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domenica 7 gennaio 2018

Modi di dire 31

Si dice . . . “avere la fregola”

L'espressione popolare “avere la fregola”, (di fare qualcosa), si riferisce a chi sia posseduto dalla frenesia, dall'impulso irresistibile di realizzare un desiderio, per esempio scrivere versi, risolvere un enigma ecc. Il significato originale del termine fregola è sinonimo di estro, calore: indica cioè l'eccitazione sessuale degli animali nella stagione degli amori. Il tutto deriva dal verbo fregare, ed è ispirato ai movimenti frenetici di diverse specie di pesci, che si sfregano ai sassi sul letto dei corsi d'acqua al tempo di deporre le uova. E si ritiene che la fregola, intesa come tipo di pasta di semola fatta a palline irregolari che si produce da secoli in Sardegna, abbia questo nome proprio perché ricorda le uova di pesce.



Si dice . . . “fare melina”


L'espressione “fare melina” è propria del linguaggio sportivo, (calcio, basket), e vuol dire trattenere e passarsi la palla per perdere tempo e mantenere il vantaggio acquisito. Il modo di dire è poi entrato nel linguaggio comune, per criticare indugi e decisioni atte solo a guadagnare tempo. L'origine della locuzione viene dal dialetto bolognese: al zug dla mleina, (il gioco della melina), è lo scherzo di sottrarre un oggetto o un indumento a un malcapitato e passarselo sopra la testa. Negli anni 30 l'espressione fu in uso nella pallacanestro bolognese; allora non c'erano limiti di tempo per portare a termine un'azione e la palla era chiamata “mela”. Fu poi il giornalista Gianni Brera a rendere popolare la locuzione, citandola nelle cronache di calcio.



Si dice . . . “essere un tipo bislacco”

L'aggettivo “bislacco” riferito a una persona o a una situazione significa strambo, stravagante, ma con una connotazione negativa. Per esempio: “Quella è proprio un'idea bislacca”, “Che gusti bislacchi”. L'origine del vocabolo, assai adoperato nel nord-est, è incerta. Viene forse dal veneto bislaco, epiteto che si dava ai friulani e agli slavi dell'Istria e che deriverebbe dallo sloveno bezjak, (profugo, esule, ma anche stupido). Interessante è il fatto che questo vocabolo sloveno, potrebbe essere alla base del termine “bisiacco”, che si riferisce agli abitanti del sud della provincia di Gorizia, in un territorio delimitato dai fiumi Isonzo e Timavo. I bisiachi, col loro dialetto caratteristico, sarebbero stati disprezzati in quanto incapaci di esprimersi in un italiano corretto.


Si dice . . . “cupio dissolvi”


Il motto latino “cupio dissolvi”, (desiderio di essere dissolto), viene usato per riferirsi ad un atteggiamento masochistico, autodistruttivo rifiuto dell'esistenza. Il detto è tratto da Tertulliano, (155-230 d.C.), scrittore cristiano di epoca romana che a propria volta cita S. Paolo, il quale nella prima “Lettera ai Filippesi” scrive: “Desiderium habens dissolvi et cum Christo esse”, esprimendo il desiderio di sciogliere la propria anima dal corpo, (ossia morire), ed essere con Cristo. Col tempo però, il senso originario delle due parole si è trasformato a indicare un desiderio di annientamento mistico e il motto è divenuto simbolo di aspirazione ad una vita ascetica, a una rinuncia volontaria della propria personalità, assumendo così quel tratto autolesionistico di cui si è detto sopra.



Si dice . . . “è una Caporetto”

L'espressione indica una sconfitta clamorosa, una disfatta senza appello. E' un'immagine rimasta viva nella nostra lingua, a 100 anni dalla battaglia combattuta nel corso della grande guerra dal 24/10 al 12/11 del 1917 e che porta il nome di un paese sul fiume Isonzo, oggi in territorio sloveno. Fu un tale disastro per l'esercito italiano, travolto dalle truppe austroungariche e tedesche, che il comandante in capo Luigi Cadorna venne sostituito da Armando Diaz e il nostro fronte dovette arretrare fino al fiume Piave, da cui successivamente partì la riscossa decisiva. Secondo le relazioni dell'epoca, morirono 13mila soldati italiani, 30mila furono feriti e quasi 300mila presi prigionieri con 350mila sbandati. In tutto le forze armate italiane persero 700mila effettivi in seguito alla battaglia.


Si dice . . . “essere il quinto elemento”

L'espressione indica persone o cose indispensabili alla vita di un individuo o al funzionamento della società o di un sistema. L'origine del modo di dire si trova nella filosofia dell'antica Grecia. In particolare Empedocle di Akragas (Agrigento), filosofo del V secolo a.C., riteneva che gli elementi, ossia i principi da cui derivano tutte le cose, fossero 4: fuoco, aria, terra e acqua. La fisica di quel tempo aggiungeva anche un quinto elemento, l'etere, principio di vita e motore di tutto. Si dice che papa Bonifacio VIII, notando che tutti gli ambasciatori delle potenze del tempo erano di Firenze, ironizzasse che i fiorentini fossero il quinto elemento dell'Universo.


Si dice . . . “fare il pianto greco”

Vuol dire lamentarsi a lungo, lagnarsi vistosamente ed esageratamente di qualcosa. Il modo di dire ha origini molto antiche e si ispira al pianto delle prefiche, (dal latino “praefica”, preposta), donne che venivano ingaggiate per disperarsi, cantare e lodare i defunti ai funerali. Queste figure folkloriche, vestite di scuro, velate o con i capelli sciolti, sono documentate fin dall'antico Egitto, furono assai presenti in Grecia e si diffuso per tutto il Mediterraneo e nell'antica Roma. E la tradizione non è del tutto scomparsa anche ai giorni nostri. La si può ritrovare nelle zone rurali di Grecia, Albania e Romania e nel meridione d'Italia è sopravvissuta in terra d'Otranto.


Si dice . . . “essere alla prova del nove”

Vuol dire sottoporre una persona, una situazione o anche un'ipotesi a una verifica finale e decisiva. Il riferimento è a quel test di controllo di un'operazione aritmetica tra numeri interi, in genere di una moltiplicazione, che si insegna alla scuola elementare. La prova del nove, conosciuta fin dall'antichità, consiste a ridurre a numeri di una sola cifra, (quindi entro il numero 9), i moltiplicatori e il risultato di una moltiplicazione e si effettua per consuetudine ponendo le cifre ottenute agli angoli di una croce. Va però detto che dal punto di vista matematico non si tratta di una prova decisiva, avendo un margine di errore dell'11%.


Si dice . . . “tenere un basso profilo”

L'espressione “tenere (o mantenere) un basso profilo”, significa assumere un atteggiamento discreto, che non dia nell'occhio, che eviti di attirare l'attenzione. Viceversa definire una persona, un fatto o una situazione di “basso profilo”, vuol dire attribuirle scarsa importanza e mediocre significato. Il modo di dire è la traduzione letterale dell'espressione di lingua inglese “to keep a low profile”, che vale proprio come “agire senza clamore”, muoversi in un modo che non si noti. L'immagine si riferisce in particolare al profilo fatto di case basse, skyline un suo sinonimo, di una cittadina piccola e tranquilla senza torri e grattacieli, che sono sinonimo si di prestigio e di benessere, ma anche di maggiore affollamento e potenziali pericoli.


