Da
un po' di tempo mi fa male un dito. È un sottile senso di
indolenzimento dell'indice della mano destra. Ogni volta che avvito
la moka ho svito un barattolo, le giunture faticano e mi sento
depotenziato o, peggio, infastidito.
Non
credo che sia nulla di grave. Magari capita anche a voi. La
sensazione permane anche in stato di riposo. È concentrata sulla
punta del polpastrello dove la pelle appare indurita e
contemporaneamente più sottile. Se la sfioro con il pollice, la
sento liscia e consumata come i piedini delle madonne sui portali in
bronzo delle chiese, toccati da miliardi di turisti.
Sarà
suggestione, sarà che non ci vedo più tanto bene da vicino, ma a
volte ho l'impressione che la punta del mio indice destro, si stia
consumando e la mia impronta digitale sia in procinto di scomparire.
Senza impronta sarò ancora qualcuno?
Decido
di andare a fondo, e ci vado davvero perché sprofondo in un mondo.
Scopro che le impronte si formano nel feto al settimo mese e
persistono, inalterate e inalterabili, per tutta la vita. Esiste,
però, una rara condizione - l'adermatoglifia - in cui le impronte
digitali, (dermatoglifi), sono assenti. Fino al 2011 i casi accertati
riguardano solo quattro famiglie e uno studio recente, condotto su
una famiglia svizzera, ha dimostrato che l'anomalia dipende da una
mutazione del gene smartcad1. Non l'avevo mai sentito. Mi domando se
è perché ne sono privo.
Leggo
che già nel 500 a. C. a Babilonia e in Cina, i contratti erano
siglati dalle impronte digitali, e che corinti e romani ricevettero
lettere firmate dall'impronta di San Paolo. Molto più tardi, nel
1665, lo scienziato Marcello Malpighi,
uno dei padri della microscopia, scrisse il fondamentale "De
externo tactus organo
anatomica
observatio",
ma fu soltanto la furia classificatoria dell'Ottocento a fare della
dattiloscopica una disciplina scientifica è un metodo di indagine
criminale.
Un
sistema economico e sociale fondato sulla serializzazione della
produzione e del consumo, non trovò altro modo di tranquillizzarsi
che trasformare in serie l'intero universo, perfino il male compiuto
dagli uomini. Ma l'universo è grande e originale. Per imprigionarlo
bisogna categorizzare anche le tracce che lasciamo.
Nel
1903 nel carcere di Levensworth in Kansas, si presentarono due
prigionieri identici. Stessa età, stessa tonalità di pelle (scura),
stessa faccia, stesse misure antropometriche. Perfino il nome era
quasi lo stesso: Will e William West.
La
sola differenza fu che lasciavano impronte diverse. Negli stessi anni
il matematico francese Victor Balthazard,
dimostrò che basta comparare 17 punti per avere la quasi certezza,
(una possibilità di errore su alcune decine di miliardi), di
sbagliare persona. C'è voluto un secolo perché un professore
giapponese, Tsutomu Matsumoto dell'Università di Yokohama, mettesse a punto un metodo per clonare
le impronte utilizzando una comune resina plastica e una gelatina
alimentare, dimostrando la fallibilità dei sistemi di sicurezza
basati sulle impronte digitali.
Torno
a osservarmi il polpastrello. Mi dico che, forse, è soltanto
consunzione. L'era digitale si chiama così per lo spropositato
utilizzo delle dita a cui obbliga. I tasti scompaiono, ogni nostra
attività passa sulla punta dell'indice. Su e giù, come chele di
insetti strani, come pinze di carne e cheratina, su schermi di
silicio i nostri polpastrelli sfiorano, aprono finestre e le
chiudono, digitano lettere, sfregando all'infinito, miliardi di volte
al giorno.
È
meglio tornare all'analogico. Intendo il dito nell'inchiostro, e lo
premo su un foglio bianco. Di quella specie di codice a barre
aggrovigliato e ritorto che definisce chi sono, non c'è più
traccia. Nessuna spirale o ellissi. Tutto appare in nero e
indifferenziato. Senza impronta sono ancora qualcuno ?
Afferro
una lente d'ingrandimento. Al centro c'è una zona oscura e
tondeggiante, che ha la forma familiare di una mela morsicata.
Giacomo
Papi
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