L'altra
mattina mi sono svegliata, carica di meraviglia. Ho sognato un
parto : il mio. Almeno credo. Sembrava un film. Ero lì a gambe
spalancate, e sputavo fuori una testolina fragile, rossa di sangue.
La vedevo al ralenty, mentre da quel brodo primordiale spingeva per
reclamare la sua umanità, un nome e un cognome, una nazionalità, un
destino. Sono andata in cucina, di buon umore, e ho pensato : ma va
?
Il
giorno prima, il mio inconscio mi aveva consegnato ben altro : io che
in piedi, baldanzosa, dicevo a me stessa che ero pronta a saltare
dentro una bara.
Sogni
grandi. Delicati. Quando ero molto giovane, pensavo alla
maternità come a un virus, un pericoloso bacillo da evitare : echi
di antichi disastri famigliari. Se sei stata un incidente di
percorso, se da piccola hai ascoltato tua madre raccontare alle
amiche : “Lei è stata un errore”, allora ti capita. Poi
succede che cresci, ti curi, fai pace con tua madre, le chiedi,
finalmente : “perchè mi dicevi così, mà ?”
Ti
senti fortunata, perchè ci sei riuscita a chiederglielo, è così
importante che le parole escano, che siano pronunciate, prima che sia
troppo tardi, prima che il tempo faccia il suo corso, prima che ti
trovi a confessarti davanti a una lapide.
E
però tu rimani quella. Tu rimani quella che in una parte profonda
pensa ancora che sia stato uno sbaglio, la tua nascita. Fino a
quando una mattina ti svegli e ti ricordi di aver sognato una bara,
cioè il brodo primordiale. E il giorno dopo ti svegli e ti ricordi
di aver sognato un parto, cioè la celebrazione festosa di una
nascita che nella realtà non c'è mai stata ma che accade,
miracolosamente, adesso, dono di quella parte profonda di noi umani
che gli psichiatri chiamano inconscio e i mistici orientali il tuo
dio personale.
Questi
miracoli, questi doni, sono essenzialmente delle riparazioni.
Inspiegabili, dal di fuori. Accadono tutti i giorni, ogni dove.
E' formidabile la nostra capacità di recupero, quando affrontiamo il
dolore e ne facciamo altro, una lezione, un esempio, magari, di
redenzione.
Mentre
ero in cucina, carica di meraviglia, mi tornava in mente una ragazza
che ho conosciuto a Banghkok. Si era sposata con un pescatore e
aveva scoperto, incinta di cinque mesi, che lui l'aveva contagiata
con l'Aids. Non avrebbe voluto una figlia, le donne che non
vogliono i figli si portano dentro ferite profonde. Ma aveva scelto
di combattere i suoi demoni e alla fine aveva affrontato il trauma
rendendolo pubblico, in un ambiente in cui il virus da hiv è
anatema.
Si
era trasferita in un rifugio dove erano disponibili i farmaci
antiretrovirali. Lì, mentre faceva la pìpì, le era sgusciato
fuori in scioltezza un batuffolo rosa, perfettamente sano, che
sorrideva beato su una stuoia.
A
questa vita nuova non aveva ancora dato un nome, e così in attesa di
un'ispirazione, la chiamava “Zalone Ma”, la Grande Ciotola,
quella che l'aveva accolta al suo primo approdo.
Imma
Vitelli
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