Si
dice . . . “tirare l'acqua al proprio mulino”
Significa
argomentare un discorso o proporre una tesi in funzione del proprio
interesse. Fare insomma, con un giro di parole, il proprio gioco.
Il riferimento alla frase fatta e il mulino ad acqua, uno dei più
antichi impianti meccanici creato dall'uomo per la produzione di
generi alimentari, già presente al tempo dell'antica Roma e
diffusosi in Europa a partire dal IX secolo. L'energia prodotta
dalla ruota a pale di un mulino ad acqua, (in genere mossa dal corso
di un fiume o di un torrente), permetteva alla macina di polverizzare
150kg di grano in un'ora, l'equivalente del lavoro di 40 schiavi.
Ecco dunque perché era importante che al proprio mulino, arrivasse
più acqua possibile.
Si
dice . . . “riso sardonico”
Il
riso sardonico, (dal greco: sardonios ghelos), è uno spasmo dei
muscoli facciali che produce un curioso ghigno. Come fenomeno
patologico lo si osserva nei soggetti colpiti da tetano, ma è detto
così anche un semplice sorriso di tensione, malevolo o sarcastico.
“Sardonico” è aggettivo riferito agli antichi sardi e lo si
trova anche nell'Odissea (VIII a.C.). Omero infatti così definisce
il riso beffardo di Ulisse, dopo aver schivato un oggetto
scagliatogli da Ctesippo. Più tardi Simonide di Ceo, chiama così
il riso di dolore provocato dall'abbraccio rovente del mitico automadi bronzo Talos, ai predoni sardi che tentavano di sbarcare a Creta.
In realtà, all'origine sembrano esserci le maschere funebri dei
fenici di Sardegna, il cui ghigno esagerato doveva servire a
proteggere il defunto dagli spiriti maligni.
Si
dice . . . “i giorni della merla”
Con
“giorni della merla” ci si riferisce agli ultimi tre giorni di
gennaio, un tempo considerati come i più freddi dell'anno. Secondo
una diffusa leggenda sul tema, la merla, in origine di piumaggio
bianco, veniva perseguitata dal mese di gennaio che, dispettoso, si
divertiva a ricoprire il terreno di ghiaccio per impedirle di beccare
il cibo. La merla allora un certo anno, si chiuse in una tana con
cibo sufficiente a superare l'odioso mese, che al tempo contava solo
28 giorni. Gennaio, infuriato per la furbizia della merla, rubò
tre giorni a febbraio riempiendoli di tormente di neve. La merla,
rimasta senza cibo, dovette rifugiarsi in un camino e quando uscì si
trovò per sempre con la livrea grigia di fuliggine. Questa antica
leggenda fa riferimento all'avvento del calendario di Giulio Cesare,
che nel 45 a.C. aggiunse due giorni a gennaio, da 29 a 31, ritardando
l'inizio dei riti di purificazione previsti in febbraio.
Si
dice . . . “fare questioni di lana caprina”
Questo
modo di dire significa fare discussioni inutili e prolisse con scarso
fondamento, oppure dispute intorno ad argomenti superflui, allorchè
si vuole cavillare su questioni di poco conto o di difficile
decifrazione. De
lana caprina,
(intorno alla lana caprina), è una locuzione già in uso presso i
latini, (ne troviamo riferimento nelle epistole del poeta Orazio), ed
aveva già il significato attuale. L'immagine della frase fatta ha
come origine la difficoltà a classificare il mantello che ricopre le
capre: se si tratti di lana, di pelliccia o di vello. Ed inoltre,
trattandosi di pelo in genere corto, ispido e pungente e dunque
inadatto ad essere utilizzato come fibra tessile, è considerato di
scarso valore, come le dispute a cui si fa riferimento.
Si
dice . . . “essere una pecora nera”
L'espressione
denuncia un elemento che si distingue in maniera negativa dal resto
dei membri di un gruppo, (una famiglia o un clan ad esempio). La
frase fatta trae origine dagli allevamenti ovini, incentrati sulla
produzione di lana. Le pecore nere, (fenomeno genetico detto
“melanismo”), sono infatti mal accette presso gli allevatori, in
quanto possono compromettere il pregio della lana bianca, la più
facile da lavorare e colorare. Per questo le pecore nere vengono in
genere trattate in maniera separata, oppure escluse dalla tosatura.
Vi è inoltre un aspetto visivo: in un gregge composto da capi
bianchi, un ovino scuro non si perde di vista. A ciò si aggiunge
il riferimento alla superstizione sul colore nero, per esempio
“sfortuna nera”.
