“Forza
Cavajari” come si dice in Argentina e “Forza Cavallari” “Forza
Arnaldo”, come diciamo ad Adria. Si perché mai come in questo
momento Arnaldo ha bisogno di tutti noi, del nostro sostegno e del
nostro entusiasmo. Il 3 marzo Arnaldo si è procurato una frattura al
femore e alla sua età è una gran brutta cosa. Ma lui è un uomo
d'altri tempi, dalla scorza dura e sta sopportando nel migliore dei
modi il brutto incidente. O almeno lo fa intendere. Leggiamo una
delle sue tante avventure motoristiche, questa volta in Argentina,
dove il piccolo Jorge lo sosteneva gridando “Forza Cavajari”. E
anch'io mi unisco a Jorge.
Martedì
12 settembre 1972. All'altro capo del telefono, Cesare Fiorio. Hai
voglia di fare una corsa in Argentina? Come no, quando? Dovresti
partire domani, la corsa è domenica. Portati chi vuoi. Anche
un'amante, se ti fa piacere. Ma mi devi dare una risposta entro due
ore. Ciao.
Due
ore? Mi chiesi se era diventato improvvisamente matto, ma dentro di
me avevo già accondisceso. Ero reduce da mesi agonistici quale
direttore sportivo della squadra rally Csai, dove avevo fatto da
chioccia a giovanotti come Gianni Bossetti, Gianni Besozzi, Orlando
Dall'Ava, Maurizio Verini e Giacomo Pelganta. Ero molto soddisfatto
dei risultati ottenuti. Presi il telefono e chiamai Sergio
Rombolotti, il mio ultimo navigatore. Partiamo domani per
l'Argentina. E misi giù il telefono. Informai immediatamente Fiorio,
il quale mi dirottò all'ingegnere Russo della Fiat. Si chiama El desafio de los valientes,
La sfida dei valorosi - mi spiegò cortese - una corsa tra 18
campioni locali ed europei: 170 km in mezzo alle montagne di Carlos
Paz. È organizzata dalla Fiat per il lancio della berlina 125
bialbero sul mercato argentino.
"Bello",
pensai. Il giorno dopo partii da casa di buon'ora. A Milano caricai
un ancor incredulo Rombolotti. I biglietti aerei erano al bancone
delle Aerolineas Argentinas. Giovedì atterrammo a Buenos Aires dove
ci attendeva un volo per Cordoba. Altri 1000 km. Poi in auto fino a
Carlos Paz. Non feci in tempo a scendere dall'auto che fui avvicinato
da Jorge, un simpaticissimo ragazzino dagli occhi impertinenti. Il
quale, dopo avermi "adottato", ballava cantilenando "Forza
Cavajari (Cavallari)". Gridò queste due parole di continuo, per
tre giorni, senza perdermi di vista un solo istante. Premuroso e
fedele.
Subito
sul muletto messo a disposizione per le prove. Subito sul percorso
assieme a Kallstrom, Lindberg, Lampinen e Smania, l'altro italiano
invitato. Una strada in mezzo alle montagne. Paesaggio lunare, senza
alberi. Solo rocce grigie e levigate dai venti. Niente case, niente
bivi. Un'unica lunga strada sterrata, irta e tortuosa. Su fino a Mina
Clavero, poi dietrofront e percorso inverso, in discesa. Prima di
sera restai senza pastiglie dei freni. Si correva in un altro mondo.
Addirittura le 15 vetture muletto erano senza targhe.
Per
le strade argentine tutti i possessori di un "qualche cosa"
con quattro ruote andavano come pazzi. Le auto erano rottami avvolti
da dense coltri di fumo bianco. Polvere e rumore assordante. Non
esistevano stop, non esistevano precedenze. "Forza Cavajari".
Venerdì.
Prove ufficiali con strada chiusa. Mi consegnarono un'altra 125.
Nuova. Logicamente senza targa. Stavo guidando molto concentrato,
dettando anche le “note” a Rombolotti, quando improvvisamente
sentii un gran colpo dietro. La macchina sbandò e vedemmo la ruota
posteriore sinistra che ci passava davanti, per poi sparire dentro un
burrone. Si erano allentati i dadi e la ruota si era staccata dal
mozzo. Fine prematura delle prove. "Forza Cavajari".