Si dice . . . “sei balengo”


Dare del “balengo” a qualcuno è un bonario insulto che sta per squilibrato, bizzarro ma anche sciocco o matto. Il termine è originario dei dialetti del nord, (Piemonte e Veneto ma non solo), ed è stato reso popolare in tutta Italia, grazie agli sketch televisivi della comica torinese Luciana Littizzetto. In letteratura è stato utilizzato da scrittori come Guido Gozzano e Cesare Pavese. Incerte e dibattute tra i linguisti sono invece le origini, l'etimologia del termine. Secondo l'Accademia della Crusca, l'ipotesi oggi più accreditata, riconduce l'insulto alle forme italiane “bilenco” e “sbilenco”, come dire: “storto, malfermo”. E, a sua volta, la radice originaria va trovata nell'antico francone “link” che sta per “sinistro” o “mancino”, a cui si è aggiunto il prefisso rafforzativo latino “bis”. Anticamente infatti, chi usava la parte sinistra del corpo era considerato un minorato.

giovedì 7 settembre 2017

Modi di dire 30

Si dice . . . “mollare i pappafichi”

Indica un atteggiamento di resa, un cedere psicologicamente, un rassegnarsi agli eventi. Nel linguaggio sportivo, una squadra che “molla i pappafichi” non crede più nella vittoria o nella rimonta nei confronti dei rivali. L'espressione, mutuata dal gergo marinaresco, è stata lanciata da Gianni Brera, (1919-1992), celebre giornalista sportivo che ha coniato o ripreso moltissimi termini ed espressioni oggi nell'uso comune. Il termine pappafico, che deriva dallo spagnolo papahigos, indica nei velieri una vela minore usata di rinforzo, (detta anche di straglio), che si posiziona come seconda vela quadra più alta dell'albero di trinchetto. Mollarlo, ossia ammainarlo, ha il senso di adeguarsi a un'andatura più lenta.


Si dice . . . “scoprire gli altarini”

Il detto “scoprire gli altarini”, allude alla rivelazione di segreti imbarazzanti per chi li aveva gelosamente custoditi fino a quel momento. Per qualche linguista, l'espressione deriverebbe dalla liturgia della settimana della Passione, quando nelle chiese altari, tabernacoli ed immagini, vengono coperti da panni viola, ma prima o poi devono rivedere la luce. Per altri esperti invece, il motto ha un'origine molto antica e fa riferimento ai piccoli altari di case e cappelle private, o posti davanti a tabernacoli in strade o piazze. Questi altari sono da sempre ornati di rose e proprio alle rose, simbolo di segretezza fin dall'antichità, forse a causa della sua forma a petali sovrapposti intorno a un bocciolo sempre chiuso, si riferirebbe il senso ultimo del detto. Da notare che la frase equivalente in francese è “decouvrir le pot aux rose”: alla lettera, scoprire il vaso di rose.


Si dice . . . “essere una vecchia cariatide”

Dare della “vecchia cariatide” a qualcuno, vuol dire presentarlo come una persona molto vecchia e malridotta, o anche superata nel modo di agire e di pensare. Più anticamente “cariatide” indicava anche qualcuno che se ne stesse impalato e silenzioso senza muoversi o prendere iniziative. Il riferimento è a quelle figure femminili scolpite, che venivano usate con funzione di colonne o pilastri, a sostegno di parti architettoniche sovrastanti. Le più celebri sono quelle situate a fianco dell'Eretteo, sull'Acropoli ateniese. Il nome deriva dalle donne di Karya, antica città greca del Peloponneso, fatte schiave dagli ateniesi e forse in origine fanciulle danzanti. Il riferimento alle persone vecchie o superate, è riferito all'antichità delle sculture che sono del V secolo a.C.


Si dice . . . “da strapazzo”

La locuzione “da strapazzo”, (ad esempio: pittore da strapazzo, musicista da strapazzo, intellettuale da strapazzo ecc.), si riferisce a persone le cui attività vanno considerate di nessun valore. Questa definizione era un tempo più diffusa con riferimento a capi di abbigliamento vecchi, di basso costo o di scarsa eleganza, che vengono indossati per giardinaggio, lavori pesanti o altre situazioni in cui degli indumenti non si deve avere troppa cura: calzoni da strapazzo, giacca da strapazzo ecc. E' proprio quest'ultima accezione, il riferirsi cioè ad oggetti che essendo di poco o nessun valore possono essere stracciati e strapazzati, è quella che ha dato origine al senso figurato che abbiamo prima descritto.


Si dice . . . “uscire dai gangheri”

L'espressione figurata “uscire dai gangheri” o anche “essere (o andare) fuori dai gangheri”, ha il significato di perdere la pazienza, incollerirsi, agire e sbottare in modo sconsiderato. I gangheri a cui si fa riferimento, sono la parte del cardine costituita da un pezzo di ferro ripiegato a uncino, che forma il perno da inserire nell'occhio della bandella e che permette l'apertura e la chiusura dell'imposta di una porta, di una finestra o dello sportello di un armadio. In sostanza, è la parte del cardine fissata al telaio o al muro su cui si infila il battente, permettendo a quest'ultimo di girare, in equilibrio. Uscire dai gangheri è quindi, figurativamente, perdere l'equilibrio psichico e dunque la ragione.


Si dice . . . “avere voce in capitolo”

Vuol dire avere autorità e credito per poter intervenire in una discussione, o per prendere una decisione. All'origine del modo di dire vi è il Diritto Canonico. Avere voce in capitolo infatti, era riferito inizialmente agli ecclesiastici che nei capitoli, o collegi, ossia nelle riunioni degli addetti a un istituto religioso, avevano diritto di parola e voto. E' probabile che il termine capitolo cui si fa riferimento, si riferisca alla locuzione latina ire ad capitulum, ossia andare alla lettura di un capitolo delle Sacre Scritture. Va inoltre detto che l'espressione ha un equivalente nella locuzione francese avoir voix au chapitre, documentata in vari scritti.


Si dice . . . “avere mangiato le noci”

L'espressione ironica poco nota, ma di spessore storico e letterario, “aver mangiato le noci”, (“hai mangiato le noci oggi?”, “quello mangia noci ...”, ecc.), indica coloro che siano spesso mal disposti e di cattivo animo verso il prossimo, specie verso coloro che, viceversa, cercano di assecondargli in ogni modo. Chi “mangia noci” insomma, è colui che parla male di tutti in modo gratuito. L'espressione è una metafora: si riferisce infatti, in senso figurato, al fatto che l'ingestione eccessiva di noci può favorire l'alito cattivo e dunque rende di pessima qualità, anche le parole che escono dalla bocca. Non mancano passi letterari prestigiosi su questo tema, come quello del letterato fiorentino Emilio Cecchi: “Bè Crezia / Tu ti sei risentita in mal tempra; / Oh si, iersera tu mangiasti noci / Che t'anno fatto si cattiva lingua”.


