Arrivò
a Milano
a metà degli anni 80. Si era appena laureato in matematica, veniva
da Reggio Calabria e doveva fare un colloquio di lavoro. Nello spot
dell'amaro Ramazzotti,
una radiosveglia trillava entusiasmando l'intero universo: un'altra
"giornata
che non è mai
finita”
iniziava nella Milano da bere.
"Forse
era destino", mi dice oggi Francesco Triglia, "ma la prima
cosa che notai furono gli orologi pubblici. Erano tanti, verdi,
rotondi. In corso Buenos Aires ne contai tre in pochi metri e mi
bloccai per controllare se scattavano in sincrono. Ero stupefatto.
Non sapevo che sarebbero stati la mia vita".
Venticinque
anni dopo,
il dottor Triglia, è direttore generale di Ora
Elettrica,
la compagnia che per oltre 80 anni, dal 1929 al 2011, si è occupata
di fare funzionare gli orologi pubblici della prima città italiana,
ad istituire una rete elettrica oraria, la più antica ed estesa
d'Europa. Da due anni, però, la gestione è passata di mano.
Passeggiando
racconta
dell'orologio atomico di Mainfilingen in Germania, e di quello del
Galileo Ferraris di Torino; spiega che la pausa lunga nel "segnale
orario RAI", annuncia lo scoccare del minuto; parla di
satelliti, computer e di orologi "master & servants".
Rievoca
l'epoca d'oro dell'orologeria industriale: "La precisione era
fondamentale, i badge non esistevano e bisognava timbrare il
cartellino. Una rete di cavi collegava tutti gli apparecchi della
città e squadre di addetti erano al lavoro ogni giorno per
monitorare, riparare, sostituire". Poi si arresta: "Ecco,
guardi, lo sapevo: quello lì è avanti due minuti… Quello invece è
indietro… Ma lo sa che ne ho visti alcuni che sono ancora fermi
all'ora legale ?"
Forse
gli orologi pubblici
non servono più. Sopravvivono come arredi retrò. L'ora esatta non
bisogna cercarla, ci cerca lei. E sui telefonini, alla radio, in TV,
su ogni pagina aperta di Internet, sul cruscotto delle auto e sui
display delle moto. Gli orologi da polso si sono trasformati in
gioielli. Accade al tempo quello che capita alla vita: un'erosione
progressiva della distinzione tra sfera pubblica e privata. Ogni
gesto lascia una traccia e, quindi, diventa pubblico.
È
un'estinzione lenta,
progressiva, ma è da molto che galli, campane, muezzin, sirene delle
fabbriche, hanno smesso di farsi sentire e scandire l'esistenza. Al
loro posto è rimasta un'estenuante giornata che non finisce mai -
come nello spot dell'amaro Ramazzotti
- e rimane a disposizione di chi riesca a catturare la nostra
attenzione.
Il
primo orologio pubblico
di Milano, entrò in funzione il 1 gennaio 1875. Doveva misurare il
tempo comune. "Per decenni il nostro referente", spiega
Triglia, "è stato il Demanio e Patrimonio, l'Assessorato alla
casa. Adesso gli orologi sono passati all'arredo urbano, quello che
si occupa di pubblicità". Passeggiamo per corso Vittorio
Emanuele, a pochi passi dal Duomo. Fa freddo. La gente cammina
veloce. In pochi metri ci sono tre orologi. "Li vede?",
indica Triglia, "due sono in acciaio, ma uno è grigio. Sono
tutti diversi, ormai. Ma non è questo. È che noi eravamo orologiai
prima di tutto. Stavamo attenti a non raccogliere troppa pubblicità
di agenzie di pompe funebri e sexy shop, e c'era una legge non
scritta: nel corso la pubblicità non doveva esserci".
Ora
è sotto ogni orologio. Tempo e commercio coincidono. Non è soltanto
lo spazio pubblico, e anche il tempo pubblico a essere diventato
compiutamente pubblicitario. Il nostro tempo è denaro degli altri.
Giacomo
Papi
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