Tutto
iniziò con un messaggio, qualche mese fa. Arrivava dal Bernasca :
"Cara Elasti, quest'anno celebriamo 25 anni dalla maturità. Se
organizzassimo un incontro tutti insieme? Nell'invito eviterei,
tuttavia, di menzionare il quarto di secolo : potrebbe spegnere gli
entusiasmi e inibire le adesioni". Lo sapevo : la cena di classe
incombe come una mannaia sulle teste di tutti noi. Prima o poi
arriva, come l'amore e il mal di testa. Senza contare che io, nei
confronti del Bernasca, ho un debito di eterna gratitudine : senza di
lui, che dal banco dietro il mio, mi lasciava copiare le sue versioni
di greco, sarei ancora lì, in terza F, intrappolata nell'Aoristo.
Pertanto
al mio benefattore, allora fulgido grecista ora fulgido ingegnere,
non posso dire di no, nemmeno quando propone imprese kamikaze. Dopo
forsennate ricerche, fu stilato un elenco, in rigoroso ordine
alfabetico, lo stesso dell'appello, ogni mattina di 25 anni fa, e,
infine, fu prenotato in un ristorante un tavolo da 16 posti, a nome
Bernasca. Come ci si veste, ci si trucca, ci si pettina, a una cena
di classe? E se nessuno si riconosce? Se non si riconosce nessuno? Se
dicono : "Era tanto carina. Peccato : il tempo, con lei, sia
stato impietoso?" Se pensano : "Sgorbio era, sgorbio
rimane?" Se l'imbarazzo ci paralizzerà?
Tra
interrogativi e ansie, mi feci una doccia, mi lavai i capelli, mi
truccai con scarsa perizia e moderazione e, dopo tre quarti d'ora di
muta contemplazione dell'armadio aperto, infilai dei jeans, una
maglietta e un paio di sandali con i tacchi, per darmi un tono,
dimentica che io, sui tacchi, sono parecchio instabile.
Ci
ritrovammo tutti lì, sul marciapiede, davanti al ristorante.
Stringemmo 15 mani, baciammo 30 guance e ci abbracciammo con una
cordialità insolita e cameratesca. Ci scrutammo ridanciani e
canzonatori, con il beffardo disincanto degli adolescenti che non
siamo più, nella curiosità consapevole e leggera di adulti in
libera uscita. "Vietato chiedersi se abbiamo figli, partner e
quale lavoro facciamo!", Disse qualcuno. E per un po' ci
concedemmo la vertigine di pensarci come volevamo, di inventarci uno
dei mille futuri possibili, a partire da 25 anni prima, di dire o di
non dire chi fossimo veramente.
"Accidenti,
quanto siamo rimasti belli!". "Splendidi!". "Non
siamo cambiati nemmeno un po'". "Dici? Io invece ci trovo
molto migliorati!" Mentivamo, felici di mentire. Ci guardavamo
con l'indulgenza, la familiarità e il divertimento che si riserva
alle vecchie fotografie, alle consuetudini perse, ai cugini in
visita.
C'erano
una ginecologa ipnotica che aveva perso la voce dopo aver tentato una
lezione di otto ore, ("Di cosa hai parlato per tutto quel
tempo?" "Di menopausa" "Ah"), una filosofa
felice, un fisico nichilista ("Quello del liceo è stato il
periodo più orrendo della mia vita. Ed è stata tutta colpa
vostra"), un conte che restaura legno nel suo castello
nell'oltrePo, un'avvocata con i capelli rossi che speri di avere
accanto, e mai contro, padri orgogliosi, madri svagate, un ex
oncologo convertitosi alla rianimazione perché, dice, è un lavoro
meno triste, il marito di un'archeologa, il Bernasca, per cui ho
scoperto di avere un grande affetto oltre che immensa gratitudine,
fotografie di bambini e di gatti, e la sorpresa che 25 anni possono
passare invano, nel bene e nel male.
Pian
piano, nel corso della serata, ci siamo smascherati e abbiamo
ricomposto tasselli della nostra adolescenza, in un quadro sensato e
familiare solo per noi 16. E poi abbiamo riso, come si rideva da
piccoli.
"Lo
rifacciamo presto?" "Certo! Intanto creiamo un gruppo su
Whatsapp!" "Ma come? Volete già andare a casa?" "È
tardissimo!" "E allora? Elasti, non vieni a spaccarti di
stravizi insieme a noi?" "A spaccarmi? Non posso. Ho dei
figli!" "Anche io. E allora?" Già. E allora?
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