Arnaldo
ci racconta la nascita della sua più geniale invenzione, la Ciabatta
Polesana, che poi diventerà Ciabatta Italia, il secondo pane più
diffuso, conosciuto e imitato nel mondo, dopo la baghette francese.
Ed è una storia semplice, banale, quasi comica, come lo sono tutte
le storie di quelle grandi invenzioni che hanno mutato per sempre il
nostro modo di vivere. La Ciabatta Polesana non ha avuto questa
ambizione e nemmeno questo destino, ma sicuramente ci ha insegnato a
mangiare bene e soprattutto ad amare il pane e chi lo fa.
Considerando poi, come ci racconta il buon Arnaldo, che impastare e
cuocere la Ciabatta ha qualcosa di femminile, di sensuale,
addirittura di erotico. Buona lettura.
Maggio
1982. Un maggio tiepido, foriero di buoni pensieri. Ero a Milano, al
MIPAM, la fiera del pane. Accettai l'invito a pranzo di Antonio
Marinoni, il presidente nazionale dell'associazione panificatori. Mi
portò alla trattoria
“Toscana”, dietro la sede dell'associazione. Il cameriere
depositò in tavola del pane. Mai visto prima. Fette che si
presentavano male, tagliate irregolarmente. Mi incuriosiva il fatto
che la mollica era tutta bucata, tipo groviera. Assaggiai. Rimanendo
folgorato sulla via di Damasco.
--
Che favola di pane, esclamai, cos'è?
--
Ah, è quasi uno scarto, spiegò Marinoni, nel senso che viene fatto
con la pasta avanzata da quella impiegata per le michette.
Aggiungono acqua e sale e la rimpastano, ottenendo una sostanza
ancora più tenera. La lasciano riposare un po', poi la spezzettano.
Il tutto finisce in forno ed ecco il pane che stai mangiando. Brutto
ma buono.
--
Come la chiamano?, chiesi sempre più interessato.
--
Sciavata
comasca,
in quanto i primi a proporla sono stati i panificatori comaschi.
Da
quel pranzo, la sciavata
tenne occupata la mia mente. C'era una ragione occulta in quel pane
tanto buono quanto brutto. Mi ero fatto l'idea di uno scrigno che si
presentava disadorno per depistare, per allontanare l'interesse
altrui. In realtà conteneva la sapienza. Andava violato.
I
pensieri mi riportarono all'esperienza in Francia. Lì la baghette
non era solo il pane riconosciuto come il più gradito al mondo. Era
assurto a fenomeno di studio, di valorizzazione. Con tanto di scuole
specializzate che ne alimentavano il culto. Non per niente, restava
il pane più copiato nel mondo.
Il
professor Calvel, le per de la baghette, (il papà della baghette),
incaricato dal governo francese di divulgarla nel mondo, sosteneva
che la sua atipicità stava nella maglia glutinica della farina, la
parte proteica, dove riuscivano a farci stare una grande quantità di
molecole d'acqua. La ragione dell'alto apprezzamento della baghette
era da ricercare nel suo inusuale contenuto d'acqua. Una
caratteristica che veniva rispettata con rigorosità francescana.
Fino al punto che una sezione della Scuola di Alta Tecnologia aveva
destinato un settore a
le taste,
agli assaggi.
Personale
specializzato si chiudeva in box asettici e insonorizzati. Davanti a
loro, solo pezzi di baghette da mangiare. Dopodiché, davano i voti
ai vari campioni, stilando una classifica. Questi test accertarono
che più acqua conteneva l'impasto di farina, più saporita diventava
la baghette. Raggiunsero un massimo del 65%, decretando la soglia
limite per quel tipo di pasta. Il pane italiano non superava il 55%.
Tornato
da Milano, rimuginai per un mese e mezzo sui punti in comune tra
sciavata e baghette. Sia i panificatori comaschi, sia quelli
francesi, ottenevano un pane eccezionale aggiungendo acqua. Pensa e
ripensa, si accese la lampadina.
"Partendo
dal concetto della sciavata, posso studiare una ricetta autoctona,
non derivata da un'altra, con caratteristiche addirittura superiori a
quella della baghette. In sostanza, che scavalchi la soglia del 65%
di acqua".
Che
ispirazione! Durante l'estate, un sabato, invitai nel mio forno in
Molino tre personaggi autorevoli: Francesco Favaron fornaio a Verona,
Alfio Bia fornaio a Cremona e Vinicio Bertoletti, fornaio a Milano.
