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sabato 3 giugno 2017

Modi di dire 29.

Si dice . . . “tirare l'acqua al proprio mulino”

Significa argomentare un discorso o proporre una tesi in funzione del proprio interesse. Fare insomma, con un giro di parole, il proprio gioco.
Il riferimento alla frase fatta e il mulino ad acqua, uno dei più antichi impianti meccanici creato dall'uomo per la produzione di generi alimentari, già presente al tempo dell'antica Roma e diffusosi in Europa a partire dal IX secolo. L'energia prodotta dalla ruota a pale di un mulino ad acqua, (in genere mossa dal corso di un fiume o di un torrente), permetteva alla macina di polverizzare 150kg di grano in un'ora, l'equivalente del lavoro di 40 schiavi. Ecco dunque perché era importante che al proprio mulino, arrivasse più acqua possibile.


Si dice . . . “riso sardonico”

Il riso sardonico, (dal greco: sardonios ghelos), è uno spasmo dei muscoli facciali che produce un curioso ghigno. Come fenomeno patologico lo si osserva nei soggetti colpiti da tetano, ma è detto così anche un semplice sorriso di tensione, malevolo o sarcastico. “Sardonico” è aggettivo riferito agli antichi sardi e lo si trova anche nell'Odissea (VIII a.C.). Omero infatti così definisce il riso beffardo di Ulisse, dopo aver schivato un oggetto scagliatogli da Ctesippo. Più tardi Simonide di Ceo, chiama così il riso di dolore provocato dall'abbraccio rovente del mitico automadi bronzo Talos, ai predoni sardi che tentavano di sbarcare a Creta. In realtà, all'origine sembrano esserci le maschere funebri dei fenici di Sardegna, il cui ghigno esagerato doveva servire a proteggere il defunto dagli spiriti maligni.


Si dice . . . “i giorni della merla”

Con “giorni della merla” ci si riferisce agli ultimi tre giorni di gennaio, un tempo considerati come i più freddi dell'anno. Secondo una diffusa leggenda sul tema, la merla, in origine di piumaggio bianco, veniva perseguitata dal mese di gennaio che, dispettoso, si divertiva a ricoprire il terreno di ghiaccio per impedirle di beccare il cibo. La merla allora un certo anno, si chiuse in una tana con cibo sufficiente a superare l'odioso mese, che al tempo contava solo 28 giorni. Gennaio, infuriato per la furbizia della merla, rubò tre giorni a febbraio riempiendoli di tormente di neve. La merla, rimasta senza cibo, dovette rifugiarsi in un camino e quando uscì si trovò per sempre con la livrea grigia di fuliggine. Questa antica leggenda fa riferimento all'avvento del calendario di Giulio Cesare, che nel 45 a.C. aggiunse due giorni a gennaio, da 29 a 31, ritardando l'inizio dei riti di purificazione previsti in febbraio.


Si dice . . . “fare questioni di lana caprina”

Questo modo di dire significa fare discussioni inutili e prolisse con scarso fondamento, oppure dispute intorno ad argomenti superflui, allorchè si vuole cavillare su questioni di poco conto o di difficile decifrazione. De lana caprina, (intorno alla lana caprina), è una locuzione già in uso presso i latini, (ne troviamo riferimento nelle epistole del poeta Orazio), ed aveva già il significato attuale. L'immagine della frase fatta ha come origine la difficoltà a classificare il mantello che ricopre le capre: se si tratti di lana, di pelliccia o di vello. Ed inoltre, trattandosi di pelo in genere corto, ispido e pungente e dunque inadatto ad essere utilizzato come fibra tessile, è considerato di scarso valore, come le dispute a cui si fa riferimento.


Si dice . . . “essere una pecora nera”

L'espressione denuncia un elemento che si distingue in maniera negativa dal resto dei membri di un gruppo, (una famiglia o un clan ad esempio). La frase fatta trae origine dagli allevamenti ovini, incentrati sulla produzione di lana. Le pecore nere, (fenomeno genetico detto “melanismo”), sono infatti mal accette presso gli allevatori, in quanto possono compromettere il pregio della lana bianca, la più facile da lavorare e colorare. Per questo le pecore nere vengono in genere trattate in maniera separata, oppure escluse dalla tosatura. Vi è inoltre un aspetto visivo: in un gregge composto da capi bianchi, un ovino scuro non si perde di vista. A ciò si aggiunge il riferimento alla superstizione sul colore nero, per esempio “sfortuna nera”.