Si dice . . . “fulmine a ciel sereno”

L'espressione segnala una notizia o un accadimento improvvisi, inattesi e spesso sconvolgenti. Ma cadono davvero i fulmini a ciel sereno? Il fulmine è una scarica elettrica che si crea in certe condizioni fisiche, all'interno dei cumulolembi, i nuvoloni grigi che portano i temporali. A determinarli è il campo elettrico che si crea nella nube a causa delle opposte cariche elettriche delle goccioline che la formano. Queste, in presenza di forte vento tropicale, si separano e la differenza di potenziale che si crea origina la scarica elettrica. Queste possono generarsi anche tra due nubi, o tra una nube e il suolo. In rarissimi casi i fulmini non partono dalla base della nube, ma dalla sua sommità e una parte di loro giunge al suolo fuori dal perimetro del temporale: sono i “fulmini positivi” che arrivano fino a 40km. Sono questi i fulmini a ciel sereno, ma c'è sempre in origine una nube …


Si dice . . . “essere un ammazzasette”

Dare dell'ammazzasette a qualcuno vuol dire attribuirgli patente di vanaglorioso, di millantatore di grandi prodezze. L'origine della definizione è una sarcastica fiaba dei fratelli Grimm: Il coraggioso piccolo sarto. Vi si narra di un giovane sarto, che torturato dalle mosche mentre mangia in una pausa di lavoro, con una stoffa ne uccide 7 in un colpo. Felice per questo, incide sulla cinta la frase “Sette in un colpo” e va in giro ripetendolo a tutti. Poichè chi lo incontra pensa che parli di nemici, il sarto viene ammirato e temuto. E in lui cresce talmente l'autostima da riuscire in imprese tanto mirabolanti, da divenire braccio destro del re, sposarne la figlia e infine diventare re egli stesso.



Si dice . . . “semel in anno”


La locuzione latina semel in anno licet insanire, (una volta all'anno è lecito fare pazzie), viene tuttora accennata, semel in anno, negli ambienti colti per scusare follie passeggere, in genere innocue, proprie o di altri, giustificandole col fatto che di tanto in tanto è ammesso per tutti contravvenire alle regole e alle convenzioni sociali. Il concetto fu espresso, sia pur con leggere varianti, da autori antichi come Seneca, Orazio e Sant'Agostino d'Ippona, (Tolerabile est semel anno insanire). L'espressione divenne proverbiale nel Medioevo e richiama antichissimi riti liberatori o preparatori ai periodi di penitenza, di cui abbiamo ancora viva testimonianza nella celebrazione del Carnevale, festa fole per eccellenza.

sabato 3 giugno 2017

Modi di dire 29.

Si dice . . . “tirare l'acqua al proprio mulino”

Significa argomentare un discorso o proporre una tesi in funzione del proprio interesse. Fare insomma, con un giro di parole, il proprio gioco.
Il riferimento alla frase fatta e il mulino ad acqua, uno dei più antichi impianti meccanici creato dall'uomo per la produzione di generi alimentari, già presente al tempo dell'antica Roma e diffusosi in Europa a partire dal IX secolo. L'energia prodotta dalla ruota a pale di un mulino ad acqua, (in genere mossa dal corso di un fiume o di un torrente), permetteva alla macina di polverizzare 150kg di grano in un'ora, l'equivalente del lavoro di 40 schiavi. Ecco dunque perché era importante che al proprio mulino, arrivasse più acqua possibile.


Si dice . . . “riso sardonico”

Il riso sardonico, (dal greco: sardonios ghelos), è uno spasmo dei muscoli facciali che produce un curioso ghigno. Come fenomeno patologico lo si osserva nei soggetti colpiti da tetano, ma è detto così anche un semplice sorriso di tensione, malevolo o sarcastico. “Sardonico” è aggettivo riferito agli antichi sardi e lo si trova anche nell'Odissea (VIII a.C.). Omero infatti così definisce il riso beffardo di Ulisse, dopo aver schivato un oggetto scagliatogli da Ctesippo. Più tardi Simonide di Ceo, chiama così il riso di dolore provocato dall'abbraccio rovente del mitico automadi bronzo Talos, ai predoni sardi che tentavano di sbarcare a Creta. In realtà, all'origine sembrano esserci le maschere funebri dei fenici di Sardegna, il cui ghigno esagerato doveva servire a proteggere il defunto dagli spiriti maligni.


Si dice . . . “i giorni della merla”

Con “giorni della merla” ci si riferisce agli ultimi tre giorni di gennaio, un tempo considerati come i più freddi dell'anno. Secondo una diffusa leggenda sul tema, la merla, in origine di piumaggio bianco, veniva perseguitata dal mese di gennaio che, dispettoso, si divertiva a ricoprire il terreno di ghiaccio per impedirle di beccare il cibo. La merla allora un certo anno, si chiuse in una tana con cibo sufficiente a superare l'odioso mese, che al tempo contava solo 28 giorni. Gennaio, infuriato per la furbizia della merla, rubò tre giorni a febbraio riempiendoli di tormente di neve. La merla, rimasta senza cibo, dovette rifugiarsi in un camino e quando uscì si trovò per sempre con la livrea grigia di fuliggine. Questa antica leggenda fa riferimento all'avvento del calendario di Giulio Cesare, che nel 45 a.C. aggiunse due giorni a gennaio, da 29 a 31, ritardando l'inizio dei riti di purificazione previsti in febbraio.


Si dice . . . “fare questioni di lana caprina”

Questo modo di dire significa fare discussioni inutili e prolisse con scarso fondamento, oppure dispute intorno ad argomenti superflui, allorchè si vuole cavillare su questioni di poco conto o di difficile decifrazione. De lana caprina, (intorno alla lana caprina), è una locuzione già in uso presso i latini, (ne troviamo riferimento nelle epistole del poeta Orazio), ed aveva già il significato attuale. L'immagine della frase fatta ha come origine la difficoltà a classificare il mantello che ricopre le capre: se si tratti di lana, di pelliccia o di vello. Ed inoltre, trattandosi di pelo in genere corto, ispido e pungente e dunque inadatto ad essere utilizzato come fibra tessile, è considerato di scarso valore, come le dispute a cui si fa riferimento.


Si dice . . . “essere una pecora nera”

L'espressione denuncia un elemento che si distingue in maniera negativa dal resto dei membri di un gruppo, (una famiglia o un clan ad esempio). La frase fatta trae origine dagli allevamenti ovini, incentrati sulla produzione di lana. Le pecore nere, (fenomeno genetico detto “melanismo”), sono infatti mal accette presso gli allevatori, in quanto possono compromettere il pregio della lana bianca, la più facile da lavorare e colorare. Per questo le pecore nere vengono in genere trattate in maniera separata, oppure escluse dalla tosatura. Vi è inoltre un aspetto visivo: in un gregge composto da capi bianchi, un ovino scuro non si perde di vista. A ciò si aggiunge il riferimento alla superstizione sul colore nero, per esempio “sfortuna nera”.


