Ho
sempre pensato che fosse una pratica bellissima. Ho sempre ammirato
tutti coloro che lo fanno. Perché, diciamocelo, occorre essere
generosi, curiosi, aperti, incuranti, rilassati e impavidi. Perché
bisogna avere una grande disponibilità a condividere, e a mettersi
in gioco. Perché è necessario affrancarsi da quell'attaccamento
insano alle cose. Perché non bisogna avere paura di perdere pezzetti
di sé, condividendo i propri oggetti nella propria tana.
Ho
sempre pensato che scambiare la propria casa con quella di
sconosciuti, affittare, o, ancora meglio, prestare i luoghi in cui si
vive abitualmente a qualcuno di cui non sai nulla, sia un atto di
libertà. Perché, in fondo, quel senso di possesso esclusivo e
viscerale rende tutti un po' schiavi.
Ho
sempre predicato bene e razzolato malissimo. Io, casa mia, non l'ho
mai scambiata con nessuno, non l'ho mai prestata a ignoti né
tantomeno affittata a estranei paganti. Casa mia è mia, mi dice la
pancia. E mio il letto in cui dormo, sono mie le lenzuola, mio il
cuscino, mio il bagno, miei i cassetti, mie le memorie e la
biancheria che ci stanno dentro, mio il comodino con sopra il romanzo
che sto leggendo, mio il divano, mie le fotografie che raccontano la
mia storia, mio il tavolo della cucina, mia la libreria, mio il rosso
psichedelico con cui ho dipinto la parete della sala da pranzo, mia
l'aria sopra il mio pavimento e sotto il mio soffitto. Non va bene.
Sono
territoriale come un gatto, possessiva e gelosa come la più
nevrotica delle massaie, meschina come chi non riesce a elevarsi
oltre il proprio ombelico.
Anche
quest'anno trascorriamo l'estate nella città di A, in Massachusetts,
dove mio marito lavora tra economisti marxisti ed emarginati come
lui: e noi - prole ed io - cerchiamo il nostro ubi
consistam,
con alterni risultati.
"Paul,
il mio collega, ci presta casa sua. Starà via tre mesi. Dice che gli
fa piacere se stiamo da lui", ha annunciato mio marito. "Lo
sa che abbiamo tre figli maschi e piccoli?". "Certo".
"Sa che useremo i suoi letti, la sua cucina, il suo bagno?".
"Credo che lo immagini".
Così,
Paul mi ha dato una grande lezione e ci ha accolto, in cinque nel suo
mondo, con generosità, disinvoltura, naturalezza e coraggio.
Non
ho mai incontrato Paul. E neppure sua moglie. Né i suoi due figli,
poco più grandi dei miei. Ma vivo a casa loro.
Di
loro so che amano camminare in montagna a fare picnic, perché ho
visto le fotografie appese ai muri. So che amano il jazz e hanno una
collezione di dischi in vinile che ascoltano con un giradischi
d'epoca, che mi ha ricordato l'infanzia e ha suscitato la morbosa
curiosità dei miei figli.
So
che amano i tè esotici e non si scompongono se sono pieni di
farfalline. So che leggono libri di fantascienza e nel garage hanno
sette
biciclette, tre monopattini e un paio di trampoli. Non hanno
neppure uno specchio in cui guardarsi tutti interi. Probabilmente la
domenica fanno il barbecue e tagliano l'erba del giardino. Forse
hanno fatto un viaggio in Africa e hanno portato indietro delle
maschere paurose.
Mangiano
gelatina alla menta che ha un colore verde smeraldo, giocano a
scacchi e su un albero hanno costruito una casa. Hanno un pianoforte
e una cartina del mondo, appesa in bagno, proprio accanto al
gabinetto, ed è un bel modo per ripassare la geografia e coltivare i
propri desideri di fuga.
Percorriamo
le loro tracce, lasciamo che il loro mondo ci inghiotta, che la loro
presenza impalpabile, ma prepotente, ci avviluppi.
Cerchiamo
di essere discreti e rispettosi, consapevoli del privilegio di
abitare il contenitore di vite altrui. Questo posto mi ha convinto:
aprirò un giorno la mia casa a un Paul di passaggio, metterò a
tacere la massaia possessiva e gelosa e condividerò le mie tracce e
le mie cose. Perché è un bel modo per lasciarsi andare, per
liberarsi dei propri egoismi un po' gretti, per scoprire quali e dove
sono le cose importanti.
Claudia
“Elasti” De Lillo
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