Si
dice . . . “darsele di santa ragione”
Vuol
dire picchiarsi duramente, senza risparmiarsi percosse e violenze, e
oggi, in senso figurato, anche avere una disputa verbale aspra fino
alla collera. L'origine di questo modo di dire fa riferimento
ai
metodi educativi repressivi un tempo diffusissimi nei collegi, nelle
scuole, nei luoghi di pena e anche fra le mura domestiche che, senza
particolari remore, prevedevano punizioni psicologiche e corporali
anche violente. Questi maltrattamenti venivano giustificati
ideologicamente da un superiore scopo educativo e persino di
elevazione spirituale, (la “santa ragione”), che dovevano far
superare il rifiuto psicologico dell'educatore di far del male a una
ragazza oppure a un bambino inermi.
Si
dice . . . “non avere né arte né parte”
Si
riferisce a chi non dimostra qualità e competenze particolari e
nemmeno dispone dei mezzi necessari per emergere nella vita: è
insomma un povero diavolo. L'origine del motto è medioevale. Il
termine “arte” fa riferimento alle corporazioni che riunivano i
lavoratori in base al loro mestiere e alle attività; per parte si
deve intendere il “partito”, sia come appartenenza a una parte
politica, (che aveva quindi potere nella società), sia come diritto
a una eredità patrimoniale. Pertanto, non possedere né arte né
parte, equivaleva a non poter avere alcun ruolo nella comunità di
quel tempo.
Si
dice . . . “fare filotto”
Significa
ottenere dei risultati positivi attraverso una serie di eventi in
successione, come chi in uno sport vince molte partite consecutive,
oppure chi ottiene il massimo dei voti in una sequenza di esami
universitari. Il modo di dire deriva dal gioco del biliardo detto
“all'italiana”, in cui “fare filotto”, vuol dire fare
abbattere dal pallino o dalla palla avversaria una fila di piccoli
birilli allineati al centro del tavolo in numero di 5, o di 9 nella
“goriziana”. Tutto ciò conferisce a chi lo effettua un buon
punteggio in partita.
Si
dice . . . “prendere per il naso”
L'espressione
“prendere o menare per il naso” qualcuno significa buggerarlo,
farsi beffe di lui. Il primo significato della locuzione era un
altro ossia: “Condurre in giro qualcuno e fargli fare ciò che si
vuole”, es: “Mi
tiri come un bufalo pel naso”,
Ludovico Ariosto, Satire.
E qui l'origine del modo di dire che deriva dall'uso, già presso
gli antichi greci, di condurre i bovini tirandoli per l'anello
infilato nel naso. Ciò consente infatti di condurre facilmente
l'animale, indotto dal dolore ad assecondare i movimenti.
Si
dice . . . “fare cilecca”
Vuol
dire fallire, fare fiasco, venire meno nel momento in cui si dovrebbe
meglio figurare. Nel gergo militare si riferisce ad armi che si
inceppano al momento di sparare; si usa anche per alludere a una
mancata prestazione sessuale. In origine il termine “cilecca”,
o scilecca, significava beffa, sberleffo, (forse dal latino illicium,
“adescamento”, o dal tedesco schielauge,
“occhio strabico”, nel senso di fare gli occhi storti a mò di
presa in giro), e si riferiva in particolare alla burla consistente
nel ritirare all'ultimo momento la mano con la quale si porge
qualcosa. Quindi per estensione un disilludere, un non mantenere
una promessa.