Si dice . . . “essere un allocco o fare la civetta”

I rapaci notturni per il loro aspetto inquietante e certe cupe caratteristiche di vita, colpiscono da sempre la fantasia popolare. Da qui vari modi di dire che li riguardano: “non fare il gufo”si dice a chi fa previsioni negative e deriva dal lugubre richiamo del grande predatore e dalla sua espressione che pare accigliata; “fare la civetta” si riferisce invece a una donna che ami farsi corteggiare e origina dalla caccia con la civetta viva, oggi vietata, che è in grado di attrarre le allodole con le sue buffe movenze; dare dell'allocco, ossia dello stupido a qualcuno, deriva dallo sguardo fisso e in apparenza sgomento di questo uccello, invece tutt'altro che sciocco; si definisce infine “vecchio barbagianni” un anziano brontolone perché questo pennuto, che sa emettere acuti stridii, ha il muso bianco e ciò evoca l'aspetto di un vegliardo.



Si dice . . . “essere ai nastri di partenza”

Vuol dire apprestarsi a intraprendere qualcosa, in genere una competizione sportiva, ma in senso figurato anche un viaggio, una carriera, un'impresa. L'immagine si riferisce alla sottile striscia di seta tesa al punto iniziale di un percorso sportivo, (su strada o pista), che viene tagliata o fatta cadere al via della gara dal direttore di corsa o da un inviato ufficiale. La più antica installazione del genere appartiene alle corse dei cavalli: basti pensare al canapo, il cordone teso al punto di partenza di un palio ippico, (quello di Asti per esempio è del XIII secolo), e che viene abbassato dal mossiere al via della corsa. Questa stessa funzione è stata riprodotta dal nastro inaugurale, che, tagliato da un'autorità politica in una cerimonia apposita, saluta l'entrata in funzione di un'opera di pubblico interesse.


Si dice . . . “gli alti papaveri”

La definizione di “alti papaveri” indica personaggi eminenti che hanno molto potere o ricoprono cariche importanti. L'origine del detto risale ad un episodio narrato dallo storico latino Tito Livio, (59 a.C. - 17 d.C.): nella sua Storia di Roma Livio racconta che il 7° re di Roma Tarquinio il Superbo, volendosi impadronire della città ostile di Gabi, vi mando il figlio Sesto Tarquinio in finto esilio. Il giovane raggiunse una posizione di rilievo ma, in difficoltà di fronte ai propositi di rivolta locali, inviò al padre un messo per un consiglio. Il re non rispose, ma si diresse con il messo in un prato e con un bastone falciò i papaveri più alti. L'inviato tornò a Gabi e riferì il gesto. Sesto Tarquinio afferrò il messaggio paterno e si affrettò a far sopprimere i cittadini più importanti, indebolendo così la città che venne poi facilmente assoggettata da Roma.


Si dice . . . “prendersi la briga”

La frase idiomatica, “prendersi la briga” (di fare qualcosa), vuol dire assumersi la responsabilità di affrontare una situazione noiosa, fastidiosa, sgradita. Più in generale assumersi un incarico che va svolto comunque. Troviamo il termine “briga” già nella letteratura medioevale, da Dante Alighieri a Giovanni Boccaccio, col significato di bufera, turbine di vento e metaforicamente di conflitto, lite, contesa. Da qui il modo di dire tuttora in uso “attaccare briga”, ossia cercare un pretesto per litigare. L'origine del vocabolo non è certa, ma è sicuramente antichissima visto che si ritrova in molte lingue di tutta Europa. E' sicuro comunque che nel Medioevo briga indicasse anche una piccola compagnia di soldati di ventura, da cui sono derivati i termini “brigata” e “brigante”.


Si dice . . . “discutere del sesso degli angeli”


Vuol dire cavillare su cose oziose, perdendosi in dettagli futili, marginali e sprecando così del tempo prezioso. Nelle prime raffigurazioni di angeli dell'arte paleocristiana, essi sono mostrati come giovinetti efebici senza ali né aureola, (si consoliderà poi nel corso dei secoli l'aspetto che conosciamo). In nessun testo sacro si parlava del sesso a cui appartenessero, il che fece nascere infinite e spesso aspre dispute teologiche, nell'ambito della chiesa cristiana. Al punto che rimase nella convinzione popolare, il fatto che i teologi bizantini continuassero le loro sterili dispute sul sesso degli angeli, anche mentre i turchi di Maometto II espugnavano Costantinopoli (1453) ponendo fine all'impero romano d'Oriente.

sabato 7 gennaio 2017

Modi di dire 28.

Si dice . . . “essere una tigra di carta”

L'espressione “essere una tigre di carta”, usata specie in campo politico, definisce qualcuno che si presenta minaccioso o pericoloso, ma che in realtà si rivela un bluff, una figura inoffensiva. Si tratta della traduzione letterale di un modo di dire cinese, ed è giunto in occidente nel 1946 allorché Mao Tse-tung, allora capo dell'esercito di liberazione popolare cinese, in un intervista alla giornalista Anna Louise Strong dichiarò: “Tutti i reazionari sono tigri di carta”. Ossia apparentemente terribili, in realtà non così potenti. La metafora fu molto usata nella lotta politica in Cina negli anni del maoismo, specie con riferimento agli Stati Uniti. Entrò in uso nel mondo occidentale anche grazie alla diffusione, nel 1967, del Libretto Rosso, antologia di citazioni di Mao Tse-tung che si dilunga sulle “tigri di carta”.


Si dice . . . “aver mangiato la foglia”

L'espressione significa capire al volo, intuire una situazione, il senso di un discorso, le intenzioni altrui. Vi sono due versioni sull'origine dell'immagine: la prima è l'episodio dell'Odissea in cui Ulisse, prigioniero di Circe, si rende conto del trucco della maga per trasformare gli uomini in bestie e per essere immune dalla magia mangia una foglia donatagli da Ermes. La seconda si rifà alla cultura contadina: la foglia in questione è quella che possono divorare gli erbivori, da quando smettono di succhiare il latte materno e vengono svezzati. L'aver “mangiato la foglia”, sarebbe una rappresentazione simbolica dell'essere divenuti adulti e dunque più saggi e consapevoli di quanto accade intorno a se.


Si dice . . . “bagnare il naso a qualcuno”

La locuzione “bagnare il naso” vuol dire battere qualcuno, superarlo in bravura, nella carriera oppure in qualche altro aspetto della vita facendogli fare una pessima figura. L'origine dell'espressione, usata specie in Lombardia e Piemonte, (bagnè el nasa un, in dialetto torinese), deriva da un'antica abitudine “pedagogica” in uso nelle scuole di quelle regioni, secondo cui il maestro sollecitava l'alunno più bravo perché sfregasse, col dito umido di saliva, il naso del compagno che aveva avuto scarso profitto. Si rintraccia l'usanza nella letteratura: “... Tutti i giorni interrogazione generale. Chi rispondeva esatto e con più sicurezza era premiato con l'incarico di bagnare il naso a chi aveva sbagliato. Quel dito umido di saliva era schifoso ...” (Mario Lodi Il corvo 1971).



Si dice . . . “essere una carampana”

Il termine “carampana” viene usato in senso spregiativo per indicare una donna sciatta e volgare o vecchia e brutta. L'origine dell'epiteto risale alla Venezia medioevale. Cà Rampani era il nome dato ad alcuni stabili ereditati dal governo della Serenissima, dalla facoltosa famiglia dei Rampani e adibiti nel 1421 a ospitare l'attività delle mondane. Da allora le donne ospiti di quelle case, furono chiamate “carampane” e il termine divenne sinonimo di prostituta. Poi, nel libertino '700, le mondane giovani e belle poterono tornare ad esercitare il mestiere in centro città, mentre a Cà Rampani rimasero solo le più anziane, lì relegate come in un ospizio, e fu questo sviluppo a dare al termine il significato attuale.


