Si
dice . . . “portare le arance in carcere”
L'espressione
“portare le arance in carcere” a qualcuno, spesso ha un valore di
dissuasione, per esempio: “Non tentare quell'azzardo! Non voglio
portarti le arance in galera”. Il modo di dire deriverebbe dal
fatto che un tempo il vitto delle prigioni, specie nell'800 e primo
900, era molto povero di alimenti freschi, in particolare di frutta e
quindi i detenuti soffrivano di gravi carenze vitaminiche, in
particolare di vitamina C, PP e D, (per la non esposizione alla luce
solare), con conseguente rischio di gravi malattie come lo scorbuto.
Un celebre trattato medico del 1813, sottolineava infatti come lo
scorbuto fosse epidemico soprattutto negli ospedali, nelle carceri e
sulle navi. Erano dunque parenti e amici a rifornire i carcerati di
frutta e in particolare di agrumi, ottimi per prevenire la malattia.
Si
dice . . . “sudare sette camicie”
Vuol
dire fare una fatica tremenda per ottenere qualcosa. Il modo di
dire è antico e con variazioni: le camicie citate potevano anche
essere 3, 4 o 9. Lo scrittore toscano del '500 Francesco Berni
scriveva per esempio: “Sudaron tre camicie e un farsetto” (Rime
1, 5). L'affermarsi del numero 7 è legato all'antico valore magico
e arcano della cifra, che esprimeva una lunga sequenza; si va dai
biblici sette giorni in cui Dio creò il mondo, (nell'ultimo si
riposò), ai sette cieli, alle sette vite dei gatti, alle sette
meraviglie del mondo, ai sette peccati capitali, ai sette colli e ai
sette re di Roma ecc. Ha alto valore simbolico il fatto che,
Eracle, morì non riuscendo a togliersi una camicia, (o tunica),
avvelenata dal sangue del centauro Nesso.
Si
dice . . . “troppa grazia Sant'Antonio!”
E'
l'esclamazione ironica di chi ha ottenuto più di quanto desiderava,
con risultati persino controproducenti. Associata alla frase vi è
una leggenda popolare che racconta di un commerciante che,
arricchitosi dopo una vita difficile, potè realizzare il suo sogno:
comprarsi un cavallo. Quando però si trattò di montarvi in
groppa, l'uomo si rese conto che a causa delle sue gambe troppo
corte, non riusciva a darsi lo slancio per salire in sella. Dopo
alcuni tentativi falliti il commerciante supplicò l'aiuto di
Sant'Antonio, amico nelle situazioni difficili. Spiccò allora un
nuovo balzo, ma mise stavolta tanta forza che scavalcò la groppa
dell'animale e cadde dall'altra parte. A questo punto il poveretto
esplose nell'esclamazione.
Si
dice . . . “essere il grande vecchio”
La
definizione di “grande vecchio” ha un senso ambiguo: può
indicare un anziano leader carismatico con una prestigiosa storia
alle spalle, quindi un punto di riferimento per tutti nel suo campo,
ma si usa anche per indicare la figura di un “burattinaio”,
regista occulto di un progetto politico, una setta religiosa o
un'organizzazione criminale. Fu molto usato negli anni '80 per
riferirsi a un supposto organizzatore della cosiddetta “strategia
della tensione”. All'origine del motto c'è la figura del Vecchio
della Montagna, definizione di Marco Polo per al-Hasan ibn as-Sabbah
(1034-1124), leggendario leader musulmano ismailita. In Persia la
sua setta, i Nizariti, per affermarsi praticava l'omicidio politico
mirato, per cui il nome dei seguaci del vecchio capo, heyssessin,
dette origine al termine assassini.
Si
dice . . . “Paganini non ripete”
La
frase “Paganini non ripete” viene usata con ironia da chi rifiuti
l'invito di replicare quanto abbia già detto o fatto. Il
riferimento del motto è a quanto accadde una sera del febbraio del
1818, al Teatro Carignano di Torino. Quella sera Carlo Felice,
vicerè di Sardegna, dopo avere assistito a un concerto di Niccolò
Paganini (1782-1840), uno dei più grandi violinisti di tutti i
tempi, fece pregare il maestro di replicare un brano che aveva molto
gradito. Il musicista genovese, grande improvvisatore in tutte
quante le sue esecuzioni e quindi non avvezzo alle repliche, fece
inviare al futuro re il messaggio: “Paganini non ripete”. Quel
rifiuto costò al musicista il permesso di eseguire un terzo
concerto, in programma sempre a Torino e lo indusse a lasciare per
anni il Regno di Sardegna.