Si dice . . . “essere un allocco o fare la civetta”

I rapaci notturni per il loro aspetto inquietante e certe cupe caratteristiche di vita, colpiscono da sempre la fantasia popolare. Da qui vari modi di dire che li riguardano: “non fare il gufo”si dice a chi fa previsioni negative e deriva dal lugubre richiamo del grande predatore e dalla sua espressione che pare accigliata; “fare la civetta” si riferisce invece a una donna che ami farsi corteggiare e origina dalla caccia con la civetta viva, oggi vietata, che è in grado di attrarre le allodole con le sue buffe movenze; dare dell'allocco, ossia dello stupido a qualcuno, deriva dallo sguardo fisso e in apparenza sgomento di questo uccello, invece tutt'altro che sciocco; si definisce infine “vecchio barbagianni” un anziano brontolone perché questo pennuto, che sa emettere acuti stridii, ha il muso bianco e ciò evoca l'aspetto di un vegliardo.



Si dice . . . “essere ai nastri di partenza”

Vuol dire apprestarsi a intraprendere qualcosa, in genere una competizione sportiva, ma in senso figurato anche un viaggio, una carriera, un'impresa. L'immagine si riferisce alla sottile striscia di seta tesa al punto iniziale di un percorso sportivo, (su strada o pista), che viene tagliata o fatta cadere al via della gara dal direttore di corsa o da un inviato ufficiale. La più antica installazione del genere appartiene alle corse dei cavalli: basti pensare al canapo, il cordone teso al punto di partenza di un palio ippico, (quello di Asti per esempio è del XIII secolo), e che viene abbassato dal mossiere al via della corsa. Questa stessa funzione è stata riprodotta dal nastro inaugurale, che, tagliato da un'autorità politica in una cerimonia apposita, saluta l'entrata in funzione di un'opera di pubblico interesse.


Si dice . . . “gli alti papaveri”

La definizione di “alti papaveri” indica personaggi eminenti che hanno molto potere o ricoprono cariche importanti. L'origine del detto risale ad un episodio narrato dallo storico latino Tito Livio, (59 a.C. - 17 d.C.): nella sua Storia di Roma Livio racconta che il 7° re di Roma Tarquinio il Superbo, volendosi impadronire della città ostile di Gabi, vi mando il figlio Sesto Tarquinio in finto esilio. Il giovane raggiunse una posizione di rilievo ma, in difficoltà di fronte ai propositi di rivolta locali, inviò al padre un messo per un consiglio. Il re non rispose, ma si diresse con il messo in un prato e con un bastone falciò i papaveri più alti. L'inviato tornò a Gabi e riferì il gesto. Sesto Tarquinio afferrò il messaggio paterno e si affrettò a far sopprimere i cittadini più importanti, indebolendo così la città che venne poi facilmente assoggettata da Roma.


Si dice . . . “prendersi la briga”

La frase idiomatica, “prendersi la briga” (di fare qualcosa), vuol dire assumersi la responsabilità di affrontare una situazione noiosa, fastidiosa, sgradita. Più in generale assumersi un incarico che va svolto comunque. Troviamo il termine “briga” già nella letteratura medioevale, da Dante Alighieri a Giovanni Boccaccio, col significato di bufera, turbine di vento e metaforicamente di conflitto, lite, contesa. Da qui il modo di dire tuttora in uso “attaccare briga”, ossia cercare un pretesto per litigare. L'origine del vocabolo non è certa, ma è sicuramente antichissima visto che si ritrova in molte lingue di tutta Europa. E' sicuro comunque che nel Medioevo briga indicasse anche una piccola compagnia di soldati di ventura, da cui sono derivati i termini “brigata” e “brigante”.


Si dice . . . “discutere del sesso degli angeli”


Vuol dire cavillare su cose oziose, perdendosi in dettagli futili, marginali e sprecando così del tempo prezioso. Nelle prime raffigurazioni di angeli dell'arte paleocristiana, essi sono mostrati come giovinetti efebici senza ali né aureola, (si consoliderà poi nel corso dei secoli l'aspetto che conosciamo). In nessun testo sacro si parlava del sesso a cui appartenessero, il che fece nascere infinite e spesso aspre dispute teologiche, nell'ambito della chiesa cristiana. Al punto che rimase nella convinzione popolare, il fatto che i teologi bizantini continuassero le loro sterili dispute sul sesso degli angeli, anche mentre i turchi di Maometto II espugnavano Costantinopoli (1453) ponendo fine all'impero romano d'Oriente.

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