Si dice . . . “ambasciator non porta pena”

Questo detto ricorda che chi reca notizie non buone non deve essere considerato colpevole di quanto comunicato e si riferisce all'antico e delicato compito dell'ambasciatore, (dal latino ambactus “servo stipendiato”). Infatti nel corso dei secoli, sono avvenute molte violazioni a quella legge non scritta che oggi si chiama immunità diplomatica, ossia considerare sacra la vita degli emissari di altri popoli che portavano messaggi, anche se spiacevoli. Tra i molti esempi ricordiamo che nel 610 d.C., lo Scià di Persia fece trucidare gli emissari bizantini venuti a proporre un trattato di pace non gradito. Solo a partire dal Congresso di Vienna, nel 1815, la diplomazia divenne professione autonoma e acquisì valore e norme giuridiche internazionali.


Si dice . . . “il lupo perde il pelo ma non il vizio”

L'antico proverbio “il lupo perde il pelo, ma non il vizio” si riferisce al fatto che per ciascuno di noi è molto difficile eliminare definitivamente le cattive abitudini e sottolinea le difficoltà che si incontrano per riuscire a superare i vizi incalliti di cui siamo dipendenti. Il detto è una derivazione del motto latino lupus mutat pilum, non mentem, (il lupo cambia il pelo, non la mente), che ritroviamo, attribuito però alla volpe, già in un testo dello scrittore di età imperiale Svetonio. Il letterato attribuiva questa frase a un allevatore di bestiame, il quale rimproverava all'imperatore Tito Flavio Vespasiano, (9-79 d.C.), di non riuscire a dominare nel tempo la propria avidità.



Si dice . . . “al di là del bene e del male”

Il modo di dire indica una persona, un fatto o un'opera, che non sono paragonabili a nulla e in un giudizio vanno collocati in una categoria a parte, in positivo o, ironicamente, in negativo. La frase fatta si riferisce ad “Al di là del bene e del male: Preludio di una filosofia dell'avvenire”, (Jenseits von Gut und Bose), saggio del 1886 del pensatore tedesco Friedrich Nietzsche, (1844-1900), considerato testo fondamentale nel passaggio del pensiero filosofico dal XIX al XX secolo. E' un violento attacco contro la morale ipocritamente accettata dai pensatori del presente e del passato che destò scalpore. La popolarità della frase fatta è stata rilanciata dall'omonimo film di Liliana Cavani del 1977, ispirato proprio alla biografia del filosofo di Rocken.



Si dice . . . “fare i conti senza l'oste”

Si riferisce a chi prende delle iniziative affrettate senza tener conto della volontà altrui e quindi di rifiuti eventuali od ostacoli posti in seguito da terzi. L'origine del modo di dire trova riscontro nelle antiche osterie, luoghi che erano assai frequentati da viaggiatori e avventori di passaggio. La gran parte degli osti era allora rinomata per l'astuzia nell'organizzare imbrogli sul conto del pasto consumato, essendo abilissimi nel sostenerli durante la presentazione della nota alla clientela. Ecco perché era ritenuto esercizio inutile per i clienti fare calcoli preventivi sul conto finale, poiché poi ci si trovava puntualmente contraddetti dall'oste, il quale sottoponeva altre voci di spesa e mandava all'aria tutte le loro previsioni.


Si dice . . . “avere i nervi a fior di pelle”

Significa essere assai sensibili emotivamente, nervosi, agitati o suscettibili. L'immagine è molto simile a quella di “a nervo scoperto”, poiché suggerisce che i terminali nervosi vengano a trovarsi assai vicino alla superficie della pelle. “Fiore” infatti – probabilmente in questo caso inteso come la parte più alta della pianta – indica la superficie di qualcosa o comunque la sua parte più prossima alla superficie stessa, come nella locuzione “a fior d'acqua”. Non a caso il termine “affiorare” vuol dire emergere, spuntar fuori. Un altro esempio del genere è la definizione “fior di latte” che indica prodotti gastronomici, (latticini, gelati), a base della parte più ricca e pannosa del latte: quella che resta in superficie grazie alla sua minore densità.


Si dice . . . “da che pulpito viene la predica”


L'esclamazione “ da che pulpito viene la predica!”, è un'espressione ironica che viene usata per screditare l'autore di affermazioni perentorie, di precetti, di indicazioni da seguire, (per esempio: “Bisogna combattere la corruzione diffusa!”, “Abbiate il coraggio delle vostre azioni!”, eccetera). Questo se chi parla è in realtà, il primo a non dare seguito a ciò che predica al prossimo. Il pulpito, (dal latino pulpitum, piattaforma), è la postazione sopraelevata da cui parlavano al pubblico gli oratori dell'antica Roma e, nell'ambito del cristianesimo medioevale a partire dal X-XI secolo, le balconate da cui sacerdoti e predicatori si rivolgevano ai fedeli con le loro omelie. Alcuni pulpiti sono autentici capolavori di architettura e scrittura.


domenica 23 ottobre 2016

Modi di dire 27

Si dice . . . “guardare in cagnesco”

La locuzione “guardare (o guardarsi) in cagnesco” vuol dire osservare di traverso, dare occhiatacce torve, con ostilità e rabbia. Ritroviamo la frase già nella letteratura dell'800 e non deve stupire la luce negativa in cui è visto quello che oggi si considera l'amico più caro dell'uomo. Questo e molti altri modi di dire che riguardano i quattrozampe, (lavorare come un cane, freddo cane, vita da cani, fare un male cane, solo come un cane, ecc.), ci ricordano tempi non lontani in cui essi erano tenuti in catene, disprezzati, privati del cibo per accrescere la loro ferocia in guerra o contro i ladri, lasciati al freddo, fuori dalle abitazioni o per strada perché non trasmettessero malattie e parassiti. Vita non invidiabile.


Si dice . . . “il canto del cigno”

Questa definizione si riferisce all'ultimo segno di vivacità di una vita che si sta spegnendo e, per estensione, all'ultima espressione di alto livello della carriera di un professionista o di un artista oramai in declino. Il modo di dire è antico. Si basa sulla credenza, un tempo assai diffusa, secondo la quale il cigno reale, (Cygnus olor), detto anche “cigno muto” perché in genere emette solo sbuffi e brontolii gutturali, quando era posseduto dal presentimento della morte intonava un canto dolce e melodioso. Un canto talmente soave da ispirare artisti come Schubert e Tchaikovsky, che sul tema composero opere immortali. Ed è da notare che con il termine “cigno”, si indicano i maggiori musicisti e poeti di età romantica.


Si dice . . . “ . . . dei miei stivali”

La locuzione aggettivale “. . . dei miei stivali”, (intellettuale dei miei stivali, medico dei miei stivali, ecc.), si usa in riferimento a persone o cose vantate come importanti e di cui invece non si ha nessuna stima, che si ritiene non abbiano valore. Un tempo si usavano espressioni più dirette, ad esempio: “Sei proprio uno stivale!” oppure in senso eufemistico “Non rompere gli stivali!” (non infastidire). L'intento è chiaramente paragonare in senso spregiativo, persone e cose a ciò che serve a ricoprire i piedi e che dunque è collocato al livello del terreno, nel punto più basso e ignobile possibile.


