L'avevo
sempre considerata un'attività un po' perversa. Di quelle fatte
apposta per chi ha qualcosa da espiare, per chi deve punirsi, per chi
ha dei buchi neri nell'anima e si illude di poterli seminare dandosi
alla fuga, per chi, con la testa, e forse anche con il corpo, non è
tanto a posto.
Avevo
sempre pensato che fosse un'insana occupazione dei masochisti, per
fanatici, per americani cresciuti con un'alimentazione geneticamente
modificata, per androidi, che volevano far credere di essere come
noi.
Probabilmente
l'origine delle mie convinzioni e dei miei pregiudizi risale ad una
torrida domenica di luglio del 1979, sull'isola di Ponza. Ero in
vacanza con mia madre e una sua amica. "Corsa podistica non
competitiva", avevamo letto su un manifesto.
"Corsa
podistica" mi sembrò un'espressione bellissima. L'oscurità del
suo significato era irrilevante al cospetto della musicalità di quel
binomio. "Qualsiasi cosa sia, voglio partecipare",
dichiarai. "Sono sei km di corsa", osservò mia madre. "Sei
è un numero piccolo", replicai, senza sapere. L'amica si offrì
di accompagnarmi e mi ritrovai così sulla linea di partenza, ignara
dei miei limiti ma consapevole dell'estrema eleganza di una pettorina
numerata.
Pronti,
partenza, pum, uno sparo, via. Su e giù a perdifiato, una salita,
una discesa, un tornante, un'altra salita, un altro tornante. E poi,
intorno a me, tifo, voci, risate, urla, piccoli, grandi, uomini,
donne, bambini, tutti eleganti quanto me, ma molto, molto più
veloci, resistenti, allegri, incuranti del caldo, del fiatone, del
cuore che scoppia.
Al
terzo tornante, non più di cinquecento metri dal via, capii che ero
fatta di una pasta friabile, che la corsa podistica nasconde, dietro
un bel nome, una pura follia, che un numero stampato sul petto non fa
di te un androide masochista. Mi fermai, mi strappai di dosso la
stupida pettorina, la lanciai rabbiosamente sull'asfalto e lasciai
che l'orda festante di alieni, ne facesse brandelli calpestandola.
Promisi
a me stessa, quella domenica di luglio, che mai più mi sarei
sottoposta a quella pratica sfinente e tribale, mai più avrei
chiesto alla mia pasta friabile di farsi quello che non era, mai più
avrei ceduto alle lusinghe di un binomio eufonico.
Mantenni
la parola data fino ad un'altra domenica di luglio di 31 anni dopo,
durante una vacanza negli Stati Uniti, a seguito del marito
workaholic.
Avevo, allora, un figlio di sette anni, uno di quattro,uno dei sei
mesi e soprattutto, una vicina di casa di nome Brenda, single,
ipercinetica e dotata di tricipiti d'acciaio.
"Vado
a fare jogging. Perché non vieni?" "Jogging ? Vuoi dire
correre ? Preferisco vivere, grazie". "Dai, su. Non vado
veloce. E non corro mai oltre un'ora". "Un'ora ? No,
grazie, Brenda. Io vengo da un altro continente, da un'altra cultura,
un'altra alimentazione. Non credo di ...".
Vinse
Brenda che mi prese per mano e mi trascinò con sé in quello che
consideravo il lato oscuro del fitness.
Da
allora corro sempre, con costanza maniacale, in estate in inverno,
con voluttà e passione, con la musica nelle orecchie, una ridicola
coda di cavallo e un look sciatto e inguardabile perché, nella mia
personale visione di questo amore tardivo, si tratta di pura sostanza
e niente forma.
Corro
generalmente vicino a casa, lungo un Naviglio. Incrocio papere,
nutrie, se sono fortunata anche qualche ratto, e altri tizi come me,
generalmente meglio vestiti e senza coda di cavallo, ma con lo stesso
sguardo estatico e assente.
Perché,
ho scoperto, correre dà dipendenza come il fumo, l'alcol, il
cioccolato bianco e la metanfetamina. Perché regala euforia, sprazzi
di onnipotenza e una certa resistenza fisica che nella vita viene
sempre utile. Perché fa bene, dicono. Consente di pensare ai fatti
propri, di isolarsi, di transitare dentro una bolla.
E,
soprattutto, è una fantastica via di fuga, quando non basta
chiudersi a chiave in bagno.
Claudia
“Elasti” De Lillo
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