Si
dice . . . “avere la fregola”
L'espressione
popolare “avere la fregola”, (di fare qualcosa), si riferisce a
chi sia posseduto dalla frenesia, dall'impulso irresistibile di
realizzare un desiderio, per esempio scrivere versi, risolvere un
enigma ecc. Il significato originale del termine fregola è
sinonimo di estro, calore: indica cioè l'eccitazione sessuale degli
animali nella stagione degli amori. Il tutto deriva dal verbo
fregare, ed è ispirato ai movimenti frenetici di diverse specie di
pesci, che si sfregano ai sassi sul letto dei corsi d'acqua al tempo
di deporre le uova. E si ritiene che la fregola, intesa come tipo
di pasta di semola fatta a palline irregolari che si produce da
secoli in Sardegna, abbia questo nome proprio perché ricorda le uova
di pesce.
Si
dice . . . “fare melina”
L'espressione
“fare melina” è propria del linguaggio sportivo, (calcio,
basket), e vuol dire trattenere e passarsi la palla per perdere tempo
e mantenere il vantaggio acquisito. Il modo di dire è poi entrato
nel linguaggio comune, per criticare indugi e decisioni atte solo a
guadagnare tempo. L'origine della locuzione viene dal dialetto
bolognese: al
zug dla mleina,
(il gioco della melina), è lo scherzo di sottrarre un oggetto o un
indumento a un malcapitato e passarselo sopra la testa. Negli anni
30 l'espressione fu in uso nella pallacanestro bolognese; allora non
c'erano limiti di tempo per portare a termine un'azione e la palla
era chiamata “mela”. Fu poi il giornalista Gianni Brera a
rendere popolare la locuzione, citandola nelle cronache di calcio.
Si
dice . . . “essere un tipo bislacco”
L'aggettivo
“bislacco” riferito a una persona o a una situazione significa
strambo, stravagante, ma con una connotazione negativa. Per
esempio: “Quella è proprio un'idea bislacca”, “Che gusti
bislacchi”. L'origine del vocabolo, assai adoperato nel nord-est,
è incerta. Viene forse dal veneto bislaco,
epiteto che si dava ai friulani e agli slavi dell'Istria e che
deriverebbe dallo sloveno bezjak,
(profugo, esule, ma anche stupido). Interessante è il fatto che
questo vocabolo sloveno, potrebbe essere alla base del termine
“bisiacco”,
che si riferisce agli abitanti del sud della provincia di Gorizia, in
un territorio delimitato dai fiumi Isonzo e Timavo. I bisiachi, col
loro dialetto caratteristico, sarebbero stati disprezzati in quanto
incapaci di esprimersi in un italiano corretto.
Si
dice . . . “cupio dissolvi”
Il
motto latino “cupio dissolvi”, (desiderio di essere dissolto),
viene usato per riferirsi ad un atteggiamento masochistico,
autodistruttivo rifiuto dell'esistenza. Il detto è tratto da
Tertulliano, (155-230 d.C.), scrittore cristiano di epoca romana che
a propria volta cita S. Paolo, il quale nella prima “Lettera ai
Filippesi”
scrive:
“Desiderium
habens dissolvi et cum Christo esse”,
esprimendo il desiderio di sciogliere la propria anima dal corpo,
(ossia morire), ed essere con Cristo. Col tempo però, il senso
originario delle due parole si è trasformato a indicare un desiderio
di annientamento mistico e il motto è divenuto simbolo di
aspirazione ad una vita ascetica, a una rinuncia volontaria della
propria personalità, assumendo così quel tratto autolesionistico di
cui si è detto sopra.
Si
dice . . . “è una Caporetto”
L'espressione
indica una sconfitta clamorosa, una disfatta senza appello. E'
un'immagine rimasta viva nella nostra lingua, a 100 anni dalla
battaglia combattuta nel corso della grande guerra dal 24/10 al 12/11
del 1917 e che porta il nome di un paese sul fiume Isonzo, oggi in
territorio sloveno. Fu un tale disastro per l'esercito italiano,
travolto dalle truppe austroungariche e tedesche, che il comandante
in capo Luigi Cadorna venne sostituito da Armando Diaz e il nostro
fronte dovette arretrare fino al fiume Piave, da cui successivamente
partì la riscossa decisiva. Secondo le relazioni dell'epoca,
morirono 13mila soldati italiani, 30mila furono feriti e quasi
300mila presi prigionieri con 350mila sbandati. In tutto le forze
armate italiane persero 700mila effettivi in seguito alla battaglia.