Si dice . . . “a sbafo”

Mangiare a sbafo, bere a sbafo, entrare al cinema a sbafo ecc. vuol dire ottenere qualcosa a spese d'altri, gratuitamente. Il modo di dire deriva da sbafare, ossia mangiare avidamente e in abbondanza, ed è una voce di origine onomatopeica, (richiama cioè il movimento della bocca che mastica). Dello stesso significato e altrettanto usata è la locuzione “a scrocco” che deriva da scrocchio, un'antica forma di usura. In pratica chi otteneva un prestito “a scrocchio” era obbligato a ritirare anche dei beni valutati ben oltre il prezzo reale ed era costretto, oltre alla restituzione del prestito, a pagarli alla cifra imposta.



Si dice . . . “a caval donato non si guarda in bocca”


Significa che ciò che ci viene dato in regalo o comunque senza aver fatto particolari sforzi o sborsato quattrini, deve essere ben accetto e non va criticato troppo, per non inimicarsi una sorte che ha voluto essere benevola. Il fatto di “guardare in bocca” all'equino, si riferisce all'esame della dentatura per stabilirne l'età. Veterinari ed esperti infatti, sono in grado di attribuire con buona precisione gli anni e i mesi di vita dell'animale, esaminando con cura lo stato degli incisivi superiori e inferiori e le condizioni del resto della dentatura, specie se si tratta di puledri o di esemplari giovani.



Si dice . . . “essere un micco”

Questo modo di dire popolare, molto usato in Toscana, indica una persona sciocca e raggirabile, un bellimbusto tanto grullo quanto pieno di se. All'origine del modo di dire, arrivatoci dalla Spagna intorno al XVIII secolo, c'è il termine di origine caraibica mico, usato per denominare piccole scimmie platirrine sudamericane come gli uistiti. Questi piccoli e graziosi primati vennero importati in Europa come animali da ornamento e compagnia e probabilmente la loro espressione sgomenta è all'origine della metafora.



Si dice . . . “affrontare un fortunale”

Significa trovarsi di fronte, anche in senso metaforico, a una perturbazione atmosferica di enorme forza. Nella scala di Beaufort, divisa in 12 gradi di intensità, il fortunale occupa l'11° posto con venti oltre i 100 km/h in grado di creare gravi difficoltà alla navigazione, oltre che ingenti danni a terra. Il termine è antico e lo ritroviamo già in un passo di Boccaccio (XIV secolo): “da tempo fortunal portati” ossia da tempo burrascoso, tempestoso. Ciò perché la dea Fortuna rappresentava il fato, la sorte dispensatrice di bene e di male, (era spesso raffigurata con un timone in mano), e ad essa si affidavano i marinai quando si imbattevano in condizioni così avverse.


Si dice . . . “mausoleo”

Il termine “mausoleo” designa un monumento sepolcrale grande e maestoso, costruito per conservare le spoglie di un imperatore, un re o una figura importante e ammirata, come ad esempio il mausoleo di Augusto a Roma o quello di Teodorico a Ravenna. Questo nome deriva da Mausolo, governatore della provincia persiana della Caria, in Asia minore, dal 377 a. C. alla sua morte. Egli fece costruire ad Alicarnasso, oggi Bodrum, in Turchia, un immenso monumento funebre in marmo con statue e fregi. Affidò il progetto agli architetti greci Pizio e Satiro e la decorazione ai maggiori scultori del tempo tra cui Skopas. Alla morte di Mausolo nel 353 a. C. il monumento venne completato da Artemisia, sorella e moglie. Alto quasi 50 metri, ricco di bassorilievi, il mausoleo di Alicarnasso, fu considerato una delle sette meraviglie del mondo. Venne distrutto da un terremoto nel XIV secolo e le rovine furono usate come materiale da costruzione.


Si dice . . . “homo homini lupus”

L'espressione latina homo homini lupus, tuttora in uso nel parlare e nello scrivere colto, significa che “l'uomo è lupo per l'(altro) uomo” ed è un invito a guardarsi dalla tendenza innata nell'essere umano a sopraffare il proprio simile, proprio come un carnivoro uccide la preda per sopravvivere. Si tratta di un detto popolare di origine molto antica. La prima citazione che è giunta fino a noi risale all'Asinaria, commedia dell'autore latino Plauto vissuto tra il III e il II secolo a. C. Il modo di dire è poi stato ripreso con varie sfumature da altri autori dell'antica Roma come il poeta comico Cecilio Stazio, successivo a Plauto, ed è stato tramandato fino alla letteratura moderna.



Si dice . . . “musica delle sfere”


Si riferisce a una melodia celestiale, di bellezza e armonia tali da sembrare divina. All'origine del detto vi è un antico concetto filosofico. Il mondo classico pensava infatti che il cielo rispecchiasse la perfezione della divinità e i maggiori filosofi greci si dedicarono alla ricerca delle leggi dell'armonia celeste. Allora si era convinti che i 7 pianeti, (Sole, Mercurio, Venere, Luna, Marte, Giove e Saturno), ruotassero intorno alla Terra ciascuno in una propria sfera cosmica, di sostanza eterea e che all'esterno vi fosse un'altra sfera in cui erano incastonate le stelle fisse. Il moto di ciascuna di queste sfere, avrebbe prodotto una melodia divina, non udibile dall'orecchio umano, ma semmai decifrabile con la matematica. Questa teoria fu presente nella cultura occidentale fino all'avvento della scienza moderna.

lunedì 15 agosto 2016

Modi di dire 26

Si dice . . . “portare le arance in carcere”

L'espressione “portare le arance in carcere” a qualcuno, spesso ha un valore di dissuasione, per esempio: “Non tentare quell'azzardo! Non voglio portarti le arance in galera”. Il modo di dire deriverebbe dal fatto che un tempo il vitto delle prigioni, specie nell'800 e primo 900, era molto povero di alimenti freschi, in particolare di frutta e quindi i detenuti soffrivano di gravi carenze vitaminiche, in particolare di vitamina C, PP e D, (per la non esposizione alla luce solare), con conseguente rischio di gravi malattie come lo scorbuto. Un celebre trattato medico del 1813, sottolineava infatti come lo scorbuto fosse epidemico soprattutto negli ospedali, nelle carceri e sulle navi. Erano dunque parenti e amici a rifornire i carcerati di frutta e in particolare di agrumi, ottimi per prevenire la malattia.


Si dice . . . “sudare sette camicie”

Vuol dire fare una fatica tremenda per ottenere qualcosa. Il modo di dire è antico e con variazioni: le camicie citate potevano anche essere 3, 4 o 9. Lo scrittore toscano del '500 Francesco Berni scriveva per esempio: “Sudaron tre camicie e un farsetto” (Rime 1, 5). L'affermarsi del numero 7 è legato all'antico valore magico e arcano della cifra, che esprimeva una lunga sequenza; si va dai biblici sette giorni in cui Dio creò il mondo, (nell'ultimo si riposò), ai sette cieli, alle sette vite dei gatti, alle sette meraviglie del mondo, ai sette peccati capitali, ai sette colli e ai sette re di Roma ecc. Ha alto valore simbolico il fatto che, Eracle, morì non riuscendo a togliersi una camicia, (o tunica), avvelenata dal sangue del centauro Nesso.


