Er
Cubbano de Roma nun
c’è ppiù. Tomas
Milian se
n’è andato il 22 marzo a Miami, il suo approdo statunitense,
dall’isola natia prima e dall’Italia poi, che per lui è stata
una matrigna tutta particolare: l’ha portato alle stelle senza
dargli mai la vera gloria e dopo lo ha scordato senza troppi
complimenti.
Dei
morti, specie di quelli illustri, non si può dire che bene. Nel caso
di Milian,
amato più dal pubblico che dalla critica e apprezzato per la sua
estrema professionalità più dai registi di
mestiere che
dagli autori,
il bene è meritato.
Ma
senza le ipocrisie, che invece sono traboccate sulla stampa più
mainstream: Il
cinema lo piange,
Il
cinema è in lutto,
ha titolato in tutta fretta più d’uno, abituato a credere che le
tecniche di titolazione contengano verità autonome.
In
realtà, quelli che l’hanno pianto sono gli stessi che, a partire
dagli anni ’90, avevano tentato di rivalutarlo, meglio ancora di
dargli il posto che gli spettava nella storia di quel cinema
italiano, anche di serie
b,
che sapeva parlare un linguaggio internazionale e del quale Milian fu
è stato un volto di primo piano.
Da
Lattuada,
Zeffirelli
e
Visconti
al
trash: con questa breve formula si è tentato di sintetizzare una
carriera che di sicuro avrebbe meritato più attenta analisi.
Tormentato,
pensoso e coltissimo, Er
Cubbano è
stato tra i migliori della composita legione
straniera di
attori che furoreggiò a Cinecittà tra la seconda metà dei ’60 e
i primi ’80. Era in buona compagnia: dei grandi (l’immenso Klaus
Kinski,
il bravissimo Helmut
Berger,
il tosto Mario
Adorf e
l’angelico Lou
Castel),
dei belli (Ray
Lovelock,
Chris
Avram,
Luc
Merenda,
George
Hilton e
Gianni
Garko)
e dei semplicemente bravi (Henry
Silva e
Frank
Wolff)
e si trovata a suo agio con tutti e in tutte le situazioni.
Per
i più, specie per i coatti che lo consideravano un modello e un nume
tutelare, Milian
è
stato Er
Monnezza,
Er
Gobbo,
Er
Trucido e
Nico
Giraldi.
In poche parole, un’icona del trash più viscerale e genuino. Però,
al netto dei soliti sociologismi, occorre prendere atto che lui, da
cubano, è riuscito a fare una cosa che non è riuscita neppure ai
suoi colleghi italiani: interpretare una certa idea di romanità fino
a incarnarla ed esportarla fuori da quelle borgate a cui si era
ispirato.
Ma,
sempre per restare al cinema popolare, Milian
prima
ancora è stato Curchillo,
il bandito messicano ignorante, analfabeta, buono e furbo. Sia che
recitasse con la sua voce, gettonatissima nei western grazie
all’accento latino, sia che se la facesse prestare da Ferruccio
Amendola,
Er
Cubbano tirava
sempre e caratterizzava al massimo ogni ruolo.
Un
camaleonte raro e bravissimo e forse non sarebbe scorretto il
paragone con Gian
Maria Volonté.
Probabilmente per questo fu efficacissimo anche nei ruoli più
nazionalpopolari, che erano il prodotto di uno studio attento della
psicologia di
quartiere,
non dissimile da quello praticato da Alberto
Sordi e
Carlo
Verdone.
La
carriera italiana di Milian
terminò
a metà anni ’80 col declino del cinema di genere, di Cinecittà e
delle sale, e fu sepolta nei ’90 quando la produzione, grazie anche
ai finanziamenti pubblici, finì in mano ai radical chic.
Solo
quelli di Nocturno
Cinema,
impegnati a partire dalla fine del millennio a riscoprire e
rivalutare il cinema italiano dei ’70 e a toglierlo dal ghetto
delle seconde serate, si ricordavano di lui, che in America aveva
costruito una seconda carriera al seguito dei big.
Le lacrime sono giuste,
anche se nei suoi confronti sembrano non poco di coccodrillo.
Sarebbero più sincere se fossero dedicate anche al nostro cinema,
che è morto prima di lui.
Saverio
Paletta
Fonte
Indygesto.it
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