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sabato 21 maggio 2016

Il testamento di Marco Pannella.

A rigore, la morte di Marco Pannella non dovrebbe fare notizia: capita che a 86 anni suonati e con una salute malandata come la sua, si lasci questo mondo. Però penso al lavorio intenso delle varie redazioni che, da ieri pomeriggio, hanno iniziato a lanciare la notizia. E penso alle saporose ricostruzioni che stamattina riempiranno le pagine dei giornali. Aspetto, inoltre, le immancabili biografie che affolleranno gli scaffali delle librerie da qui a qualche settimana, in ossequio alla vena necrofila della nostra editoria. Già: ora ci si accorge che Pannella,
pensionato di lusso e quasi cariatide, è stato un importantissimo pezzo della nostra storia contemporanea. «Non ha avuto riconoscimenti adeguati», ha dichiarato la sua affezionata seguace Emma Bonino. Ma siamo sicuri che sia così? Lo scomparso Pannella ha cavalcato alla grande la sua vocazione minoritaria. Avesse fatto parte del “club dei potenti” della Prima Repubblica sarebbe stato il classico signor nessuno. Ma cosa significava avere una vocazione minoritaria (ed elitaria, a tratti prossima allo snobismo), nell’Italia di allora? Significava riprendere e aggiornare gli spunti più significativi della cultura laica e liberale, ridotta dalla cultura di massa dell’epoca a un’eredità polverosa e prossima ad ammuffire. E le battaglie dei radicali per i diritti civili, di cui hanno profittato più o meno tutti, soprattutto chi vi si opponeva, hanno svecchiato non poco la nostra società. A rivedere quegli anni alla moviola, ci si può accorgere quanto sia stato importante il “pannellismo”: ha contribuito a civilizzare la sinistra, sganciandone una parte dal culto acritico dell’operaismo e inoculandovi la passione per la libertà; ha sedotto persino una fetta della destra, costringendola a riflettere in maniera seria su certe posizioni conservatrici che rischiavano di finire nella caricatura; ha propagandato il garantismo, ma con classe e al di fuori delle becere logiche impunitarie della classe dirigente odierna; ha contribuito a recidere certi fastidiosi cordoni ombelicali che legavano la cultura politica dominante alle dottrine totalitarie; ha canalizzato gli impulsi più sani del ’68 e li ha messi a disposizione della stragrande maggioranza degli italiani. Non è stato davvero poco. Soprattutto se si pensa che gli eredi legittimi di quella tradizione laica che Pannella interpretò alla grande, cioè il Pli e il Pri, erano prossimi all’imbalsamazione e barattavano le proprie nicchie elettorali con dividendi di potere all’ombra confortevole dei partiti-chiesa. Certo, il “pannellismo” ha avuto anche la sua nemesi. Rivoluzionari in piazza, i radicali sono diventati reazionari in salotto e si sono dispersi in mille rivoli. I migliori hanno contribuito a civilizzare Forza Italia e il Pd. Altri hanno girovagato in cerca di successi effimeri: è stato il caso di Rutelli e Capezzone.
L’ultima volta che vidi Pannella fu poco più di tre anni fa, quando ne seguii un intervento come cronista. Era ospite di una manifestazione organizzata dall’ex Pdl: tra il pubblico c’erano fior di politici pieni di conti in sospeso con la giustizia che avevano trasformato il suo garantismo in un insulto e sembrava un sopravvissuto. Non solo ai gloriosi anni ’70, non solo ai tanti scioperi della fame e della sete, non solo alle troppe battaglie, ma soprattutto a sé stesso. «Ormai è arrivato», sentii dire a qualcuno. E quel qualcuno non aveva torto: è fatale che i vecchi pionieri diventino obsoleti quando le loro aspirazioni si realizzano.
La verità, forse, è che oggi non c’è più bisogno di radicali: la loro battaglia sul divorzio, ora che il nuovo diritto di famiglia ha quasi abrogato la famiglia legittima, è anacronistica; la loro difesa delle minoranze risulta pletorica, adesso che qualsiasi minoranza chiassosa (a partire da quella gay) riesce a farsi valere a dispetto di tutto, soprattutto del buon senso; la loro lotta per la liberalizzazione delle droghe leggere è addirittura superflua visto che oggi è più facile procurarsi una non leggerissima pasticca che una canna. Il libertarismo vagheggiato a lungo è realtà o quasi. Adesso ci vorrebbe un anti-Pannella che ricordi a tutti l’importanza delle solidarietà e dei diritti sociali. E che, magari, faccia capire che la libertà non può essere l’anticamera della solitudine e la scusa per lo sfruttamento. Un anti-Pannella che faccia tutto questo con la stessa arguta intelligenza e con lo stesso garbato carisma.
Il vecchio leone (della libertà e non della democrazia, checché ne pensi Renzi) lascia un vuoto e una lezione che i liberali e i laici non sono riusciti a metabolizzare. Lascia, in particolare, un bel ricordo, soprattutto in chi, su tante, troppe cose, la pensava diversamente da lui. E, ciononostante, ha sempre avuto la lucidità di capire che tra un radicale e un radical-chic c’è una differenza immensa. Questione di classe: lui era un gattopardo. Ora ci restano i tanti sciacalletti e jene che cercano di scimmiottarlo fuori tempo massimo.


Saverio Paletta

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