Si dice . . . “troppa grazia Sant'Antonio!”

E' l'esclamazione ironica di chi ha ottenuto più di quanto desiderava, con risultati persino controproducenti. Associata alla frase vi è una leggenda popolare che racconta di un commerciante che, arricchitosi dopo una vita difficile, potè realizzare il suo sogno: comprarsi un cavallo. Quando però si trattò di montarvi in groppa, l'uomo si rese conto che a causa delle sue gambe troppo corte, non riusciva a darsi lo slancio per salire in sella. Dopo alcuni tentativi falliti il commerciante supplicò l'aiuto di Sant'Antonio, amico nelle situazioni difficili. Spiccò allora un nuovo balzo, ma mise stavolta tanta forza che scavalcò la groppa dell'animale e cadde dall'altra parte. A questo punto il poveretto esplose nell'esclamazione.


Si dice . . . “essere il grande vecchio”

La definizione di “grande vecchio” ha un senso ambiguo: può indicare un anziano leader carismatico con una prestigiosa storia alle spalle, quindi un punto di riferimento per tutti nel suo campo, ma si usa anche per indicare la figura di un “burattinaio”, regista occulto di un progetto politico, una setta religiosa o un'organizzazione criminale. Fu molto usato negli anni '80 per riferirsi a un supposto organizzatore della cosiddetta “strategia della tensione”. All'origine del motto c'è la figura del Vecchio della Montagna, definizione di Marco Polo per al-Hasan ibn as-Sabbah (1034-1124), leggendario leader musulmano ismailita. In Persia la sua setta, i Nizariti, per affermarsi praticava l'omicidio politico mirato, per cui il nome dei seguaci del vecchio capo, heyssessin, dette origine al termine assassini.



Si dice . . . “Paganini non ripete”

La frase “Paganini non ripete” viene usata con ironia da chi rifiuti l'invito di replicare quanto abbia già detto o fatto. Il riferimento del motto è a quanto accadde una sera del febbraio del 1818, al Teatro Carignano di Torino. Quella sera Carlo Felice, vicerè di Sardegna, dopo avere assistito a un concerto di Niccolò Paganini (1782-1840), uno dei più grandi violinisti di tutti i tempi, fece pregare il maestro di replicare un brano che aveva molto gradito. Il musicista genovese, grande improvvisatore in tutte quante le sue esecuzioni e quindi non avvezzo alle repliche, fece inviare al futuro re il messaggio: “Paganini non ripete”. Quel rifiuto costò al musicista il permesso di eseguire un terzo concerto, in programma sempre a Torino e lo indusse a lasciare per anni il Regno di Sardegna.


Si dice . . . “andare a zonzo”

Significa andare in giro, vagare senza porsi una meta precisa, anche per semplice divertimento. L'espressione è piuttosto antica e si ritrova già nel XVI secolo, ma non si conosce con precisione l'etimologia del termine “zonzo”. L'ipotesi più accreditata è che si tratti di una parola onomatopeica, che cioè voglia ricordare il ronzio emesso da mosche e mosconi durante il loro volo notoriamente irregolare, imprevedibile e in apparenza senza scopo. Secondo alcuni linguisti invece il termine deriverebbe da “gironzolare”, letteralmente farsi dei piccoli giri. Per qualche altro infine si tratta di un termine volutamente privo di significato, il nome di una località inesistente che giustifichi ironicamente il girovagare a vuoto.


Si dice . . . “fare il terzo grado a qualcuno”

Indica un interrogatorio duro e incalzante o una lunga serie di domande anche indiscrete, da parte di chi interroga. L'origine di questo modo di dire è incerto, ma esistono due ipotesi plausibili. Una fa riferimento ai tre gradi di giudizio del processo, l'ultimo dei quali, il più importante, si tiene in Italia davanti alla corte di Cassazione e in cui un eventuale interrogatorio è decisivo. L'altra si lega ad un episodio di storia di Francia: quando il re Filippo il Bello nel 1307 decise, per i suoi interessi, di sciogliere il ricco e potente ordine cavalleresco dei Templari, riuscì a estorcere ai cavalieri confessioni infamanti o informazioni sui tesori nascosti con interrogatori crudeli e torture. I templari avevano 3 gradi gerarchici: apprendisti, compagni e maestri; proprio gli appartenenti al “terzo grado” subirono i trattamenti più tremendi, che spesso terminavano con il rogo.


Si dice . . . “processo per direttissima”

Il processo per direttissima o, correttamente “giudizio direttissimo”, è un procedimento penale speciale in cui mancano l'udienza preliminare e la fase predibattimentale. Le condizioni richieste per procedere con questo tipo di giudizio sono l'arresto in flagranza di reato, (ossia mentre il reato viene commesso) e la confessione del reo. In questo caso su richiesta del pubblico ministero l'imputato, se l'arresto è valido, può essere giudicato entro 48 ore. Se l'arresto non viene convalidato il giudizio può avvenire antro 30 giorni dal fermo, ma se P.M. e imputato sono d'accordo. Organo giudicante è in genere il “tribunale monocratico”, composto da un solo magistrato.


Si dice . . . “prendere con le molle”

La frase fatta “prendere con le molle”, o anche “con le pinze”, si riferisce a una situazione o a una persona da trattare con estrema cautela, prudenza e attenzione, poiché da essa potrebbero derivare guai o danni. Viene usata anche per indicare affermazioni o informazioni, che si ritengono poco attendibili e a cui è meglio non credere prima di un'attenta verifica. Le molle citate nella frase, sono l'attrezzo adoperato per maneggiare i tizzoni ardenti nel camino, il tutto a sottolineare la circospezione con cui è necessario trattare qualche cosa “che scotta” e che potrebbe metaforicamente ustionare l'interessato.


Si dice . . . “porto delle nebbie”


La definizione di “porto delle nebbie” si diffuse negli anni 80', in riferimento alla Procura della Repubblica di Roma, a causa di una serie di episodi poco chiari e di insabbiamenti di inchieste giudiziarie. Il modo di dire si usa ancora oggi a indicare uffici o sportelli in cui scompaiono pratiche oppure non si dà seguito a istanze. Il riferimento è al titolo italiano del film di Marcel Carnè, Le Quai des brumes (1938), con Jean Gabin e Michèle Morgan, ispirato al romanzo di Pierre Mac Orlan (1927). Ma nella sua struttura è più aderente al detto il quasi omonimo romanzo poliziesco, Le port des brumes di Georges Simenon (1932). Qui il protagonista, il commissario Maigret, per risolvere un caso di omicidio, si scontra con un muro di omertà eretto dagli abitanti di un piccolo porto della Normandia.

giovedì 21 aprile 2016

Modi di dire 25.