Si
dice . . . “essere il quinto elemento”
L'espressione
indica persone o cose indispensabili alla vita di un individuo o al
funzionamento della società o di un sistema. L'origine del modo di
dire si trova nella filosofia dell'antica Grecia. In particolare
Empedocle di Akragas (Agrigento), filosofo del V secolo a.C.,
riteneva che gli elementi, ossia i principi da cui derivano tutte le
cose, fossero 4: fuoco, aria, terra e acqua. La fisica di quel
tempo aggiungeva anche un quinto elemento, l'etere, principio di vita
e motore di tutto. Si dice che papa Bonifacio VIII, notando che
tutti gli ambasciatori delle potenze del tempo erano di Firenze,
ironizzasse che i fiorentini fossero il quinto elemento
dell'Universo.
Si
dice . . . “fare il pianto greco”
Vuol
dire lamentarsi a lungo, lagnarsi vistosamente ed esageratamente di
qualcosa. Il modo di dire ha origini molto antiche e si ispira al
pianto delle
prefiche,
(dal latino “praefica”, preposta), donne che venivano ingaggiate
per disperarsi, cantare e lodare i defunti ai funerali. Queste
figure folkloriche, vestite di scuro, velate o con i capelli sciolti,
sono documentate fin dall'antico Egitto, furono assai presenti in
Grecia e si diffuso per tutto il Mediterraneo e nell'antica Roma. E
la tradizione non è del tutto scomparsa anche ai giorni nostri. La
si può ritrovare nelle zone rurali di Grecia, Albania e Romania e
nel meridione d'Italia è sopravvissuta in terra d'Otranto.
Si
dice . . . “essere alla prova del nove”
Vuol
dire sottoporre una persona, una situazione o anche un'ipotesi a una
verifica finale e decisiva. Il riferimento è a quel test di
controllo di un'operazione aritmetica tra numeri interi, in genere di
una moltiplicazione, che si insegna alla scuola elementare. La
prova del nove, conosciuta fin dall'antichità, consiste a ridurre a
numeri di una sola cifra, (quindi entro il numero 9), i
moltiplicatori e il risultato di una moltiplicazione e si effettua
per consuetudine ponendo le cifre ottenute agli angoli di una croce.
Va però detto che dal punto di vista matematico non si tratta di
una prova decisiva, avendo un margine di errore dell'11%.
Si
dice . . . “tenere un basso profilo”
L'espressione
“tenere (o mantenere) un basso profilo”, significa assumere un
atteggiamento discreto, che non dia nell'occhio, che eviti di
attirare l'attenzione. Viceversa definire una persona, un fatto o
una situazione di “basso profilo”, vuol dire attribuirle scarsa
importanza e mediocre significato. Il modo di dire è la traduzione
letterale dell'espressione di lingua inglese “to
keep a low profile”,
che vale proprio come “agire senza clamore”, muoversi in un modo
che non si noti. L'immagine si riferisce in particolare al profilo
fatto di case basse, skyline
un suo sinonimo, di una cittadina piccola e tranquilla senza torri e
grattacieli, che sono sinonimo si di prestigio e di benessere, ma
anche di maggiore affollamento e potenziali pericoli.
Si
dice . . . “sei balengo”
Dare
del “balengo” a qualcuno è un bonario insulto che sta per
squilibrato, bizzarro ma anche sciocco o matto. Il termine è
originario dei dialetti del nord, (Piemonte e Veneto ma non solo), ed
è stato reso popolare in tutta Italia, grazie agli sketch televisivi
della comica torinese Luciana Littizzetto. In letteratura è stato
utilizzato da scrittori come Guido Gozzano e Cesare Pavese. Incerte
e dibattute tra i linguisti sono invece le origini, l'etimologia del
termine. Secondo l'Accademia
della Crusca,
l'ipotesi oggi più accreditata, riconduce l'insulto alle forme
italiane “bilenco” e “sbilenco”, come dire: “storto,
malfermo”. E, a sua volta, la radice originaria va trovata
nell'antico francone “link” che sta per “sinistro” o
“mancino”, a cui si è aggiunto il prefisso rafforzativo latino
“bis”. Anticamente infatti, chi usava la parte sinistra del
corpo era considerato un minorato.