Scopo del summit: individuare una ricetta innovativa che contenesse
il 70% di acqua. Il presupposto c'era. Una farina speciale, con alto
contenuto di glutine, predisposta a contenere efficacemente la
maggiore affluenza di liquido. Manco a dirlo, brevettata dai Molini
Adriesi. La sacralità del momento fu suggellata da un poderoso
ragionamento filosofico sugli aspetti cardine: lievitazione-riposo.
Così sia.
Poi
entrammo nel vivo. Buttammo giù una ricetta di massima. Preparammo
la pasta. In forno. Cottura. Stop. Trepidanti verificammo. La mollica
era bucherellata. La crosta morbida, ma non flaccida. Il primo
contatto era positivo. L'assaggio. Favoloso!, esclamammo in coro,
dopo il primo boccone.
Dopodichè
tutti ad Albarella. A casa mia per festeggiare. Felici, sui bordi
della piscina, il vino a farci compagnia. Arrivò mattino senza aver
dormito un minuto. Tornammo nel forno. Secondo impasto. Seguendo le
specifiche del primo. Il pezzo di pasta stirato a mano, appiattito,
determinante per il gusto finale. Quindi, secondo infornata. E giù a
bere. Ininterrottamente.
Appena
uscì il pane, ancora caldo venne imbottito con la soppressa. In
bocca. Da sballo ...
--
Adesso bisogna darle un nome..., biascicai con l'occhio vitreo,
offuscato dal vino ma inebriato dal successo.
--
Someia,
(assomiglia), a
na savata,
(ciabatta), resta
piatto,
fece notare Favaron.
--
Perfetto, annunciai, sarà la Ciabatta Polesana!
La
ricetta di quel giorno è quella di oggi. Mai più modificata. Mi
misi a divulgare la ricetta, magnificandola come base per produrre il
pane più buono del mondo.
--
Sei presuntuoso, mi riprendeva qualcuno.
--
Scusa, rispondevo, ho girato il mondo. Ho visto e assaggiato molti
tipi di pane. E posso dirlo: la Ciabatta Polesana è la migliore. Non
ho trovato alternative in grado di mettere in discussione la sua
leadership. Se tu ce l'hai, farmela vedere ...
--
No, non ce l'ho ...
--
Vedi ... Allora la Ciabatta è la migliore del mondo.
Il
mercoledì divenne il pomeriggio deputato alle prove pratiche nel mio
forno sperimentale. La "Scuola del Pane", come mi piaceva
chiamare quelle ore dedicate alla cultura dell'arte molitoria e
panaria. L'impasto poi, assumeva i contorni del rito. Già perché
nella gestualità delle mani, in quella frenesia di dita e sostanza,
c'era molto di sensuale. Non perdevo occasione per farlo notare.
Come
quella volta. Ero a pranzo al ristorante “Le Calandre” di Rubano,
alle porte di Padova. Un locale di grido. Uno dei pochi dove si
facevano il pane in casa, non fidandosi di quello che trovavano in
giro. Alla fine parlai con un'affascinante signora, presentatami come
la titolare.
--
La ringrazio, sono stato benissimo. Un ristorante del quale mi
ricorderò – incensai - a proposito, visto che punta sulla qualità,
bella signora, perché non viene vedere la mia scuola del pane ad
Adria? Riuscì a strapparle un sì. Qualche settimana dopo si
presentò al Molino.
--
Sono venuta a vedere come fa il suo pane speciale ...
Mi
misi al lavoro. Scherzando, ridendo, blandendo.
--
Non le sembra bella signora, che l'impasto abbia un che di sensuale?
--
Sa che non ci avevo mai fatto caso? Effettivamente ...
--
A volte mi sembra addirittura di sentire tra le mani qualcosa che
hanno le donne ...
Misi
in forno. Entrambi curvi davanti alla finestrella.
--
Che spettacolo sensuale, insistevo, signora mia, sono qui a guardare
il pane che monta e mi sento tutto eccitato. Sì, si è come fare
l'amore ...
Lei
mi squadrò. Più sfacciata che turbata. Poi gettò l'occhio dentro
il forno.
--
Beh, quasi... esclamò.
Fine
della trasmissione.
da “Una
vita nel sole” di Arnaldo Cavallari
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