Sarà
capitato anche a voi,
di trovarsi alla cassa di un alimentari biologico, avere dimenticato
di portare da casa la sporta biodegradabile e sentirvi circondati da
sguardi gelidi, mentre chiedete a bassa voce: "Un sacchetto".
O di essere seduti al ristorante di fianco a una coppia, che domanda
al cameriere dettagliate informazioni sulla vita vissuta dal pollo
che vorrebbero ordinare, e di vedere che si rilassano solo quando
hanno saputo che il pollo, che si chiamava Alex, era stato allevato
con latte di capra, soia e asparagi selvatici.
Loro,
rilassati,
perché voi invece siete raggiunti dal dubbio se ridere, o sentirvi
piuttosto insensibili e anche un po' ignoranti. Ma se di fronte alle
virtù esibite da vegani, fruttariani, crudisti, fedeli amanti del
Bio e dell'organico, di patiti di menù ricchi di rintracciabilità,
pur riconoscendo necessità ambientali e valore etico delle loro
scelte, oltre alle differenze sostanziali tra le diverse tribù della
nuova alimentazione, vi siete sentiti un po' snobbati, guardati
dall'alto e con un misto di sacralità e supponenza, una ragione, a
quanto pare c'è.
Non
si tratta del primo studio
a sostenere che, dietro l'alone del consumatore verde, si nasconde un
cuore poco empatico, ma la recente ricerca del giovane psicologo
Kendall Eskine della Loyola University di New Orleans, nata per
cercare le conseguenze morali derivanti dall'esposizione al cibo
organico, ha suscitato scalpore.
L'abstract
della sua ricerca, pubblicata sul Journal
of Social
Psycological
and Personality Science,
è uno dei testi più analizzati dai siti di opinione del 2012. Il
perché, come la ricerca, è semplice: divisi i soggetti
dell'esperimento in tre gruppi, Eskine ha mostrato e fatto valutare
al primo solo cibi organici e di poco sapore, al secondo gruppo
comfort
food,
cioè piacevoli schifezze che fanno male al fisico ma bene all'umore,
e al terzo gruppo ha assegnato cibi neutrali.
Poi
ha chiesto a ciascuno dei gruppi due
cose: esprimere, dopo aver ascoltato brevi storie emblematiche, il
proprio giudizio su comportamenti trasgressivi; in seguito, di
offrirsi volontari per un lavoro poco gratificante e non pagato.
Risultato:
gli "organici" si sono mostrati più spietati nei giudizi e
indisponibili ad aiutare l'altro. "C'è qualcosa nella scelta
organica che fa sentire migliori e comportare peggio", deduce
Eskine, raggiunto nel frattempo da numerose mail di protesta e accuse
di essere pagato dall'industria alimentare americana. "Scegliendo
organico, è come se a quel punto avessero già compiuto il loro
dovere, e potessero quindi permettersi comportamenti poco etici e
asociali".
In
tempi di emergenza obesità,
(negli Stati Uniti un bambino su quattro ha già sviluppato una forma
pre-diabetica), si guarda sempre di più nel piatto dell'altro e a
farlo sono soprattutto le istituzioni, (Disney e Michelle Obama
alleati contro il junk food, il sindaco di New York, Bloomberg,
schierato contro le mega confezioni di bevande zuccherate; misure
simili in mezza Europa).
In
questi casi è l'autorità a occuparsi del contenuto del piatto;
quella che manca, è la responsabilità personale del consumatore.
Per proteggere la propria salute partendo dal carrello della spesa, è
indiscutibile che la scelta bio e organica sia più sana di quella
industriale. Ma questa scelta sembra produrre anche altre
conseguenze. Di fronte alla generale avanzata organica, vegana, anti
carne - almeno in quasi tutti i paesi che se lo possono permettere,
in Italia per esempio, secondo l'Eurispes il 10% della popolazione,
il 13,5% tra i ragazzi, è ormai vegetariano, un piccolo ma
determinato 0,4% vegano - come cambiano psicologia e comunicazione,
come si modificano i rapporti tra i diversi tipi di consumatori?