Si dice . . . “darsele di santa ragione”

Vuol dire picchiarsi duramente, senza risparmiarsi percosse e violenze, e oggi, in senso figurato, anche avere una disputa verbale aspra fino alla collera. L'origine di questo modo di dire fa riferimento
ai metodi educativi repressivi un tempo diffusissimi nei collegi, nelle scuole, nei luoghi di pena e anche fra le mura domestiche che, senza particolari remore, prevedevano punizioni psicologiche e corporali anche violente. Questi maltrattamenti venivano giustificati ideologicamente da un superiore scopo educativo e persino di elevazione spirituale, (la “santa ragione”), che dovevano far superare il rifiuto psicologico dell'educatore di far del male a una ragazza oppure a un bambino inermi.


Si dice . . . “non avere né arte né parte”

Si riferisce a chi non dimostra qualità e competenze particolari e nemmeno dispone dei mezzi necessari per emergere nella vita: è insomma un povero diavolo. L'origine del motto è medioevale. Il termine “arte” fa riferimento alle corporazioni che riunivano i lavoratori in base al loro mestiere e alle attività; per parte si deve intendere il “partito”, sia come appartenenza a una parte politica, (che aveva quindi potere nella società), sia come diritto a una eredità patrimoniale. Pertanto, non possedere né arte né parte, equivaleva a non poter avere alcun ruolo nella comunità di quel tempo.


Si dice . . . “fare filotto”

Significa ottenere dei risultati positivi attraverso una serie di eventi in successione, come chi in uno sport vince molte partite consecutive, oppure chi ottiene il massimo dei voti in una sequenza di esami universitari. Il modo di dire deriva dal gioco del biliardo detto “all'italiana”, in cui “fare filotto”, vuol dire fare abbattere dal pallino o dalla palla avversaria una fila di piccoli birilli allineati al centro del tavolo in numero di 5, o di 9 nella “goriziana”. Tutto ciò conferisce a chi lo effettua un buon punteggio in partita.


Si dice . . . “prendere per il naso”

L'espressione “prendere o menare per il naso” qualcuno significa buggerarlo, farsi beffe di lui. Il primo significato della locuzione era un altro ossia: “Condurre in giro qualcuno e fargli fare ciò che si vuole”, es: “Mi tiri come un bufalo pel naso”, Ludovico Ariosto, Satire. E qui l'origine del modo di dire che deriva dall'uso, già presso gli antichi greci, di condurre i bovini tirandoli per l'anello infilato nel naso. Ciò consente infatti di condurre facilmente l'animale, indotto dal dolore ad assecondare i movimenti.



Si dice . . . “fare cilecca”

Vuol dire fallire, fare fiasco, venire meno nel momento in cui si dovrebbe meglio figurare. Nel gergo militare si riferisce ad armi che si inceppano al momento di sparare; si usa anche per alludere a una mancata prestazione sessuale. In origine il termine “cilecca”, o scilecca, significava beffa, sberleffo, (forse dal latino illicium, “adescamento”, o dal tedesco schielauge, “occhio strabico”, nel senso di fare gli occhi storti a mò di presa in giro), e si riferiva in particolare alla burla consistente nel ritirare all'ultimo momento la mano con la quale si porge qualcosa. Quindi per estensione un disilludere, un non mantenere una promessa.



Si dice . . . “una rondine non fa primavera”

Il detto popolare “una rondine non fa primavera” ha il seguente sottinteso: un singolo evento positivo non basta a far trarre conclusioni generali favorevoli. Le rondini infatti sopraggiungono in genere in grandi stormi, (i primi ad arrivare in Italia dal NordAfrica e dalla penisola araba in genere sono i balestrucci), segnando l'arrivo della bella stagione. Una sola rondine visibile in cielo può aver perso la cognizione spazio-temporale e dunque restare isolata. Il proverbio è erede della locuzione latina “Una hirundo non facit ver”, ma è di origine greca. Ad esempio nell'opera Etica Nicomachea di Aristotele, (IV sec. a.C.), il filosofo spiega: “Come una rondine non fa primavera, né la fa un solo giorno di sole, così un solo giorno o un breve spazio di tempo non fan felice nessuno”:


Si dice . . . “rompere le uova nel paniere”

Significa rovinare con un proprio intervento, i progetti pazientemente preparati da qualcuno ancor prima che si realizzino. Il modo di dire è di evidenti origini contadine. Il “paniere” citato nel detto infatti, va inteso come la cesta o la cassetta approntata dall'allevatore che le galline ovaiole, a partire dai 4/5 mesi di vita circa, utilizzano come nido per deporre le uova. Le migliori galline, che sono in grado di deporre un uovo al giorno per un anno e mezzo, quando si pongono alla cova nel paniere, lo fanno per circa 20 giorni. Ecco quindi che l'espressione richiama il distruggere qualcosa, prima che si concretizzi.


Si dice . . . “zona Cesarini”

L'espressione indica gli ultimi momenti di una partita di calcio o di una sfida sportiva e, per estensione, la fase finale di un evento emozionante. La locuzione fu coniata dal giornalista Eugenio Danese con riferimento a Renato Cesarini (1906-1969), attaccante oriundo argentino della Juventus e della Nazionale. Cesarini segnò due gol al 90' nel giro di sette giorni e la seconda fu la rete della vittoria (3-2) per gli azzurri dell'incontro di Coppa Internazionale Italia-Ungheria, il 13/12/1931. La domenica successiva Danese descrisse sul giornale “Il Tifone” un gol avvenuto in “zona Cesarini” riferendosi a una rete decisiva segnata all'89' della partita di campionato tra Ambrosiana/Inter e Roma, da parte del giocatore nerazzurro Visentin.


Si dice . . . “ad usum Delphini”

L'espressione in latino “ad usum Delphini” indica la modifica di un testo, un discorso, una testimonianza, di cui si è alterato o falsificato il contenuto originale per raggiungere certi scopi, per esempio di propaganda. La locuzione nasce in Francia nel XVII secolo. Ad usum Delphini venne stampigliato sulla copertina dei testi classici greci e latini, destinati all'istruzione del figlio del re Luigi XIV e di Maria Teresa d'Austria, Luigi (1661-1711) detto Gran Delfino, (ossia principe del Delfinato), che era il titolo dell'erede al trono di Francia. I testi venivano epurati dei passaggi ritenuti scabrosi o inadatti, alla giovane età del Delfino. In seguito la locuzione passò a indicare l'edizione di un testo semplificato, per adattarlo agli allievi delle scuole inferiori oppure un referto medico “attenuato”, per non far capire il vero contenuto al paziente.



Si dice . . . “fare le scarpe a qualcuno”


Vuol dire manovrare dietro le spalle contro il prossimo fingendosi amico, con l'intendo di scalzarlo dal posto che occupa o comunque di toglierlo di mezzo. Il modo di dire è tipicamente italiano – non ha riscontri all'estero – ed è molto antico. Lo si trova già in documenti del XIX secolo. Qualche storico della lingua lo fa risalire al vecchio gergo militaresco da caserma, ma secondo l'ipotesi più plausibile, la frase fatta avrebbe in origine il significato di seppellire, di sbarazzarsi di qualcuno in senso fisico, riferendosi all'abitudine in uso nel sud Italia del '600, di far calzare ai defunti di alto rango delle scarpe confezionate per l'occasione, in modo da affrontare al meglio l'ultimo grande viaggio. Di qui il senso metaforico che conosciamo.