Titoli
didascalici. Colori crudi, per rimarcare il senso di tristezza che
pervade le storie. Personaggi piuttosto vivi, ma legati in maniera
rigida a un ruolo. Ed ecco che il magistrato integerrimo e ingenuo
convive col poliziotto non conformista, ansioso di giustizia e
vendicativo. Ed ecco che i contrasti fortissimi tra le esigenze di
verità dei puri,
ciascuno a modo suo, e la corruzione esplodono sulla pellicola.
Il
regista friulano era approdato a questo genere particolare, molto in
voga negli anni ’70, con il Giorno della Civetta
(1969).
E ne matura una propria personale lettura con il successivo
Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica
(1971).
L’influenza di Leonardo Sciascia,
seminale in tutto il filone, continua, anche in assenza di
riferimenti diretti, perché Confessione
resta
un drammone siciliano pieno degli silemi
del
grande scrittore di Racalmuto:
la difficile ricerca della verità, soffocata da una realtà ambigua,
i personaggi ipercaratterizzati, in cui potere e corruzione si
mescolano in maniera indistricabile, come se l’uno non potesse
esistere senza l’altra. Ma, a differenza degli altri grandi autori
(Petri,
Rosi
ecc.)
che pure si cimentarono con la narrazione sciasciana, Damiani
mantiene
una dimensione più popolare, che sarebbe esplosa in tutto il suo
potenziale un decennio dopo ne La Piovra.
Infatti,
in Confessione
la
suggestione letteraria - che comunque c’è, sebbene in sottofondo -
cede il posto alla cronaca. E Damiani
racconta
la Sicilia
di
allora: quella, per capirci, in cui i sindacalisti venivano
falcidiati come mosche, in cui l’ombra del sospetto non risparmiava
neppure i vertici della magistratura, in cui la lotta per la
giustizia era un affare per solitari Don
Chisciotte.
Il
5 maggio 1971 cadono sotto i colpi dei sicari (stando alle
dichiarazioni intercettate a Totò
Riina in
carcere, tra gli esecutori ci sarebbe stato Bernardo
Provenzano)
Pietro Scaglione,
il procuratore capo di Palermo,
e il suo agente di scorta Antonino
Lo Russo.
È l’esito tragico della carriera importante e difficile di un
magistrato che si era occupato dei casi più complicati della storia
dell’isola. Scaglione
è
stato riabilitato nell’ultimo decennio, ma, prima di morire, è
stato uno dei magistrati più criticati e malvisti da una certa
opinione pubblica di sinistra.
Nel
film di Damiani
gli
esperti hanno voluto cogliere un riferimento anche a lui, visto che
il personaggio del procuratore distrettuale Malta
(interpretato
da
Claudio
Gora) gli
somiglierebbe sin troppo.
Il
1971 è anche l’anno in cui il sacco
di Palermo,
cioè la cementificazione selvaggia dei quartieri storici della città
raggiunge l’apice, sotto le giunte Dc
guidate
da Vito Ciancimino.
La ricostruzione storica e giudiziaria del periodo avrebbe confermato
ciò che si sapeva e che parte della stampa, soprattutto L’Ora di Palermo,
aveva già rivelato: l’iperattivismo edilizio era il risultato
della convergenza tra potere politico, mafia e impresa.
Il 1971, infine, è
l’anno in cui la mafia inizia a diventare una questione nazionale.
Logico
che Confessione
risenta
del clima dell’epoca e lo riproponga.
Non
raccontiamo tutta la trama solo perché il film di Damiani,
nonostante i richiami violenti all’attualità, è un giallo e il
finale dei gialli non si rivela. Se ne accenna quel che basta per
incuriosire verso una pellicola che merita ancora di esser vista e
meditata.
I
protagonisti della vicenda sono Traini,
un giovane procuratore (interpretato da uno smagliante Franco
Nero,
in quegli anni l’attore feticcio di Damiani) e il commissario
Bonavita
(un
superbo Martin
Balsam a
cui dona tantissimo l’accento siciliano datogli dal doppiatore
Arturo
Dominici).
I
due entrano in contrasto durante un’indagine su una strage compiuta
da Michele
Li Puma (il
bravo caratterista Adolfo
Lastretti),
un ex killer di recente dimesso dal manicomio. Entrambi mirano a
risolvere la brutta storia che, in apparenza, sembra solo la vendetta
di un folle. Ma ciascuno a modo suo: il poliziotto sotto il pungolo
di un’ansia di verità che lo spinge a forzare le regole, il
magistrato con lo scrupolo del rispetto delle leggi. «Ma lei che
farebbe se dovesse applicare una legge ingiusta?», chiede al
riguardo Bonavita
a
Traini
in
una delle scene più belle.
I
due protagonisti, in un clima di reciproca diffidenza, indagano sul
palazzinaro Ferdinando
Lomunno (a
cui dà il volto Luciano
Catenacci,
uno dei più noti caratteristi dei ’70), un re del cemento in odor
di mafia e legato alla peggiore politica. Esemplificativa di questo
rapporto proibito è la battuta che Lomunno
rivolge
all’onorevole Grisi
(il
paffuto Giancarlo
Badessi,
volto notissimo delle commedie dell’epoca): «Non ti sta più bene?
Dimettiti, passa all’opposizione: per uno come te che se ne va ne
troviamo altri tre».
La
vicenda si dipana tra colpi di scena che portano a un finale tragico
e aperto
che
lasciano lo spettatore pieno di dubbi e di indignazione.
Sullo
sfondo, una Palermo grigia e triste, dove gli spaccati di vita
popolare danno il ritmo alla narrazione, scandita dalla musica
drammatica di Riz Ortolani.
Il
poliziotto e il magistrato, nel loro rapporto burrascoso,
rappresentano due estremi: la sete di giustizia che sconfina nel
desiderio di vendetta, che arriva ed è amara, e il rispetto del
diritto, che può tradursi in impotenza («Conduca pure l’indagine»,
dice Malta
a
Traina,
«ma con prudenza»). E la verità diventa disillusione in una frase
di Traina:
«Ma se davvero è così, come può la gente credere nelle
istituzioni?».
Un
interrogativo ancora valido ancora su certe dinamiche dell’Italia
profonda che, oggi come allora, indossa i pantaloni a zampa
d’elefante. Le mode cambiano e tornano. I vizi rimangono. Nell’era
delle fiction manca solo chi sappia denunciarli con l’efficacia
appassionante di Damiani.
Saverio Paletta
Fonte l' Indygesto.it
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