Si
dice . . . “essere un allocco o fare la civetta”
I
rapaci notturni per il loro aspetto inquietante e certe cupe
caratteristiche di vita, colpiscono da sempre la fantasia popolare.
Da qui vari modi di dire che li riguardano: “non fare il gufo”si
dice a chi fa previsioni negative e deriva dal lugubre richiamo del
grande predatore e dalla sua espressione che pare accigliata; “fare
la civetta” si riferisce invece a una donna che ami farsi
corteggiare e origina dalla caccia con la civetta viva, oggi vietata,
che è in grado di attrarre le allodole con le sue buffe movenze;
dare dell'allocco, ossia dello stupido a qualcuno, deriva dallo
sguardo fisso e in apparenza sgomento di questo uccello, invece
tutt'altro che sciocco; si definisce infine “vecchio barbagianni”
un anziano brontolone perché questo pennuto, che sa emettere acuti
stridii, ha il muso bianco e ciò evoca l'aspetto di un vegliardo.
Si
dice . . . “essere ai nastri di partenza”
Vuol
dire apprestarsi a intraprendere qualcosa, in genere una competizione
sportiva, ma in senso figurato anche un viaggio, una carriera,
un'impresa. L'immagine si riferisce alla sottile striscia di seta
tesa al punto iniziale di un percorso sportivo, (su strada o pista),
che viene tagliata o fatta cadere al via della gara dal direttore di
corsa o da un inviato ufficiale. La più antica installazione del
genere appartiene alle corse dei cavalli: basti pensare al
canapo,
il cordone teso al punto di partenza di un palio ippico, (quello di
Asti per esempio è del XIII secolo), e che viene abbassato dal
mossiere al via della corsa. Questa stessa funzione è stata
riprodotta dal nastro inaugurale, che, tagliato da un'autorità
politica in una cerimonia apposita, saluta l'entrata in funzione di
un'opera di pubblico interesse.
Si
dice . . . “gli alti papaveri”
La
definizione di “alti papaveri” indica personaggi eminenti che
hanno molto potere o ricoprono cariche importanti. L'origine del
detto risale ad un episodio narrato dallo storico latino Tito
Livio,
(59 a.C. - 17 d.C.): nella sua Storia di Roma
Livio racconta che il 7° re di Roma Tarquinio il Superbo, volendosi
impadronire della città ostile di Gabi, vi mando il figlio Sesto
Tarquinio in finto esilio. Il giovane raggiunse una posizione di
rilievo ma, in difficoltà di fronte ai propositi di rivolta locali,
inviò al padre un messo per un consiglio. Il re non rispose, ma si
diresse con il messo in un prato e con un bastone falciò i papaveri
più alti. L'inviato tornò a Gabi e riferì il gesto. Sesto
Tarquinio afferrò il messaggio paterno e si affrettò a far
sopprimere i cittadini più importanti, indebolendo così la città
che venne poi facilmente assoggettata da Roma.
Si
dice . . . “prendersi la briga”
La
frase idiomatica, “prendersi la briga” (di fare qualcosa), vuol
dire assumersi la responsabilità di affrontare una situazione
noiosa, fastidiosa, sgradita. Più in generale assumersi un
incarico che va svolto comunque. Troviamo il termine “briga”
già nella letteratura medioevale, da Dante Alighieri a Giovanni
Boccaccio, col significato di bufera, turbine di vento e
metaforicamente di conflitto, lite, contesa. Da qui il modo di dire
tuttora in uso “attaccare briga”, ossia cercare un pretesto per
litigare. L'origine del vocabolo non è certa, ma è sicuramente
antichissima visto che si ritrova in molte lingue di tutta Europa.
E' sicuro comunque che nel Medioevo briga indicasse anche una piccola
compagnia di soldati di ventura, da cui sono derivati i termini
“brigata” e “brigante”.
Si
dice . . . “discutere del sesso degli angeli”
Vuol
dire cavillare su cose oziose, perdendosi in dettagli futili,
marginali e sprecando così del tempo prezioso. Nelle prime
raffigurazioni di angeli dell'arte paleocristiana, essi sono mostrati
come giovinetti efebici senza ali né aureola, (si consoliderà poi
nel corso dei secoli l'aspetto che conosciamo). In nessun testo
sacro si parlava del sesso a cui appartenessero, il che fece nascere
infinite e spesso aspre dispute teologiche, nell'ambito della chiesa
cristiana. Al punto che rimase nella convinzione popolare, il fatto
che i teologi bizantini continuassero le loro sterili dispute sul
sesso degli angeli, anche mentre i turchi di Maometto II espugnavano
Costantinopoli (1453) ponendo fine all'impero romano d'Oriente.
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