Mafioso,
mafiosissimo, anzi no. E sul caso Contrada,
in seguito alla recente pronuncia della Cassazione, si è scatenata
la solita ridda da curva sud, aggravata questa volta dall’ipocrisia
per cui i forcaioli di ieri sono diventati i garantisti di oggi o,
nell’ipotesi meno pesante, si sono limitati a raccontare la vicenda
in maniera secca, come Il
Fatto Quotidiano.
E c’è da scommettere che non mancherà chi, pur di svelenare, si
appiglierà ai soliti discorsi antiformalisti:
dirà, cioè, che una cosa sono gli appigli da legulei un’altra i
fatti.
Come
se la Corte
europea dei diritti umani fosse
un covo di Azzeccagarbugli. Come se, invece, la giustizia regnasse in
Italia. Come se, a proposito di giustizia, la Corte d’Appello di
Palermo non avesse preso uno svarione pesantissimo.
No,
stavolta c’è una cosa che molti cronisti giudiziari, i quali a
vario titolo si sono esercitati (e non poche volte accaniti) su
questa storia, non hanno capito: il diritto fa parte del fatto.
Perché è un fatto che Bruno
Contrada
abbia
avuto determinati rapporti e abbia parlato con certe persone senza
avere la consapevolezza di commettere un reato. E questo senza nulla
togliere alla validità di quella nebulosa figura che è il concorso
esterno in associazione mafiosa, senza cui molti amministratori
infedeli e collusi ora starebbero al loro posto anziché in galera.
È
lecita, anzi doverosa, una domanda, a questo punto: come mai c’è
voluto tanto perché la Cedu
scoprisse
che le Corti italiane avevano violato un principio cardine
dell’ordinamento giuridico? Si badi bene: non dell’ordinamento
giuridico italiano, ma di tutti gli ordinamenti giuridici: il
principio di legalità, secondo il quale una persona non può essere
condannata o processata per un fatto se la legge non lo prevede prima
come reato.
Il
concorso esterno in associazione mafiosa iniziò ad essere elaborato
in seguito al delitto Lima,
uno degli episodi più terribili dell’infame stagione dello
stragismo mafioso. «Hanno creato un clima infame», disse allora
Craxi.
Giusto: di quel clima ne ha fatto le spese anche Contrada.
E con lui interi apparati dello Stato. Che andò in frantumi con la
classe politica che lo dirigeva e che stava per essere travolta da
Tangentopoli.
Contrada
finì
in manette per accuse relative a fatti che risalivano alla fine degli
anni ’80, quando lui non era più il poliziotto che in più di
un’occasione aveva messo Palermo a soqquadro, ma un big del Sisde.
E questo passaggio impone un altro quesito: è possibile che un
poliziotto dimostratosi capace, acuto e brillante, una volta entrato
nei servizi segreti impazzisca
e,
di punto in bianco, si metta a trescare con i soggetti che dovrebbe
ammanettare?
Il
grande Montanelli,
a proposito del caso Contrada,
aveva formulato una domanda piuttosto provocatoria: «Si possono
applicare agli uomini della polizia e dei carabinieri, e a maggior
ragione a quelli dei servizi segreti, le stesse regole morali che
valgono per i comuni cittadini? Il campo d’azione di questi uomini
sono le fogne. C’è qualcuno capace di rimestare nelle fogne senza
sporcarsi le mani e contrarne il fetore?».
Sempre
per restare agli amarcord giornalistici, è doveroso citare un
riferimento importante all’operato del Contrada
sbirro.
Importante soprattutto perché proviene da fonte insospettabile di
tenerezze nei riguardi dell’ex poliziotto: Francesco
Viviano,
storica firma di Repubblica,
una testata non proprio innocentista. Nel suo Il caso De Mauro,
il giornalista siciliano mise a paragone l’operato di Contrada
con
quello di dalla
Chiesa
durante
le indagini sulla scomparsa del celebre cronista dell’Ora
di Palermo:
in quell’occasione, il poliziotto, che aveva sperimentato anche
alcune artigianali intercettazioni telefoniche, si era avvicinato
alla verità molto più del giovane e promettente ufficiale dei
carabinieri. Ma la reale differenza tra
dalla
Chiesa,
demolito in vita da certa intellettualità gauchiste perché
persecutore
delle
Br
e
piduista, e Contrada
consiste
in una sola cosa: la morte. Quella morte, cruenta, che, mutatis
mutandis, ha beatificato
anche
Falcone,
osteggiato da vivo in tutti i modi, anche dalle toghe rosse, che fino
all’ultimo gliene fecero di tutti i colori.
Contrada,
che ha tirato fendenti pesantissimi a Cosa
Nostra,
forse non è stato ammazzato perché nel suo caso l’ammazzatina
non
serviva. Già: un agente segreto (ché questo era quando avrebbe
commesso le cose per cui fu arrestato) ha abbastanza peccati. Di più:
una buona fetta del mestiere consiste nel peccare,
sia in relazione ai parametri legalitari, sia in relazione a quelli
etici. Le barbe finte hanno una
deontologia a parte, che si riassume
in un solo concetto: lealismo, che è poi l’unico metro di giudizio
con cui le istituzioni possono e debbono giudicarne il comportamento.
Quindi
la domanda, che non si sono posti gli innocentisti (troppo
indaffarati a usare Contrada
come
feticcio per la consueta e non disinteressata crociata contro la
magistratura), né i colpevolisti (che in maniera altrettanto non
disinteressata hanno preferito raccontare le cose di mafia come un
western grossolano) è più sottile: Contrada
è
stato sleale nei riguardi di quelle istituzioni per conto delle quali
doveva rimestare nel fango? Contrada
ha
parlato coi mammasantissima per dovere o, più prosaicamente, per
farsi i fatti suoi? La vera risposta è qui che va cercata, se si
vuole davvero scrivere la parola fine all’episodio più paradossale
dei fatti di mafia. Il diritto ha stabilito che l’ex capo della
Squadra mobile più in
trincea d’Italia
è innocente. È innocente come sbirro, perché da sbirro nulla gli
si è imputato. È innocente come 007, perché il reato contestatogli
all’epoca non esisteva.
Di questo non si è
accorta la magistratura che lo ha prosciolto solo una volta, ma nel
merito, cioè giudicando sui fatti come se il reato ci fosse.
Ma
dalla cronaca non è emerso un altro dettaglio, tutt’altro che
secondario: condannare Contrada
avrebbe
significato condannare l’intelligence in quanto tale. E questa
considerazione vale molto più, in questo caso, di un tomo di Verri
o
di Beccaria.
Solo una cultura come la nostra, abituata a demonizzare lo Stato a
prescindere poteva insistere a oltranza sulla linea della
colpevolezza. Ora il sipario è calato e i titoli di coda consistono
in un’unica frase dell’ex numero due del Sisde:
rivoglio il mio onore.
Saverio
Paletta
Fonte Indygesto.it
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