Si
dice . . . “andare a zonzo”
Significa
andare in giro, vagare senza porsi una meta precisa, anche per
semplice divertimento. L'espressione è piuttosto antica e si
ritrova già nel XVI secolo, ma non si conosce con precisione
l'etimologia del termine “zonzo”. L'ipotesi più accreditata è
che si tratti di una parola onomatopeica, che cioè voglia ricordare
il ronzio emesso da mosche e mosconi durante il loro volo
notoriamente irregolare, imprevedibile e in apparenza senza scopo.
Secondo alcuni linguisti invece il termine deriverebbe da
“gironzolare”, letteralmente farsi dei piccoli giri. Per
qualche altro infine si tratta di un termine volutamente privo di
significato, il nome di una località inesistente che giustifichi
ironicamente il girovagare a vuoto.
Si
dice . . . “fare il terzo grado a qualcuno”
Indica
un interrogatorio duro e incalzante o una lunga serie di domande
anche indiscrete, da parte di chi interroga. L'origine di questo
modo di dire è incerto, ma esistono due ipotesi plausibili. Una fa
riferimento ai tre gradi di giudizio del processo, l'ultimo dei
quali, il più importante, si tiene in Italia davanti alla corte di
Cassazione e in cui un eventuale interrogatorio è decisivo.
L'altra si lega ad un episodio di storia di Francia: quando il re
Filippo il Bello nel 1307 decise, per i suoi interessi, di sciogliere
il ricco e potente ordine cavalleresco dei Templari, riuscì a
estorcere ai cavalieri confessioni infamanti o informazioni sui
tesori nascosti con interrogatori crudeli e torture. I templari
avevano 3 gradi gerarchici: apprendisti, compagni e maestri; proprio
gli appartenenti al “terzo grado” subirono i trattamenti più
tremendi, che spesso terminavano con il rogo.
Si
dice . . . “processo per direttissima”
Il
processo per direttissima o, correttamente “giudizio direttissimo”,
è un procedimento penale speciale in cui mancano l'udienza
preliminare e la fase predibattimentale. Le condizioni richieste
per procedere con questo tipo di giudizio sono l'arresto in flagranza
di reato, (ossia mentre il reato viene commesso) e la confessione del
reo. In questo caso su richiesta del pubblico ministero l'imputato,
se l'arresto è valido, può essere giudicato entro 48 ore. Se
l'arresto non viene convalidato il giudizio può avvenire antro 30
giorni dal fermo, ma se P.M. e imputato sono d'accordo. Organo
giudicante è in genere il “tribunale monocratico”, composto da
un solo magistrato.
Si
dice . . . “prendere con le molle”
La
frase fatta “prendere con le molle”, o anche “con le pinze”,
si riferisce a una situazione o a una persona da trattare con estrema
cautela, prudenza e attenzione, poiché da essa potrebbero derivare
guai o danni. Viene usata anche per indicare affermazioni o
informazioni, che si ritengono poco attendibili e a cui è meglio non
credere prima di un'attenta verifica. Le molle citate nella frase,
sono l'attrezzo adoperato per maneggiare i tizzoni ardenti nel
camino, il tutto a sottolineare la circospezione con cui è
necessario trattare qualche cosa “che scotta” e che potrebbe
metaforicamente ustionare l'interessato.
Si
dice . . . “porto delle nebbie”
La
definizione di “porto delle nebbie” si diffuse negli anni 80', in
riferimento alla Procura della Repubblica di Roma, a causa di una
serie di episodi poco chiari e di insabbiamenti di inchieste
giudiziarie. Il modo di dire si usa ancora oggi a indicare uffici o
sportelli in cui scompaiono pratiche oppure non si dà seguito a
istanze. Il riferimento è al titolo italiano del film di Marcel
Carnè, Le
Quai des brumes (1938), con Jean Gabin e Michèle Morgan, ispirato al romanzo di
Pierre Mac Orlan (1927). Ma nella sua struttura è più aderente al
detto il quasi omonimo romanzo poliziesco, Le
port des brumes
di Georges Simenon (1932). Qui il protagonista, il commissario
Maigret, per risolvere un caso di omicidio, si scontra con un muro di
omertà eretto dagli abitanti di un piccolo porto della Normandia.
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