La
scoperta di Eskine
è un contributo sia per migliorare chi si sente già migliore, sia
per spingere l'industria bio a evitare nella sua comunicazione troppi
riferimenti alla purezza, all'onestà e sincerità dei prodotti, come
fossero valori esclusivi e trasmissibili. "Ho voluto capire",
continua lo psicologo, "in che modo scelta del cibo organico e
morale, convivono e si influenzino. Il termine da tenere a mente è
moral
licensing,
(licenza morale) : in psicologia descrive la condizione in cui una
persona si ritiene, sulla base delle scelte già compiute, nel
giusto, e si autorizza, di conseguenza, a comportamenti opposti. Chi
mangia cibi senza pesticidi o per i quali non è stato fatto del male
a nessun essere vivente, si sente superiore. Come se insieme al cibo
più onesto, avesse comprato anche un bonus
di moralità,
da spendere poi in altri campi".
Un
po' la stessa attitudine di quei ciclisti
che, ritenendosi nel giusto, pensano di poter guardare dall'alto al
basso appiedati e guidatori. A risultati simili era già arrivata
anche Nina Mazar, ricercatrice dell'Università di Toronto, che aveva
dimostrato come gli acquirenti di cibo organico, siano addirittura
più propensi al furto e alla menzogna dei consumatori di merendine e
junk food.
"Mi
hanno accusato di tutto dopo questa ricerca",
conclude Eskine, per molti anni vegetariano, "ma capisco
l'animosità: si tratta di un movimento nuovo e che si deve
affermare. Mi accontenterei se alla fine forse il marketing a
cambiare, e si smettesse di proclamare quanto sei straordinario se
scegli alimenti bio". Un po' di confusione nasce anche da come
interpretiamo le etichette. Sappiamo, per esempio, che tutto quello
che ha pochi grassi e più sano. Le bevande gassate, che pure sono
prive di grassi, bene non fanno. Forse, come dice uno dei più noti
dietologi americani, Mark Hyman, l'ideale sarebbe di evitare cibi con
promesse di benessere sull'etichetta, o ancor meglio, evitare tutti
quelli con l'etichetta. Dagli onnivori cui eravamo abituati a
ritenerci da piccoli, ci stiamo lentamente trasformando in
vegetariani, ma non di un tipo solo: ci sono "pescetariani",
"latto-ovo-tariani", ecc.
Ci
sono eccessi opposti e si contano prime vittime
dell'"ortoressia",
(l'appetito per cibi giusti), sindrome identificata dal clinico
statunitense Robert Bratman e che riguarda chi è ossessionato dalla
ricerca di cibo organico puro, al punto di diventarne dipendente.
Da
parte loro vegetariani e vegani
sono allarmati per la diffusione in Italia della "vegefobia",
(definita “volontà di farci vergognare della nostra preoccupazione
per gli animali”), o “paura dei vegetariani”, come scrivono sul
loro sito, dove hanno pubblicato i risultati di una ricerca su come
vegetariani e vegani sono trattati dalla stampa italiana: su quasi
400 articoli analizzati, il 74,3% contiene giudizi negativi.
Che
non sia una rivoluzione totalmente pacifica,
lo dimostra anche la reazione della medicina ufficiale russa, che
alla crescita del movimento vegano cerca di opporsi con fermezza.
Attraverso un comunicato del dietologo di Stato di San Pietroburgo,
il dottor Dotsenko, ha lanciato pesanti anatemi. Dall'altra parte del
mondo, uno dei libri che più hanno fatto per spingere il consumatore
verso un'etica dell'alimentazione è “Se
niente importa”,
di Jonathan Safran Foer.
Appartiene
ai preconcetti immaginare il romanziere mentre, alla cassa di un
negozio biologico, nega il sacchetto con aria virtuosa?
Michele
Neri
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