Con
la statua di Alarico il nostro provincialismo ha di che pascersi.
Soprattutto, quello degli storici dilettanti che si baloccano con la
leggenda del re barbaro distruttore sol perché, grazie alla morte
del re visigoto, Cosenza è stata lambita dalla Grande Storia. E,
Grazie a questa statua, sono sicuro, torneranno alla carica anche gli
archeologi improvvisati, ansiosi di far trivellare ben bene il letto
del Busento per
cercare il favoloso tesoro su cui, da Giordane in
avanti, hanno fantasticato in tanti. Comunque ringrazio il sindaco
Occhiuto per questo marketing germanizzante. Non perché creda nella
sua iniziativa, ma perché, grazie a questa trovata, ho avuto almeno
la possibilità di conoscere il professor Luttwak, di cui sono
lettore e ammiratore, quando, nell’estate del 2014, venne a Cosenza
per sponsorizzare l’iniziativa. Tuttavia, questa ricerca è roba di
basso profilo, da cui gli storici e gli archeologi veri si tengono a
distanza di sicurezza. E fanno bene, perché nessuno di questi
avventurosi Indiana Jones alla sardella sa o ha mostrato di sapere
chi fosse Alarico. Né lo ha spiegato il Comune di Cosenza, a
dispetto del popò di brochures stampate due anni fa. E c’è da
pensare che neppure l’amministrazione Occhiuto 2.0 non brillerà
per divulgazione.
È
il caso, anche sulla scia di recenti polemiche, di ricordare chi
fosse davvero Alarico e, soprattutto, chi fossero i suoi goti
tervingi (il nome tribale dei visigoti). Dunque, Alarico Amal (questo
è il suo nome goto) era qualcosa di meno di un legionario e molto di
più di un mercenario. Non a caso, figura nella “Notitia
Dignitatum” col nome di Flavius Alaricus e col titolo di magister
militum per Illyricum, cioè generale di corpo d’armata della
Dalmazia. Nulla di strano in un’epoca in cui l’esercito imperiale
era barbarizzato e i vari capi tribù diventavano sistematicamente
alti ufficiali. Per carità, comandavano la loro gente e chi li
seguiva, di cui erano re, e l’Impero, a corto di soldati, si
limitava a sanzionarne lo status nella speranza di addomesticarli.
Barbaro distruttore? Invasore? Proprio no. Quando mise Roma a sacco,
Alarico si comportò come un creditore che cercava di attuare un
“decreto ingiuntivo” per recuperare il soldo, proprio e della
propria truppa. In alternativa, aveva chiesto la “terza”, cioè
il diritto di sfruttamento di un terzo di quei latifondi italici su
cui, fino a due generazioni prima, i goti come lui si erano spaccati
la schiena come schiavi. Il rifiuto di pagare o di concedere le terre
fece scattare il “sacco”, che poi, a rileggere le fonti, non fu
quel granché.
Nulla di paragonabile a quel che avevano fatto Silla
o, peggio, Antonio e Augusto alla fine della Repubblica. Ma Alarico,
per quanto romanizzato, era considerato un “barbaro”. Per di più
era cristiano ariano (cioè seguace dell’eresia del prete bizantino
Ario, le teorie naziste non c’entrano). Per tutti questi motivi non godette di “buona stampa”, visto che gli intellettuali
tardoromani erano cattolici o pagani e, comunque, un po’ razzisti.
Lui, più semplicemente, fu il capo di un popolo che non voleva
distruggere un bel nulla, ma solo far parte dell’Impero e del suo
benessere. La “crisi gotica”, che portò al collasso il mondo
romano, fu perciò una crisi da mancata integrazione, tra l’altro
strana in un sistema che si era costruito nei secoli integrando
popoli diversi. Si pensi a quel che era accaduto coi celti, così
romanizzati da tramandare la romanità a impero già finito. Perché
la stessa cosa non accadde coi goti, che tra l’altro non chiedevano
di meglio che romanizzarsi?
È
di questo Alarico, molto più suggestivo e vero dello stuprafanciulle
della leggenda, che avrei voluto sentir parlare. Con buona pace di
chi, in nome del marketing, si appresta a un altro abuso pubblico
della storia. Ho capito che la politica è impegnativa e amministrare
una città non facile come Cosenza prende tempo. Ma, visto che i
consulenti non mancano, perché non pagarli affinché leggano qualche
libro serio? Magari ci avrebbero evitato figuracce e si sarebbero
resi utili.
Saverio
Paletta
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