A
rigore, la morte di Marco Pannella non dovrebbe fare notizia: capita
che a 86 anni suonati e con una salute malandata come la sua, si
lasci questo mondo. Però penso al lavorio intenso delle varie
redazioni che, da ieri pomeriggio, hanno iniziato a lanciare la
notizia. E penso alle saporose ricostruzioni che stamattina
riempiranno le pagine dei giornali. Aspetto, inoltre, le immancabili
biografie che affolleranno gli scaffali delle librerie da qui a
qualche settimana, in ossequio alla vena necrofila della nostra
editoria. Già: ora ci si accorge che Pannella,
pensionato di lusso e
quasi cariatide, è stato un importantissimo pezzo della nostra
storia contemporanea. «Non ha avuto riconoscimenti adeguati», ha
dichiarato la sua affezionata seguace Emma Bonino. Ma siamo sicuri
che sia così? Lo scomparso Pannella ha cavalcato alla grande la sua
vocazione minoritaria. Avesse fatto parte del “club dei potenti”
della Prima Repubblica sarebbe stato il classico signor nessuno. Ma
cosa significava avere una vocazione minoritaria (ed elitaria, a
tratti prossima allo snobismo), nell’Italia di allora? Significava
riprendere e aggiornare gli spunti più significativi della cultura
laica e liberale, ridotta dalla cultura di massa dell’epoca a
un’eredità polverosa e prossima ad ammuffire. E le battaglie dei
radicali per i diritti civili, di cui hanno profittato più o meno
tutti, soprattutto chi vi si opponeva, hanno svecchiato non poco la
nostra società. A rivedere quegli anni alla moviola, ci si può
accorgere quanto sia stato importante il “pannellismo”: ha
contribuito a civilizzare la sinistra, sganciandone una parte dal
culto acritico dell’operaismo e inoculandovi la passione per la
libertà; ha sedotto persino una fetta della destra, costringendola a
riflettere in maniera seria su certe posizioni conservatrici che
rischiavano di finire nella caricatura; ha propagandato il
garantismo, ma con classe e al di fuori delle becere logiche
impunitarie della classe dirigente odierna; ha contribuito a recidere
certi fastidiosi cordoni ombelicali che legavano la cultura politica
dominante alle dottrine totalitarie; ha canalizzato gli impulsi più
sani del ’68 e li ha messi a disposizione della stragrande
maggioranza degli italiani. Non è stato davvero poco. Soprattutto se
si pensa che gli eredi legittimi di quella tradizione laica che
Pannella interpretò alla grande, cioè il Pli e il Pri, erano
prossimi all’imbalsamazione e barattavano le proprie nicchie
elettorali con dividendi di potere all’ombra confortevole dei
partiti-chiesa. Certo, il “pannellismo” ha avuto anche la sua
nemesi. Rivoluzionari in piazza, i radicali sono diventati reazionari
in salotto e si sono dispersi in mille rivoli. I migliori hanno
contribuito a civilizzare Forza Italia e il Pd. Altri hanno
girovagato in cerca di successi effimeri: è stato il caso di Rutelli
e Capezzone.
L’ultima
volta che vidi Pannella fu poco più di tre anni fa, quando ne seguii
un intervento come cronista. Era ospite di una manifestazione
organizzata dall’ex Pdl: tra il pubblico c’erano fior di politici
pieni di conti in sospeso con la giustizia che avevano trasformato il
suo garantismo in un insulto e sembrava un sopravvissuto. Non solo ai
gloriosi anni ’70, non solo ai tanti scioperi della fame e della
sete, non solo alle troppe battaglie, ma soprattutto a sé stesso.
«Ormai è arrivato», sentii dire a qualcuno. E quel qualcuno non
aveva torto: è fatale che i vecchi pionieri diventino obsoleti
quando le loro aspirazioni si realizzano.
La
verità, forse, è che oggi non c’è più bisogno di radicali: la
loro battaglia sul divorzio, ora che il nuovo diritto di famiglia ha
quasi abrogato la famiglia legittima, è anacronistica; la loro
difesa delle minoranze risulta pletorica, adesso che qualsiasi
minoranza chiassosa (a partire da quella gay) riesce a farsi valere a
dispetto di tutto, soprattutto del buon senso; la loro lotta per la
liberalizzazione delle droghe leggere è addirittura superflua visto
che oggi è più facile procurarsi una non leggerissima pasticca che
una canna. Il libertarismo vagheggiato a lungo è realtà o quasi.
Adesso ci vorrebbe un anti-Pannella che ricordi a tutti l’importanza
delle solidarietà e dei diritti sociali. E che, magari, faccia
capire che la libertà non può essere l’anticamera della
solitudine e la scusa per lo sfruttamento. Un anti-Pannella che
faccia tutto questo con la stessa arguta intelligenza e con lo stesso
garbato carisma.
Il
vecchio leone (della libertà e non della democrazia, checché ne
pensi Renzi) lascia un vuoto e una lezione che i liberali e i laici
non sono riusciti a metabolizzare. Lascia, in particolare, un bel
ricordo, soprattutto in chi, su tante, troppe cose, la pensava
diversamente da lui. E, ciononostante, ha sempre avuto la lucidità
di capire che tra un radicale e un radical-chic c’è una differenza
immensa. Questione di classe: lui era un gattopardo. Ora ci restano i
tanti sciacalletti e jene che cercano di scimmiottarlo fuori tempo
massimo.
Saverio
Paletta
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