Improvvisamente,
in un lunedì di settembre, ho sentito il bisogno di ascoltare
Prince.
Non
perchè avessi letto l'intervista in cui Stevie Nicks raccontava
come, negli anno 80', lui le avesse chiesto di scrivere le parole di
“Purple
Rain”,
e lei avesse declinato sentendosi inadeguata. Non sentivo il
bisogno di rinfrescarmi la memoria su “Purple
Rain”,
della quale mi basta ricordare, “non ho mai voluto essere il tuo
amante del weekend, volevo solo esserti amico”, che ora mi sembra
la classica balla che ti impapocchia uno che non ha lasciato la
moglie, ma al liceo mi pareva una dichiarazione d'amore
commoventissima.
Ho
sentito il bisogno di Prince il giorno in cui l'Italia è uscita
dagli anni 60'.
“In
Francia un uomo emaciato è morto di una grande malattia con un nome
piccino. Per caso la sua ragazza è incappata in un ago e ha
rapidamente fatto la stessa fine”. “Sign
o'the times”
è del 1987, ed è invecchiata benissimo e malissimo. Malissimo
perchè, dal morto di AIDS alla siringa contagiosa, è impregnata di
spirito di quel tempo lì, delle malattie che allora erano nuove,
delle droghe che allora più s'indossavano. Benissimo perchè suona
ancora molto bene, e l'abbiamo molto assorbita, ed è molto immediata
: se dovete montare un servizio di telegiornale che parli di come i
tempi cambino, o anche di come restino uguali, “Sign
o'the times”
è la più facile colonna audio di cui disponiate, (e ha l'indubbio
vantaggio di essere più raffinata e prestigiosa, da un punto di
vista musicale, di, non so, “Nel
tempo”
di Ligabue).
L'ultimo
lunedì di settembre, l'Italia è uscita dagli anni 60'. Sì, sto
parlando del settembre 2011, e gli anni 60' sono quelli del secolo
precedente.
La
mattina, nei bar milanesi, sembrava solo un caso, un evento isolato.
Sui tavolini, sulla prima pagina della copia ciancicata del Corriere
su cui gli avventori sbriciolavano brioche, Francesco Alberoni dava
il suo addio alla rubrica dalla quale ogni lunedì ci aveva avvisato
della sparizione delle mezze stagioni e della mancanza di sapore
della frutta. Neanche i più accorti l'hanno preso per un segno.
Almeno finchè non sono arrivati in ufficio e, dopo aver finta per un
quarto d'ora di lavorare, hanno cominciato a ciondolare su internet.
Prima
è arrivato l'annuncio della chiusura del Bagaglino, ormai
un'istituzione del non far ridere, il cui slogan avrebbe potuto
essere “facciamo
brutte battute dal 1965”.
Poi quello della morte di Sergio Bonelli, l'uomo per colpa del
quale i nostri mariti hanno più albi di fumetti dei nostri figli.
Mentre
ancora stavamo cercando di convincere gli uomini che abbiamo in casa,
che buttare tutti quei Tex
sarebbe stata una sensatissima forma di elaborazione del lutto e li
avrebbe subito fatti sentire meglio, è arrivato l'ultimo colpo : è
morto Enzo Mirigliani. Sì, l'uomo a causa del quale ogni settembre
Rai1 è invasa da tizie in costume intero e coroncina, che non solo
devono essere telegeniche seminude, ma devono anche dimostrare di
avere letto i giornali e di desiderare la pace nel mondo, povere
figlie.
Niente
più padre dei cowboy a fumetti, niente più padre delle miss in
mutande. Gli anni 60', l'unico decennio durato cinquant'anni, erano
davvero finiti.
“Mia
sorella ha ucciso il suo bambino perchè non poteva permettersi di
mantenerlo, e noi mandiamo gente sulla luna. In settembre mio
cugino s'è fatto la prima canna, ora è giugno e si fa le pere” :
ora che sono finiti quegli anni 60' che ci hanno pervaso fin qui,
attraverso tutti i decenni, 80' compresi, ora possiamo forse
archiviare “Sign o'the times” come la canzone cialtrona e beghina
che è, no ?
Guia
Soncini
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