempestoso. Ciò
perché la dea Fortuna rappresentava il fato, la sorte dispensatrice
di bene e di male, (era spesso raffigurata con un timone in mano), e
ad essa si affidavano i marinai quando si imbattevano in condizioni
così avverse.
Si
dice . . . “mausoleo”
Il
termine “mausoleo” designa un monumento sepolcrale grande e
maestoso, costruito per conservare le spoglie di un imperatore, un re
o una figura importante e ammirata, come ad esempio il mausoleo di
Augusto a Roma o quello di Teodorico a Ravenna. Questo nome deriva
da Mausolo, governatore della provincia persiana della Caria, in Asia
minore, dal 377 a. C. alla sua morte. Egli fece costruire ad
Alicarnasso, oggi Bodrum, in Turchia, un immenso monumento funebre in
marmo con statue e fregi. Affidò il progetto agli architetti greci
Pizio e Satiro e la decorazione ai maggiori scultori del tempo tra
cui Skopas. Alla morte di Mausolo nel 353 a. C. il monumento venne
completato da Artemisia, sorella e moglie. Alto quasi 50 metri,
ricco di bassorilievi, il mausoleo di Alicarnasso, fu considerato una
delle sette meraviglie del mondo. Venne distrutto da un terremoto
nel XIV secolo e le rovine furono usate come materiale da
costruzione.
Si
dice . . . “homo homini lupus”
L'espressione
latina homo
homini lupus,
tuttora in uso nel parlare e nello scrivere colto, significa che
“l'uomo è lupo per l'(altro) uomo” ed è un invito a guardarsi
dalla tendenza innata nell'essere umano a sopraffare il proprio
simile, proprio come un carnivoro uccide la preda per sopravvivere.
Si tratta di un detto popolare di origine molto antica. La prima
citazione che è giunta fino a noi risale all'Asinaria,
commedia dell'autore latino Plauto vissuto tra il III e il II secolo
a. C. Il modo di dire è poi stato ripreso con varie sfumature da
altri autori dell'antica Roma come il poeta comico Cecilio Stazio,
successivo a Plauto, ed è stato tramandato fino alla letteratura
moderna.
Si
dice . . . “musica delle sfere”
Si
riferisce a una melodia celestiale, di bellezza e armonia tali da
sembrare divina. All'origine del detto vi è un antico concetto
filosofico. Il mondo classico pensava infatti che il cielo
rispecchiasse la perfezione della divinità e i maggiori filosofi
greci si dedicarono alla ricerca delle leggi dell'armonia celeste.
Allora si era convinti che i 7 pianeti, (Sole, Mercurio, Venere,
Luna, Marte, Giove e Saturno), ruotassero intorno alla Terra ciascuno
in una propria sfera cosmica, di sostanza eterea e che all'esterno vi
fosse un'altra sfera in cui erano incastonate le stelle fisse. Il
moto di ciascuna di queste sfere, avrebbe prodotto una melodia
divina, non udibile dall'orecchio umano, ma semmai decifrabile con la
matematica. Questa teoria fu presente nella cultura occidentale
fino all'avvento della scienza moderna.