Si
dice . . . “una rondine non fa primavera”
Il
detto popolare “una rondine non fa primavera” ha il seguente
sottinteso: un singolo evento positivo non basta a far trarre
conclusioni generali favorevoli. Le rondini infatti sopraggiungono
in genere in grandi stormi, (i primi ad arrivare in Italia dal
NordAfrica e dalla penisola araba in genere sono i balestrucci),
segnando l'arrivo della bella stagione. Una sola rondine visibile
in cielo può aver perso la cognizione spazio-temporale e dunque
restare isolata. Il proverbio è erede della locuzione latina “Una
hirundo non facit ver”,
ma è di origine greca. Ad esempio nell'opera Etica Nicomachea
di Aristotele, (IV sec. a.C.), il filosofo spiega: “Come una
rondine non fa primavera, né la fa un solo giorno di sole, così un
solo giorno o un breve spazio di tempo non fan felice nessuno”:
Si
dice . . . “rompere le uova nel paniere”
Significa
rovinare con un proprio intervento, i progetti pazientemente
preparati da qualcuno ancor prima che si realizzino. Il modo di
dire è di evidenti origini contadine. Il “paniere” citato nel
detto infatti, va inteso come la cesta o la cassetta approntata
dall'allevatore che le galline ovaiole, a partire dai 4/5 mesi di
vita circa, utilizzano come nido per deporre le uova. Le migliori
galline, che sono in grado di deporre un uovo al giorno per un anno e
mezzo, quando si pongono alla cova nel paniere, lo fanno per circa 20
giorni. Ecco quindi che l'espressione richiama il distruggere
qualcosa, prima che si concretizzi.
Si
dice . . . “zona Cesarini”
L'espressione
indica gli ultimi momenti di una partita di calcio o di una sfida
sportiva e, per estensione, la fase finale di un evento emozionante.
La locuzione fu coniata dal giornalista Eugenio Danese con
riferimento a Renato Cesarini (1906-1969), attaccante oriundo
argentino della Juventus e della Nazionale. Cesarini segnò due gol
al 90' nel giro di sette giorni e la seconda fu la rete della
vittoria (3-2) per gli azzurri dell'incontro di Coppa Internazionale
Italia-Ungheria, il 13/12/1931. La domenica successiva Danese
descrisse sul giornale “Il Tifone” un gol avvenuto in “zona
Cesarini” riferendosi a una rete decisiva segnata all'89' della
partita di campionato tra Ambrosiana/Inter e Roma, da parte del
giocatore nerazzurro Visentin.
Si
dice . . . “ad usum Delphini”
L'espressione
in latino “ad
usum Delphini”
indica la modifica di un testo, un discorso, una testimonianza, di
cui si è alterato o falsificato il contenuto originale per
raggiungere certi scopi, per esempio di propaganda. La locuzione
nasce in Francia nel XVII secolo. Ad
usum Delphini
venne stampigliato sulla copertina dei testi classici greci e latini,
destinati all'istruzione del figlio del re Luigi XIV e di Maria
Teresa d'Austria, Luigi (1661-1711) detto Gran Delfino, (ossia
principe del Delfinato), che era il titolo dell'erede al trono di
Francia. I testi venivano epurati dei passaggi ritenuti scabrosi o
inadatti, alla giovane età del Delfino. In seguito la locuzione
passò a indicare l'edizione di un testo semplificato, per adattarlo
agli allievi delle scuole inferiori oppure un referto medico
“attenuato”, per non far capire il vero contenuto al paziente.
Si
dice . . . “fare le scarpe a qualcuno”
Vuol
dire manovrare dietro le spalle contro il prossimo fingendosi amico,
con l'intendo di scalzarlo dal posto che occupa o comunque di
toglierlo di mezzo. Il modo di dire è tipicamente italiano – non
ha riscontri all'estero – ed è molto antico. Lo si trova già in
documenti del XIX secolo. Qualche storico della lingua lo fa
risalire al vecchio gergo militaresco da caserma, ma secondo
l'ipotesi più plausibile, la frase fatta avrebbe in origine il
significato di seppellire, di sbarazzarsi di qualcuno in senso
fisico, riferendosi all'abitudine in uso nel sud Italia del '600, di
far calzare ai defunti di alto rango delle scarpe confezionate per
l'occasione, in modo da affrontare al meglio l'ultimo grande viaggio.
Di qui il senso metaforico che conosciamo.
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