Sabato.
Stessa solfa. Su e giù perfezionando le note. Da una vettura davanti
a noi, partì un sasso che centrò il nostro parabrezza e lo mandò
in frantumi. Siccome i guai non arrivano mai da soli, si scatenò un
temporale. Quindi, acqua, fango e quant'altro nell'abitacolo.
Quaderno delle note e abbigliamento in bagnomaria.
Ma
chi se ne frega. Eravamo felici di essere lì. Prendevamo tutto come
veniva. Osannati dai nostri connazionali, seguiti ad ogni passo da
giornalisti e radiocronisti, sommersi di inviti per asado e chivito.
Cortesia e simpatia ovunque. "Forza Cavajari".
Domenica,
ore 8:00. Mi svegliò la radio. Ululava l'estrazione a sorte dei
numeri che assegnavano le 18 vetture da gara, ai 5 piloti europei e
ai 13 argentini. Impiegammo quasi due ore per arrivare alla partenza.
Un caos metropolitano moltiplicato per cinque. Migliaia di persone
giunte con ogni mezzo. Auto stantuffanti, camioncini rumorosi,
autobus con la gente penzoloni all'esterno tanto strapieni erano,
camion con i pneumatici lisci come le monoposto da pista. Tutti si
affannavano per disporsi lungo il tracciato. Entusiasmo alle stelle.
Il percorso pullulava di grandi griglie fumanti, dove l'asado
cuoceva riempiendo la vallata di un unico, intenso profumo di
invitante carne alla brace. "Forza Cavajari".
Ore
11,30. Partenza tre minuti l'uno dall'altro. La 125 special da gara
era poco più di una vettura di serie. Giusto una lucidatina ai
condotti e lo scarico aperto. Non mi trovavo per niente. Guidavo
male, la macchina andava dove voleva. Arrivai su e scoprii che noi
europei, avevamo preso una scoppola non indifferente dai piloti
locali. D'altronde, loro conoscevano a memoria il percorso. Correvano
addirittura senza coequiper.
Recalde era un giovane del posto, fortissimo. Carlomagno addirittura
abitava a Mina Clavero e confessava candidamente di aver fatto su e
giù mille volte.
Intanto
Canedo, il re delle montagne argentine, si era rovesciato in una
curva. No problem. Gli spettatori l'avevano subito raddrizzato e
nonostante l'incidente, era nientemeno che terzo assoluto. Dopo
mezz'ora si ripartì per il percorso inverso. La faticaccia durò due
ore e cinque minuti. Vinse Recalde. Io giunsi settimo. Non male per
un "vecchio". "Forza Cavajari".
La
corsa vera, comunque, andò in scena successivamente, tornando a
Carlos Paz, con Rombolotti alla guida del muletto. Il bilancio: due
tamponamenti, un rovesciamento di camioncino carico di peones
urlanti, altre varie bottarelle subite e date. Il tutto, circondati
dai più stravaganti mezzi a motore, con il volume della radio al
massimo e teste e gambe tentacolari che spuntavano dei finestrini. Fu
un rodeo, non un viaggio.
Alla
sera, festa megagalattica. Una sfilata per le vie di Carlos Paz,
ragazze in costume sul cofano e sul tetto delle 125 giunte al
traguardo. Banda, musica, fuochi d'artificio. Premiazione su un palco
dove eravamo in duecento, quando poteva contenerne non più di
cinquanta. Una baldoria collettiva. Sfrenata. Un ambiente nel quale
mi ritrovavo ...
Ci
intrattenemmo con alcune bellezze locali e senza accorgercene arrivò
il mattino del lunedì.
La
cosa più struggente fu l'addio al piccolo Jorge. Le sue lacrime, i
suoi abbracci. "Cavajari, Cavajari ...". Lo lasciai con il
nodo alla gola.
Senza
aver dormito, via di nuovo verso Cordoba. Poi Buenos Aires. Un po' di
shopping. La sera eravamo sul Boeing 707 che ci riportava in Italia.
In testa e nel cuore la "saudade", come la chiamano in
Brasile, e il piccolo Jorge.
Arnaldo
Cavallari da “Una vita nel sole”
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